Pride month: costruire consapevolezza per tornare alla radicalità di Stonewall

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Siamo a giugno e – per chi mastica un minimo di attivismo politico – giugno è il così detto “Pride month”, ovvero il mese dove si celebrano i “Moti di Stonewall”, storicamente e convenzionalmente indicati come la nascita del movimento LGBTQIA+ moderno. In tale direzione quasi tutti I Pride si collocano in questo periodo dell’anno. Per chi non è avvezzo a questo tema invece, giugno è il mese dove qualsiasi cosa si colora di arcobaleno. Dai palazzi istituzionali, alle panchine, al merchandising di qualsiasi tipo, potete stare sicurə che a giugno vedrete arcobaleni un po’ ovunque, soprattutto su ciò che potete comprare o votare. Ed ecco che in una calda giornata di inizio estate, possiamo osservare la pletora di turisti girovagare per il nostro gentrificato centro storico con la shopper rainbow, senza avere la benché minima idea di cosa ci sia dietro quella bandiera. O peggio ancora, avendo ben presente il significato intrinseco di quella battaglia ma non capendo quanto dietro quel merchandising ci sia esattamente l’antitesi della stessa.

STONEWALL

Vista con gli occhi di un occidentale bianco e benestante può sembrare strano come la nascita del movimento queer sia stata una vera e propria rivolta (nota come “Moti di Stonewall”).
Rivolta che partì da persone che non hanno manifestato pacificamente in piazza in giacca e cravatta con un gonfalone al petto o una bandiera sulle spalle, ma con rabbia e ribellione furenti di fronte a delle oppressioni storiche e sistemiche, in un paese che a quei tempi come oggi era il fulcro del capitalismo etero cis-bianco coloniale, basato sul profitto e sulla famiglia patriarcale.
Difatti le persone che scesero in piazza a New York nel 1969 erano razzializzate, trans, sex workers, senza fissa dimora, che con la polizia, braccio armato di un paese razzista e sessista come gli Stati Uniti dell’epoca, avevano spesso avuto a che fare con decine di retate, violenze e molestie di ogni ordine e grado. In quelle giornate di fine giugno, arrivate a un punto di non ritorno, quelle persone scelsero di rompere le catene dell’oppressione e non lo fecero chiedendo il permesso alle istituzioni e alla cultura che le opprimeva. Il Pride nacque dalla voglia di ribellarsi al sistema e di sovvertire lo status quo, nacque da una forma di rivolta che non poteva e non doveva essere moderata, pacifica e decorosa.

Questo breve riassunto – utile perlopiù a chi non fa attivismo sul tema – non ha ovviamente la pretesa di essere più di un’infarinatura, data la complessità della battaglia e della genesi della stessa, vuole soltanto porre una bussola sul contesto di cui parliamo, sottolineando il percorso del movimento queer (dopo I moti di Stonewall infatti naque il Gay Liberation Front, che aveva una forte connotazione intersezionale) e la miccia che Stonewall ha contribuito ad innescare. Per il resto suggeriamo un approfondimento sul tema con una semplice ricerca online, di fonti ce ne sono a bizzeffe.

E ADESSO?

Cosa dire sulla comunità queer moderna e sulle sue istanze? Ovviamente da quel 1969 qualcosa è rimasto e molto è cambiato, inevitabilemente verrebbe da dire, dato il passare del tempo e delle esigenze delle persone, dei mezzi di comunicazione e delle circostanze storiche e culturali dei vari paesi – inutile sottolineare come le lotte siano diverse a seconda degli specifici contesti. Per ciò che concerne la nostra Italia, rimane che giugno è il mese dove scendere in piazza con i nostri corpi, con le nostre battaglie e con le nostre vite messe a repentaglio da uno stato e una cultura fortemente misognini, transfobici, queerfobici, razzisti, abilisti, anche se con termini sempre più camaleontici e subdoli rispetto al recente passato. Ma obiettivamente, a parere dello scrivente, le analogie con I Moti di Stonewall finiscono qui.
Se diamo un’occhiata ai Pride più grandi e significativi in Italia e non solo, vediamo quanto essi siano inglobati nello stesso sistema contro il quale sono nati e quanto le sacche di resistenza che portano avanti manifestazioni alternative vengano considerate dai più come “antagonisti”. La deriva fascisteggiante dell’attuale governo è assolutamente preoccupante e ha colpito duramente le persone trans e le famiglie arcobaleno, ciò tuttavia non dovrebbe contribuire, sempre all’avviso di chi scrive, all’annacquamento della lotta ma anzi alla sua radicalizzazione e alla sempre più forte resistenza trasversale e intersezionale dal basso.

FESTA DEL CAPITALE

Quel che è diventato il mese del pride è di base una serie di giornate di “festa”, dove le persone scendono in piazza portando avanti il loro legittimo orgoglio di esistenza e autodeterminazione, diluito però dall’inserimento di esso all’interno del contesto capitalista, machista e patriarcale di questa società, e quindi insito nel concetto di sfruttamento. Il percorso politico e sociologico dietro a questa trasformazione è lungo e complesso e non crediamo che questo articolo sia sufficiente per analizzarlo, si tratta di un meccanismo che il sistema capitalista ha fatto suo per moltissime battaglie politiche e sociali, cavalcando I privilegi economici e di classe che ognunə di noi ha e trasformandoli in materia di indebolimento politico. Diventa perciò normale sentirsi dire che in fondo sfilare al Pride va bene, purché lo si faccia in giacca e cravatta, omologandosi alla cultura di cui sopra che ci tollera soltanto se allineati al mantenimento dello status quo. Diventa altresì normale ringraziare grandi multinazionali del profitto che finanziano I Pride e sfilano con I loro carri al motto di “love is love”, con un piccolo asterisco che rimanda alla dicitura “purchè tu consumi”. Scenari obiettivamente desolanti se penso che chi debba sfilare insieme alle soggettività queer siano quelle razzializzate, lə lavoratorə sfruttatə , lə sex workers, le persone senza fissa dimora, insomma quegli agrumi che il sistema capitalista spreme per alimentarsi e per alimentare anche la borsetta arcobaleno che compri da Primark.

Di fatto il movimento LGBTQIA+ in questi 50 e passa anni ha ottenuto – oltre a diversi diritti perlopiù votati al ribasso e sempre inseriti nel quadro ciseterocapitalista, come ad esempio il matrimonio – di inserirsi in questo contesto: nell’enorme organismo finanziario del capitalismo. Ha ottenuto di essere ingranaggio coerente con un sistema che sfrutta chi lavora, che distrugge il pianeta, che si nutre dell’industria delle armi, che ti concede di vivere bene se hai almeno un privilegio di classe che possa permetterti di vivere, anzi di sopravvivere, a discapito di chi ne ha almeno uno in meno di te.

Tutto questo ovviamente non vuole sminuire l’impegno profuso delle migliaia di attivistə che hanno lottato per le istanze LGBTQIA+ dagli anni settanta a oggi: questo tranello politico, storico e culturale è toccato davvero a tutte le lotte sociali; ciò tuttavia non significa che dobbiamo rassegnarci a questo processo come assodato e ineluttabile lasciandolo fluire nel fiume della storia senza provare ad alzare degli argini.

LE STRADE DELL’AZIONE POLITICA

Vorrei infine chiudere questa analisi spezzando una lancia a favore di chi non si sentirà rappresentato da questo articolo, trovandolo troppo radicale, ma invitandolə altresì alla radicalità. Le persone queer sono varie e variegate, con un passato e delle lotte alle spalle, con differenti background che a mio avviso stonano col concetto di “comunità” che viene troppo spesso usato. La comunità queer, intesa come insiemi di persone che lottano per determinate istanze legate all’autodeterminazione , all’identità di genere, all’orientamento sessuale, ecc non è monolitica ed è composta da persone che praticano attivismo in associazioni, collettivi, partiti politici profondamente diversi e con diversi obiettivi. Non mi sento, personalmente, di condannare una persona di 60 anni che dal 2016 ha la possibilità di unirsi civilmente dopo una vita passata insieme al/la/+ partner, ma vorrei poter lottare per soverchiare il sistema che ci opprime e vorrei che chi ha ottenuto il suo orticello fosse al mio fianco.

Perché è un dovere tornare alla strada originaria e rivendicarla, aver ottenuto il matrimonio (pardon, unione civile) ma poter dire per esempio che il concetto di matrimonio non è sufficiente, che l’amore del mulino bianco, monogamo e coppiacentrico non è nient’altro che uno strumento di controllo del sistema che ci opprime. Quindi bene procurarsi strumenti di sopravvivenza, ma è altrettanto necessario rivendicare questa strada e rispettare chi sceglie di accontentarsi della strada più semplice, senza che però questa strada semplice sia un braccio dell’oppressione sistemica di questa società.

Il Pride servirebbe a rivendicare questo, è nostro e non è di Amazon o di Social Hub nè tantomeno della polizia contro la quale è nato. E poco importa se i tempi sono cambiati, le oppressioni sono le stesse e semmai sono ancora più radicate. Costruiamoci la consapevolezza necessaria per non esserne complici.

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Marco Filippini

Nato e cresciuto a Firenze, dopo aver terminato gli studi classici si interessa di politica e attivismo. Ormai da anni si occupa di diritti civili e sociali, in particolare di tematiche queer e transfemministe, dal 2021 è presidente e fondatore di Love My Way. Nel tempo libero si dedica alla musica, al canto, al teatro e al calcio, in una poliedricità di interessi e tematiche che si riflette anche nella sua azione di attivismo politico e sociale.

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