«L’urbanistica di Milano pare ossessionata dal proposito speculativo: non si sa pensare in funzione del divenire della città, ma si agisce in funzione della rendita delle aree, il che è della economia sbagliata, anzi da condannare».
Sembrano parole riferite alla realtà attuale, ma invano le cerchereste sui maggiori quotidiani italiani dei nostri giorni. Bisogna sfogliare la rivista «Meridiano di Roma» del 7 novembre 1937 (a. II, n. 45) per imbattersi in questa presa di posizione del direttore Pier Maria Bardi. Il confronto con l’oggi è imbarazzante. Ci salvano, per fortuna, «Eddyburg» (2002-2019), «Altreconomia», «ArcipelagoMilano», «La Città invisibile», «Il Fatto quotidiano», «il manifesto», «Officina dei saperi», «Salviamo il paesaggio», «Volere la luna» e poche altre voci libere.
Nel dopoguerra ad andare in controtendenza è solo la politica per la casa popolare, con i grandi quartieri per operai e impiegati e l’opera dell’Ina Casa: sul resto della città la speculazione edilizia spadroneggia. Ma quando, tra il 1974 e il 1990, la classe operaia viene decimata dalla deindustrializzazione e dalla delocalizzazione il problema della casa per tutti viene completamente rimosso dall’agenda politica dei partiti, di destra come di centrosinistra. Da allora gli interessi ruotanti attorno alla rendita immobiliare dettano legge, a tutto campo.
Un incentivo in questo senso è venuto dal trasferimento alle Regioni delle competenze in materia di governo del territorio a seguito della riforma dell’art. V della Costituzione con la legge costituzionale 3/2001 (nota come legge Bassanini). La legislazione regionale – in Lombardia la legge 12/2005 –, invece di promuovere la difesa del territorio e della città come bene comune primario, è andata in direzione di favorire le logiche neoliberiste.
Con il nuovo secolo, l’affacciarsi sulle città della finanza mondiale e dei fondi di investimento trova poi a Milano una sontuosa riserva di caccia predisposta da un’amministrazione pubblica compiacente. Porta Nuova e Citylife sono l’inizio della marcia trionfale sbandierata dai media come «Modello Milano»: un’onda sollevata dalle giunte Albertini e Moratti e pienamente assecondata da quelle guidate da Giuliano Pisapia e da Beppe Sala.
Ora, se il fascismo, mettendo a «ferro e fuoco» Milano (parole di Cesare Albertini, dirigente comunale progettista del Piano regolatore del 1934), perseguiva un chiaro disegno politico – espellere dal centro della città quanto resisteva dei ceti popolari (oltre 100.000 persone private della casa dal piccone demolitore) – chi ha guidato il Comune negli ultimi venticinque anni quale strategia può vantare, se non quella di avere delegato decisioni cruciali sulla città a chi ha in mano le leve degli investimenti immobiliari?
Ciò che in questi mesi sta accadendo nell’ex capitale morale non è confinabile all’ambito giudiziario (un quadro da cui, va detto, emergono differenze tra gli operatori, dove a essere penalizzato è anche chi ha fatto impresa rispettando le regole). Lo scandalo di Milano è, prima di tutto, politico.
Consiste in una semplice e tragica verità: nel primo quarto del XXI secolo la città ambrosiana è stata pesantemente ridisegnata nella sua configurazione fisica e nella sua composizione sociale da un insieme di operatori immobiliari, liberi di realizzare interventi a grana grossa e media con un unico obiettivo: la massimizzazione della rendita sugli immobili.
Interventi che, nell’insieme, rispondono a un preciso disegno: forzare le regole ispirate a misura, discrezione e affabilità che, a Milano, avevano fin lì guidato la costruzione della città compatta (regole ritrovabili persino negli interventi massicci negli anni del boom economico) per iniettare nel corpo urbano presenze arroganti e dissonanti, grumi, più o meno mascherati, di gated communities.
Da cui un balzo poderoso in direzione della disarticolazione della città e della caduta dell’urbanità (con conseguenze sul fronte della sicurezza, del tutto trascurate, quando non strumentalizzate, dalla politica).
L’assenza poi di attenzione da parte della Pubblica amministrazione alle dinamiche complessive del mercato immobiliare – e di ogni contromisura – ha fatto il resto. Il proliferare degli affitti brevi ha sottratto al mercato una quota non trascurabile del patrimonio disponibile per gli abitanti per metterlo a disposizione dei city users (per lo più turisti). Ma, nel capoluogo lombardo, a incidere ancor più sul mercato dell’affitto è l’enormità di alloggi sfitti (109.404, di cui 16.423 di proprietà pubblica), con un peso del 22,6% sul patrimonio edilizio complessivo, pari a 809.990 appartamenti (dati Aigab). Questi fatti, uniti a una produzione di nuove abitazioni quasi esclusivamente rivolta al ceto medio-alto, hanno contribuito all’impennarsi del prezzo degli affitti, saliti in media a Milano del 40% negli ultimi quindici anni (IL POST).
E questo senza che il Governo nazionale e quelli locali battessero un colpo; il che ne fa i responsabili primi di quanto è venuto avanti.
Eppure, da tempo, i nodi erano venuti al pettine: le difficoltà di trovare conducenti per l’Atm e infermieri per gli ospedali pubblici e privati aveva mandato segnali inequivocabili. E lo scarseggiare di questi, come di altri lavoratori essenziali al funzionamento della città – un fatto del tutto nuovo nella storia di Milano –, non è che la punta dell’iceberg.
L’innalzamento incontrollato della rendita immobiliare agisce più che mai come una pressa sul corpo sociale più debole (qualifica che si va ormai estendendo a una parte del ceto medio) provocando una nuova espulsione di abitanti dalla città centrale dopo quella che, dal 1975 al 1997 –– aveva visto il capoluogo lombardo perdere un quarto della sua popolazione, per un totale di 429.192 abitanti. Un esodo biblico di famiglie per lo più operaie, imperante la «Milano da bere» (ma si sa, c’è sempre chi festeggia, ignaro, o meno, dei drammi altrui).
Si dirà che quanto è accaduto Milano non è dissimile da quanto si è registrato a New York, a Londra e in diverse altre grandi città. È, questo ritornello, un modo per un’intera classe politica per autoassolversi e per nascondere la testa sotto la sabbia. Vienna, Copenaghen, Barcellona e Monaco sono lì a dimostrare che si possono prendere contromisure, su più fronti, per garantire il diritto alla città. E per assicurare inclusione e far fiorire l’urbanità.
Altro che pavoneggiarsi con la città dei 15 minuti. Semmai gli amministratori degli enti locali (Città, Città metropolitana, Regione) dovrebbero occuparsi delle vite di chi, per connettere casa e lavoro, spende più di due ore al giorno. E, magari, cominciare a chiedersi se non vi sia un nesso tra i livelli proibitivi raggiunti dagli affitti e il calo vertiginoso delle nascite.
Dalle meschine vicende milanesi non si esce certo con il Salva Milano, ma con una profonda revisione della politica. Fare e difendere città (urbs e civitas): è questo che la politica deve rimettere al centro. Nella consapevolezza che, senza occuparsi della convivenza civile, la politica perde ogni significato.
L’articolo che qui pubblichiamo è uscito su “ArcipelagoMilano” il 2 settembre 2025, <https://www.arcipelagomilano.org/archives/66005>.
Giancarlo Consonni
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