Apprendiamo da un articolo di Meron Rapoport di Local Call pubblicato il 1 aprile nella rivista + 972 (Giornalismo indipendente da Palestina – Israele) che lo stato sionista di Israele, dopo la rottura della prima fase della tregua concordata con Hamas, sta intensificando sia i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione inerme che le operazioni di terra con l’avanzata di truppe e carri armati.

L’obiettivo, non dichiarato ma che traspare sia dalle azioni sul campo che dai commenti degli operatori militari, è quello di spostare con la forza l’intera popolazione di Gaza “in un’area chiusa e possibilmente recintata. Chiunque venisse sorpreso fuori dai suoi confini verrebbe ucciso e gli edifici nel resto dell’enclave verrebbero probabilmente rasi al suolo”.
La conferma arriva da un giornalista israeliano, Yinon Magal, che su X ha pubblicato che l’esercito israeliano “intende evacuare tutti i residenti della Striscia di Gaza in una nuova zona umanitaria che sarà organizzata per soggiorni di lunga durata, sarà chiusa e chiunque vi entri sarà prima controllato per assicurarsi che non sia un terrorista. L’IDF non permetterà a una popolazione canaglia di rifiutare l’evacuazione questa volta. Chiunque rimanga fuori dalla zona umanitaria sarà implicato. Questo piano ha il sostegno americano”.
“Senza giri di parole – commenta +972 – questa ‘zona umanitaria’, come l’ha definita così gentilmente Magal, in cui l’esercito intende radunare i 2 milioni di residenti di Gaza, può essere riassunta in due sole parole: campo di concentramento. Non è un’iperbole; è semplicemente la definizione più precisa per aiutarci a capire meglio cosa stiamo affrontando”.
A seguire, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha rilasciato una dichiarazione video che accennava a qualcosa di simile:
“Abitanti di Gaza, questo è il vostro ultimo avvertimento. … Se tutti gli ostaggi israeliani non saranno rilasciati e Hamas non verrà rimosso da Gaza, Israele agirà con una forza senza precedenti. Seguite il consiglio del presidente degli Stati Uniti: restituite gli ostaggi e rimuovete Hamas, e altre opzioni si apriranno per voi, incluso il trasferimento in altri paesi per coloro che lo desiderano. L’alternativa è la completa distruzione e devastazione“.
Israele sta accelerando le operazioni in questo senso perché forse si rende conto che la completa evacuazione di 2 milioni di Palestinesi non è così immediata come viene invece sbandierata e che, comunque, questa dovrebbe avvenire gradualmente.
Non è immaginabile spostare tutte queste persone contemporaneamente. Una nuova nakba avrebbe degli esiti davvero imprevedibili.
In questa ipotetica fase di transizione, dove piazzare coloro che non vogliono andare via e coloro, una minoranza, che potrebbero attendere l’evacuazione?
Ecco che si afferma quindi, nei comandi militari israeliani, l’idea di radunare prima “la popolazione in una o più enclave chiuse; poi, lasciare che la fame, la disperazione e la mancanza di speranza facciano il resto. Coloro che sono chiusi dentro vedranno che Gaza è stata completamente distrutta, che le loro case sono state rase al suolo e che non hanno né un presente né un futuro nella Striscia. A quel punto, secondo l’auspicio israeliano, i palestinesi stessi inizieranno a spingere per l’emigrazione, costringendo i paesi arabi ad accoglierli”.
Questa continua e logorante guerra di corrosione della resistenza umana dei Palestinesi conseguirà gli esiti auspicati dagli israeliani?
Riteniamo che probabilmente i sionisti si siano infilati in un cul de sac difficile da sbrogliare.
Intanto le contraddizioni in seno al governo e all’esercito israeliano si stanno acuendo: i riservisti dell’esercito stanno diminuendo, aumentano i disordini civili per il rilascio degli ostaggi e l’attacco alla magistratura, Egitto e Giordania non sono poi così proni nei confronti di Israele.
D’altro canto il governo sionista è costretto da un lato a fare i conti con la resistenza armata di Hamas, che non è stata per niente debellata, e dall’altro con la straordinaria voglia di esistere per resistere del popolo palestinese. È quello che viene definito sumud, parola araba che vuol dire fermezza o perseveranza, tenacia, ma anche resistenza quotidiana. Non riguarda la lotta armata, per i Palestinesi è un simbolo nazionale.
Oggi a Gaza, pur nella immensa tragedia provocata da Israele, “il Sumud si nasconde nella vita di tutti i giorni, fa capolino tra le macerie, i gazawi custodiscono al suo interno la propria umanità”.
Gli oppressi sanno far fronte e, per Israele, non sarà facile sbarazzarsi di loro.

Antonio Fiorentino

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