E’ quasi superfluo sottolineare quanto nei giorni scorsi Sanremo abbia monopolizzato l’opinione pubblica e gli strumenti mediatici di ogni tipo. Soprattutto in epoca social ogni persona sente il bisogno di partecipare in qualche forma al fenomeno analizzando ogni singolo fotogramma del festival, ogni singola nota, stonatura, outfit, gag, dichiarazione, traendone linfa vitale per dibattiti e scandali.
Un evento del genere, a causa dell’importanza culturale che riveste in questo paese, è inevitabile che si porti dietro strascichi e polemiche, proprio perché è un catalizzatore. Lo ha fatto da sempre e sempre lo farà, allorché ogni volta ci sarà chi sentenzierà la celeberrima frase “fuori la politica dalla musica”, che è un po’ come chiedere alle nutrie di stare lontane dall’Arno.
L’arte da quando esiste ha sempre veicolato messaggi sociali e Sanremo ne è una fulgida dimostrazione: per esempio Loredana Bertè nel 1986 fece scandalo portando sul palco un pancione finto, un top e gambe scoperte, dissacrando il patriarcalissimo concetto di maternità dell’epoca, mentre nel 1999 Anna Oxa si presentò con un vistoso perizoma, vincendo tra l’altro la kermesse.
Ma non sono stati soltanto i gesti a passare messaggi sociali al Festival, ma anche le canzoni stesse, da sempre: basti pensare al Ragazzo della Via Gluck di Celentano a Vita Spericolata di Vasco, al forte testo “Italia d’Oro” del compianto Pierangelo Bertoli, o alle recenti “Non mi avete fatto niente” del duo Ermal Meta – Fabrizio Moro e “Blu” di Irene Fornaciari.
È Inutile quindi dire – con una discreta disonestà intellettuale – che non debba esserci una dinamica politica e sociale nell’arte che viene presentata.
E ancora è altrettanto inutile lamentarsi della portata mediatica del fenomeno, posto che la spettacolarizzazione è un paradigma sociologico dei nostri tempi e accoglierlo per quello che è costituisce il primo passo per difendersi da ciò che di negativo porta e per nutrirsi dell’arricchimento di ciò che invece è positivo.
Quest’anno lo “scandalo” è stato sollevato dallo schierarsi da parte degli e delle artistə in gara rispetto al tema del genocidio di Gaza. Fiumi di parole – sì, la citazione è voluta – sono stati spesi per dover mettere delle grottesche pezze a brevi dichiarazioni di questo tenore : “cessate il fuoco a Gaza”, “Nostro silenzio è corresponsabilità”, “Stop al Genocidio”. Roba che, francamente, risulta abbastanza sintetica e soft.
Invece, apriti cielo: quelli che si sono esposti di più (Ghali e Dargen D’Amico) hanno anche dovuto fare i conti con chi li ha tacciati di “sfruttare il palco per diffondere odio”; addirittura la Rai si è precipitata nel diramare un comunicato in diretta a “Domenica In” nel quale è stata espressa solidarietà unilaterale a Israele (tutto questo dopo aver accusato gli stessi artisti di unilateralità – sic). Nel medesimo programma inoltre Mara Venier aveva liquidato Dargen D’Amico sul tema dei migranti – affrontato tra l’altro dall’artista nella propria canzone – congedandolo in fretta e furia e lasciandosi sfuggire a microfono aperto un chiaro “così mi mettete in imbarazzo”.
Senza doverci addentrare ulteriormente nella tematica – la nostra posizione è evidente – la questione è che la musica fa paura: essa è immediata, sanguigna, penetrante e soprattutto arriva all’anima senza filtri. E’ naturale quindi che messaggi anche semplici, veicolati tramite essa, abbiano in realtà un potere smisurato ed indomabile.
La musica è potente, ed è forse la forma d’arte più difficile da sottoporre a censura: ecco perché è temuta quando crea rumore e consapevolezza su un argomento nel quale il silenzio traccia la linea della censura stessa.
“L’indifferenza è comoda, l’ipocrisia peste”, cantavano i Litfiba quasi quarant’anni fa.