Ingranaggi: per ri-umanizzare una collettività

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La signora sotto casa mia è da trenta minuti che parla con Lillo, il cane. Mi chiedo se faccia ancora conversazioni così lunghe con suo marito. È un uomo di piccola statura che ha preso per il collo una vicina nel parcheggio. Ufficialmente perché teneva libero il cane che gli ha graffiato il furgone. Ché lui fa il muratore o l’imbianchino. In realtà il furgone è tutto ammaccato, mi viene quasi l’idea che l’abbia presa per il collo perché è cinese. Dal capannone, in cui la signora vive e lavora, esce il figlio che prende a sua volta per il collo il muratore/imbianchino mentre è ancora avvinghiato sulla madre. È un ragazzino che ha già le mani in pasta in tutti i traffici del tessile ma quella sera gridava solo: lascia stare la mia mamma.

Se vivi verso Vaiano o Vernio, forse Prato può essere anche bella. Ti affacci, vedi le colline e, se ti piacciono, sei contento. Da dove sto io, vedi due fabbriche e tutta la vita che ci gira intorno. A volte incontro dei ragazzi che avevo conosciuto nei centri di accoglienza: scaricano la merce dai furgoni. Vengono solo quando c’è da fare questo. “Loro sono messe peggio di noi” mi aveva detto una volta il mio ex che era nigeriano, indicando uno di questi capannoni. Si riferiva alle ragazze che ci lavorano dentro. Tutte provenienti dalla Cina, tutte giovani, molte con i figli affidati alle nonne e lasciati a migliaia di chilometri di distanza. Chissà se sapevano che sarebbero venute in Italia per questo.

Prato conserva la struttura degli anni sessanta, quando accanto alle case venivano costruiti i capannoni. Con i soffitti alti e le finestre non a norma, sono freddi d’inverno e caldi d’estate. Dal portone semiaperto si vedono le taglie e cuci. Una lavoratrice prende una pezza in mano e la solleva per guardarla, per capirne il verso, se dritto o rovescio. Accanto si accumula una catasta di stoffe più alta del tavolo. Qualcuno porta un sacchetto con dell’acqua: c’è un’anguilla dentro che si muove. Non si rispettano i diritti umani ma fuori si fa la raccolta differenziata della plastica. Un camion suona il clacson: quando i lavoratori escono dalla fabbrica, l’autista apre gli sportelloni. E’ un supermercato su quattro ruote. La spesa si fa davanti al capannone, da lì nessuno si muove.

In fondo siamo tutti sotto sequestro, presi in ostaggio dall’isteria del capitale. Una sera d’estate, un altro vicino ha urlato contro un signore che deve essere il capo della fabbrica accanto a quella del ragazzino: “sei un nervoso del cazzo”. Lui che non mi sembrava avesse proprio la calma di un monaco tibetano. Avevo l’impressione che volesse dire: sei un cinese del cazzo. Ma oggettivamente non l’ha detto. Il pretesto era di nuovo il cane senza guinzaglio che scorrazzava nella via. Ma forse a dargli fastidio sono le Tesla sotto la finestra. Ci hanno insegnato a etnicizzare sia la povertà che la ricchezza; perché dentro le fabbriche, a capire come stanno le cose, per molto tempo nessuno ci ha messo piede. E continua a dire che il cane si era avvicinato al suo perché era libero. A me i cani senza guinzaglio mi ricordano la Calabria e, se proprio devo scegliere, mi piacciono di più di quelli che vengono personificati con la torta di compleanno e le candeline.

Certo che sei hai un marito che urla e prende per il collo la vicina forse preferisci parlare con Lillo. Ma è troppo facile dire: io a certe persone preferisco gli animali. Gli animali non vanno in ufficio. Lunedì sono andata all’Alia a prendere i nuovi cestini della spazzatura e allo sportello, a fare gli straordinari, ci ho trovato una signora e non una bella cagnolina. Gli animali non vanno in comune a firmare un atto di matrimonio. Non assumono ruoli dirigenziali; anche se a volte mi sembrava che abbaiasse, in realtà il preside della scuola in cui lavoravo era ancora un umano. Gli animali non hanno figli che vanno a scuola, che diventano adolescenti e che poi commettono femminicidi. Quelli siamo noi e sempre noi dovremmo tornare ad assumerci la responsabilità di questa società.

Non è facile ma non è neanche difficile. Ci hanno insegnato a fare gli squat per non avere la cellulite -“dovete pensare che vi state sedendo e vi tolgono una sedia da sotto il sedere”, dice l’istruttrice in palestra. Se riusciamo ad immaginarci l’idiozia di questa figura retorica, mi viene quasi da pensare che possiamo re-imparare a comunicare fra di noi. La società è come un grande ingranaggio, basta muoverne un pezzetto, non dobbiamo spingerlo tutto e non dobbiamo farlo da solə. Per esempio, l’altro giorno un’amica mi ha chiesto come fosse andata la presentazione della mia ricerca in inglese. Sapeva che avevo l’ansia. Ma non poteva sapere che ho anche chiesto informazioni su come ritirarmi. O forse si! Poi una collega mi ha risentito l’inglese, mi ha corretto gli accenti. E ho fatto la presentazione. Mi sono assunta il mio piccolo pezzetto di responsabilità. Ma ho avuto accanto chi mi ha attutito i colpi.

Ne ho avuto la conferma al festival della Letteratura Working Class alla ex-Gkn, che è diventato un luogo sociale, culturale, un punto di ritrovo dove ci si supporta l’un l’altrə. Noi sosteniamo i lavoratori e viceversa. “Raccontaci della presentazione in inglese!”, mi chiede Katia, una solidale del collettivo ex-gkn. E le racconto dell’aiuto della mia collega e poi dell’arroganza del maschio, bianco, mediocre che mi sedeva accanto con le gambe aperte e una ricerca poco scientifica sullo schermo. Lei mi racconta del padre ottantenne con l’Alzheimer. Una vita tesserato Pci e davanti alla notizia in Tv del bunga bunga di Berlusconi, dice che in fondo la colpa era delle ragazzine. E penso che i padri ci facciano incazzare tutte allo stesso modo. Ridiamo e scherziamo, mentre di sottofondo ci sono i panel sulle autonarrazioni Working Class: dal cameriere calabrese a Vienna alle donne di pulizia nei sobborghi di Londra. Dai lavoratori metalmeccanici dell’ex-Gkn, ai lavoratori dei Sudd Cobas de-umanizzati nelle fabbriche del distretto pratese. Chissà se tra le lavoratrici davanti casa mia ce n’è qualcuna che sta scrivendo la sua storia, raccontando che odore ha lo sfruttamento.

Stare in società e non isolarsi ti ricorda che ce la fai perché una collettività ti sostiene quando non riesci a spingere tutto l’ingranaggio. Il cane mi avrebbe solo leccato la mano e non sarebbe stato abbastanza.

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Dopo la laurea in Sviluppo economico e Cooperazione Internazionale, mi sono presa un anno sabbatico per Londra e poi l'India, infine per vedere i proiettili sui muri a Sarajevo. Tornata in Italia ho lavorato prima nei Centri di Accoglienza Straordinaria come insegnante L2 e operatrice legale, dopo nella scuola Secondaria di II° come docente di sostegno e di Filosofia e Scienze Umane. Da quest’esperienza nasce il mio blog “Lettera da un professionale” https://letteradaunprofessionale.wordpress.com/chi-sono/. Al momento sono dottoranda in Peace Studies presso La Sapienza con una ricerca sulle migrazioni.

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