Da quando è stato introdotto il Reddito di Cittadinanza, nel 2019, la risposta degli imprenditori italiani alla difficoltà di soddisfare la propria domanda di lavoro è stata “le persone non vogliono più lavorare perché hanno il Reddito di Cittadinanza, è colpa sua se non troviamo lavoratori”. In questo discorso, che esonera gli imprenditori da ogni responsabilità, il gruppo sociale più colpevolizzato è quello dei giovani accusati di essere degli “scansafatiche”.
Ma il RdC ha realmente il potere di inibire l’offerta di lavoro? Prima di rispondere è bene ribadire quali sono le caratteristiche di questa policy. L’espressione Reddito di Cittadinanza, infatti, rischia di trarre in inganno: non è un reddito universale erogato indistintamente all’intera cittadinanza, si tratta invece di una politica del lavoro.
Sulla pagina del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali si legge che «si tratta di un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e di inclusione sociale, di cui i beneficiari sono protagonisti sottoscrivendo un Patto per il lavoro o un Patto per l’inclusione sociale». Si tratta, fondamentalmente, di un sussidio alla disoccupazione assegnato sulla base dell’ISEE familiare e la cui durata è limitata: se si rifiutano due offerte di lavoro, infatti, si smette di percepire il RdC. Il RdC non è, dunque, una fonte di reddito stabile nel tempo. Inoltre, secondo i dati aggiornati al nove maggio 2022 dall’Osservatorio Reddito e Pensione di Cittadinanza, chi percepisce il reddito in media riceve 558.17 euro al mese. Se una simile somma dovesse realmente essere concorrenziale ad uno stipendio, il problema nel reperire offerta di lavoro andrebbe ricercata nel mercato del lavoro stesso e non in una misura di contrasto alla povertà e nella pigrizia di chi lavoro.
Lo sguardo della classe imprenditrice indignata rischia di essere miope, e additare i lavoratori – giovani soprattutto – come persone pigre che vogliono vivere sulle spalle della comunità, ci impedisce di osservare alcuni movimenti che stanno attraversando il mercato del lavoro. È vero, ad esempio, che in Italia nel 2021 quasi due milioni di persone si sono dimesse volontariamente dalla propria occupazione e, secondo i dati forniti dal Ministero del Lavoro, questo fenomeno è cresciuto del 33% rispetto all’anno precedente. Ma per capire cosa succede bisogna allontanarsi e chiedersi, innanzitutto, se questo sta avvenendo solo in Italia. La risposta è no; ad esempio, sempre nel 2021, 4.3 milioni di statunitensi hanno presentato dimissioni volontarie. E anche negli Stati Uniti il dibattito pubblico ha cercato di liquidare il fenomeno tirando in ballo la pigrizia dei giovani lavoratori.
La giornalista del lavoro Sarah Jaffe ha provato ad analizzare questo fenomeno cercando di comprendere le motivazioni di chi si dimette, senza giudicare o colpevolizzarne la scelta. Facciamo un passo indietro fino al 2013, l’anno in cui nacque un forum di discussione online attorno al quale si costituì un anti-work movement (movimento contro il lavoro). Le basi ideologiche del movimento traevano origine dal pensiero anarchico e socialista e l’idea di fondo era che la maggior parte dei lavori non fossero più necessari, che la struttura del mercato del lavoro imponesse ai lavoratori una schiavitù salariale e li espropriasse del valore dei beni e servizi da loro prodotti.
Il forum è un luogo in cui i lavoratori possono raccontare e condividere le loro storie di sfruttamenti e abusi sul lavoro e, soprattutto, si trasforma rapidamente in una piattaforma in cui chiedere consigli su come negoziare condizioni di lavoro e salari migliori. L’anti-work movement, infatti, non propone l’abolizione totale del lavoro, ma propone una critica radicale dell’attuale sistema economico capitalista e del mercato del lavoro che lo sorregge. La proposta del movimento è quella di auto-organizzarsi in quanto lavoratori, non lavorare sempre ma soltanto quando è necessario, smettendo così di creare capitali e beni in eccesso.
Jaffe sottolinea alcune peculiarità dell’anti-work movement: se nella letteratura classica sui movimenti sociali si fa riferimento a network – composti da gruppi o persone – che perseguono un mutamento sociale attraverso delle azioni collettive, l’anti-work movement si discosta da questa definizione di base. Molte delle persone che abbandonano il proprio posto di lavoro non lo fanno per unirsi ad una più ampia lotta collettiva, ma perché considerano le proprie condizioni di lavoro insopportabili. Il movimento, in sé, non rappresenta (ancora) un attore sociale in grado di determinare un cambiamento profondo nelle relazioni di lavoro, per far ciò sarebbe necessario un conflitto sociale su larga scala che formasse una massa critica di lavoratori che abbandonano il proprio lavoro.
Un momento di svolta per l’anti-work movement, in questo senso, potrebbe esser rappresentato dalla pandemia di Covid-19. Il sociologo Tom Juravich, dell’Università del Massachusetts, sostiene che la pandemia ha interrotto il lavoro per come lo abbiamo conosciuto. Certamente durante i mesi più duri della pandemia abbiamo iniziato a sperimentare nuove modalità di lavoro, tra cui la possibilità di lavorare da casa. Per quanto si stia cercando di tornare in ufficio a delle forme più tradizionali di lavoro, una parte della classe lavoratrice si sta opponendo: per chi vive a molti chilometri di distanza dal proprio posto di lavoro, l’home-office, rappresenta una valida alternativa per risparmiare tempo e denaro. Lavorare da casa, inoltre, per alcune persone significherebbe poter meglio conciliare il tempo da dedicare al lavoro e quello per la famiglia. Noi non sappiamo quale alternativa sia “migliore”, forse la scelta ideale è poter scegliere come lavorare e ritornare all’idea di auto-organizzazione proposta dall’anti-work movement. Lavorare unicamente da casa, in un’ottica di genere, infatti non è una prospettiva del tutto allettante poiché questo rischia di sbilanciare ulteriormente la condivisione del lavoro domestico e di cura ed esporrebbe a maggior rischi le donne in relazioni violente.
Ma perché proprio il Covid-19 potrebbe rappresentare un momento di profonda frattura? Dai dati dell’ONU è possibile constatare quanto la pandemia abbia accresciuto le disuguaglianze a livello globale e Oxfam ha ripreso ed elaborato questi dati nel rapporto “La pandemia delle diseguaglianze”. A pagare i costi più alti è stata la classe operaia e, soprattutto, le donne. Il punto di svolta, tuttavia, per il movimento anti-work non è stato solo l’aumento delle disuguaglianze. Kate Bronfenbrenner, è direttrice del Labor Education Research presso la Cornell University School of Industrial and Labor Relations, ha evidenziato quanto i lavoratori e le lavoratrici abbiano tollerato in precedenza condizioni di lavoro sempre peggiori, e come il Covid abbia reso evidente anche in Occidente che condizioni di lavoro ingiuste mettono a rischio la vita stessa della classe lavoratrice.
In questa presa di coscienza e nella pretesa di veder rispettati i propri diritti e nel richiedere condizioni di lavoro e di paga migliori è da ricercare l’incremento dell’anti-work movement, anche in Italia, soprattutto dal 2020 in poi. Più che colpevolizzare i lavoratori e le loro richieste, la classe politica dovrebbe ascoltarne le richieste e chi chiede lavoro dovrebbe mettere in discussione le condizioni di lavoro proposte.