Le fiere dell’immobiliare sono il luogo d’incontro privilegiato tra amministrazioni locali e capitali finanziari. È qui che disponibilità di terreni e immobili (pubblici) si incrocia con la propensione a fare investimenti (privati) sulle città.
“Il pilastro della nostra manifestazione sono gli eletti”, afferma una dirigente della fiera Mipim di Cannes (cit. in Antoine Guironnet, Au marché des métropoles, 2022). Sono cioè i rappresentanti politici “che possiedono i suoli e gli edifici per i progetti. Mentre gli investitori finanziano le idee magnifiche. Senza suoli non si fa nulla; ma neanche senza denaro”.

La finanziarizzazione dello spazio urbano
Da più di un decennio gli stand della fiera francese, tra le più importanti a livello globale, sono animati da sindaci, assessori e presidenti di regione alla ricerca di investitori esteri disposti a promuovere (finanziariamente) progetti, aree e complessi edilizi per i quali si è rinunciato a studiare usi collettivi e non mercantili, nel quadro di una pianificazione urbana e territoriale sempre più sbiadita.
Amministratori e politici, tuttavia, non vi si recano con l’esclusiva finalità della vendita o della ricerca di soci in operazioni di partenariato pubblico-privato. La loro presenza in fiera è intesa anche quale dimostrazione dell’accondiscendenza e personale adesione al sistema di finanziarizzazione delle città. È un rito di accreditamento attraverso il quale gli eletti si rendono meritevoli di credito presso fondi finanziari, colossi della gestione del risparmio o società quotate di investimento immobiliare che scommettono sulle città e che richiedono, in contropartita, scenari di città smart, attrattive, con una pennellata di social, green e woke.
La dismissione del patrimonio civico è strategia di mercato
Possedere suoli e beni immobiliari pubblici non è sufficiente. Questi devono infatti essere liberati dalla loro condizione civica, che li lega al soddisfacimento dei fabbisogni degli abitanti in termini di socialità, salute, educazione, benessere, urbanità. Si tratta di una condizione che, grazie alla proprietà collettiva, permette il godimento del “lusso per tutti” (Simone Weil); la possibilità, non solo di un’attiva vita politica estesa alle popolazioni insediate, ma anche della sua sopravvivenza (Hannah Arendt); nonché la perpetuazione delle competenze di edificare società (Françoise Choay).
Nelle città si è così assistito a servizi soppressi o delocalizzati per svuotare (e quindi disporre alla vendita) edifici, spesso di pregio, spesso nei centri storici. Oltre alla obliterazione della loro natura pubblica e comune, i beni alienati sono liberati dal controllo pubblico delle trasformazioni e dall’obbligo di redistribuzione dei vantaggi (privati) da queste derivanti. Ciò avviene a mezzo di facilitazioni urbanistiche, spesso ricadenti sotto l’ambigua voce di rigenerazione urbana, o di tariffari degli oneri concessori mai aggiornati al valore di mercato.
La mutazione dei beni demaniali in puro mezzo dell’accumulazione di capitale e dell’espansione finanziaria è un tassello del passaggio dalla produzione sul territorio alla vendita del territorio, dalla proprietà dei mezzi di (ri)produzione sociale alla loro cessione al mercato. Si tratta di un processo che presuppone l’assimilazione delle politiche territoriali alle strategie di marketing; l’equiparazione dei beni comuni ad asset finanziari; l’assimilazione dei residenti ad azionisti; la sostituzione del linguaggio politico con quello della promozione mercantile, utile a presentare la città come il luogo giusto per investire.
Un portafoglio di asset immobiliari
La finanziarizzazione, ovvero lo sviluppo urbano trainato dagli investimenti di capitali privati trans-nazionali (i quali, come è nella loro natura, rispondono dei risultati di natura economica delle loro operazioni, senza porsi questioni in merito al benessere degli abitanti), tende ad assoggettare spazio costruito e suoli a una logica prettamente economicista che interpreta spazi urbani ed edifici come prodotti finanziari. Il fenomeno, definito dagli studiosi come “assetization”, ci restituisce l’immagine di città come portafogli di asset. Tra di essi spiccano oggi le cosiddette “tre S”: social housing, student housing e senior housing. Protagoniste nel campo delle tre S sono le grandi società finanziarie che conformano i propri capitali anche su una sempre più ampia proprietà immobiliare (di frequente già pubblica).
In tale direzione, la vendita dei beni demaniali si è rivelata una delle principali leve. Gli strumenti legislativi (e il piano delle alienazioni) varati da Giulio Tremonti negli anni zero, hanno dato sostanza giuridica alla campagna di cartolarizzazione dei beni pubblici. Poiché le parole sono habitus morale (come ci spiega Giancarlo Consonni), non meraviglia l’uso del lemma “cartolarizzazione” impiegato dal ministro berlusconiano, che nel gergo finanziario corrisponde alla trasformazione del diritto di proprietà in titoli finanziari scambiabili sui mercati internazionali. Si noti che investire oggi su prodotti finanziari immobiliari è ritenuto più vantaggioso, perché più fluido, che vendere o acquisire appartamenti.
Tra gli indicatori delle “opportunities”, due sono ritenuti i più sensibili da investitori e promotori: la sicurezza dell’ambiente in cui si vuole investire e la mobilità a servizio dell’area di futuro investimento. Se da una parte, l’indicatore mobilità rischia di far prevalere quei progetti infrastrutturali più utili ai player finanziari che alla cittadinanza, quello inerente alla sicurezza rischia, dal canto suo, di rafforzare il diffuso fraintendimento tra securitarismo e sicurezza sociale, generando politiche di decoro che contribuiscono all’espulsione delle fasce sociali più deboli dalle aree di investimento.
L’abbandono progressivo, da parte delle amministrazioni locali, di efficaci funzioni in merito all’urbanistica e alla pianificazione territoriale, che sarebbero loro costituzionalmente attribuite, sta contribuendo al vuoto di politiche sociali, nel quale si muovono quei soggetti privati che si aggiudicano spregiudicatamente i servizi al cittadino, esternalizzati.
Vuoto che diviene incolmabile quando vengono a mancare fisicamente, perché alienati verso il privato, proprio quegli spazi dove le attività a sostegno dei bisogni incomprimibili della cittadinanza possono effettivamente svolgersi.
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Il presente articolo è apparso sul “Giornale dell’Architettura”, che ringraziamo. L’articolo, apparso nello speciale “Patrimonio e spazio pubblico: risorse in trasformazione” a cura di Luigi Bartolomei e Milena Farina, può essere letto nella versione originale a questo link: https://speciali.ilgiornaledellarchitettura.com/2025/03/29/quando-la-citta-svende-se-stessa/

Ilaria Agostini

Se l’articolo fosse riferito ai detentori della chiesa di S.Spirito, quel complesso è interamente bene di proprietà pubblica, dichiarato già da tempo inalienabile e di grande importanza storico artistica. Come è possibile che gli enti( prefettura, regione, comune) non facciano i proprietari con gli annesso obblighi. Il prete detta legge all’ intero quartiere e i ragazzi rimangono senza palestra.