Lo scaffale del debito (5): Debito e colpa.

Il vocabolo tedesco Schuld al singolare vuol dire “colpa”, al plurale, Schulden, “debito”. Etimologicamente proviene dall’antico gotico skulan, da cui derivano anche il tedesco sollen e l’inglese to shall, tutti verbi che indicano un’obbligazione materiale e morale, un “dovere”. Originariamente la parola indica “qualcosa che si deve”, “un obbligo a cui si è legati”. Solo successivamente interviene, nella lingua tedesca, il suo utilizzo in contesti legati al denaro. Emile Benveniste, nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, osserva che il gotico skulan «traduce contemporaneamente opheilo nel senso di “essere debitore”» e lo stesso verbo opheilo del greco dei vangeli. Il complesso contesto semantico a cui il vocabolo tedesco fa riferimento rimanda dunque a un’origine più antica. Ne è testimonianza l’uso neotestamentario della parola opheilema (da ophelio, a cui fa riferimento Benveniste nel passo precedentemente citato), che nel greco antico ha il significato economico di “debito”, ma che nel Nuovo Testamento acquista anche, ad un tempo, la valenza morale della “colpa” e del “peccato” (p. 147).

Il quinto testo che vi proponiamo sul debito è di Elettra Stimilli che ne indaga i rapporti con stimilli (Copia)il concetto di colpa e gli effetti conseguenti al loro operare reciproco. La prima connessione tra debito e colpa, come abbiamo già detto in altra recensione, si può far risalire alla seconda dissertazione della “Genealogia della morale” di Nietzsche, ma l’approccio che ne fa Stimilli è di una sua problematizzazione alla ricerca dei modi di funzionamento del sistema creditizio in quanto veste attuale del sistema capitalistico, ma anche quale dispositivo assoggettante che determina e spiega quella forma di impotenza manifestata da coloro che invece avrebbero tutte le ragioni per attivarsi e ribellarsi alla sua esistenza. La commistione tra debito e senso di colpa diviene quindi, per l’autrice, il probabile paradigma attraverso il quale il dispositivo del consenso mette in atto le sue capacità operative. Non ci sono però volontà esegetiche, si tratta invece come di un percorso problematico a scandagliare ipotesi provenienti da più terreni di ricerca quali i concetti di appropriazione, divisione e produzione secondo C. Schmitt; quello psicologico di pulsione di morte da Freud e Melanie Klein; la rilettura che Judith Butler dà di questo elemento pulsionale reinserito nel contesto politico attraverso quella che lei chiama “la vita psichica del potere”; la teologia politica e quella economica del terzo e quarto capitolo che fanno riferimento principalmente al lavoro di Agamben, Esposito e Cacciari (aggiungerei il Mario Tronti di “Il nano e il manichino/La teologia come lingua della politica”) nonché di Benjamin, Weber e Foucault.

Stimilli fa una prima operazione di sistematizzazione dei concetti intorno ai quali si può muovere il concetto di debito, così si parla preliminarmente di appropriazione, scambio, e dono. L’appropriazione, come abbiamo detto è ripreso da Schmitt, il concetto di scambio si arricchisce invece delle riflessioni foucaultiane sulla governamentalità. Secondo Foucault, infatti, l’aspetto governamentale caratteristico delle società di mercato contemporanee corrisponde ad una razionalità che mira a dirigere dall’interno le vite individuali attraverso l’istituzione di norme in sé non repressive, né violente ma incentrate sui desideri, sulle passioni e anche sulle modalità di valutazione e di scelta degli esseri umani (p. 38). Questa posizione sposta la centralità marxiana dal modo di produzione al mercato. È il mercato in quanto istituzione normativa a determinare il fatto che l’economia divenga una forma di governo politica. Il mercato dunque come luogo di veridizione, perché connette produzione, bisogno, offerta e domanda, valore e prezzo. Si apre così una prospettiva, un nuovo punto di vista attraverso il quale «il dispositivo alla base del fenomeno dell’indebitamento non risulti tanto dalla degenerazione dell’autoregolazione del mercato, quanto piuttosto come sua stessa conseguenza intrinseca» (p. 39).

Si prosegue con i dati antropologici che smentiscono ancora una volta le convinzioni dell’economia classica che leggeva i comportamenti a partire da un presupposto egoismo quale propensione naturale dell’uomo, questa volta facendo riferimento agli studi di Polanyi per i quali l’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale, ma in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, la sua rete relazionale, il suo prestigio sociale, il suo stesso onore. Sarebbe dunque una peculiarità della società capitalistica il fatto di aver perso il senso della comunità sociale avendolo sostituito con un utilitarismo individualistico, proiettando poi questa idea nell’interpretazione degli altri sistemi sociali. Ecco fare la sua comparsa al concetto di dono che poi ha articolazioni in certo qual modo simili ai meccanismi che sottostanno a quelli del debito. Il dono crea un’obbligazione, come un debito contratto con il proprio donatore. Anche il dono prevede un differimento (un dono immediatamente restituito è un dono non avvenuto).

elettra-stimilliPoi la moneta, anch’essa dipendente da una forma di credito «ogni moneta è in effetti moneta di credito, dato che il suo valore si basa sulla fiducia del ricevente di ottenere una certa quantità di merce in cambio» (citazione da Simmel, Filosofia del denaro, Utet, Torino 1984, p.263). Una domanda regolarmente esplicitata rimane comunque sul sottofondo del lavoro della Stimilli ed è se l’attuale forma di potere incentrata sul debito, somigli o meno a quelle perpetuate in altri sistemi sociali. La differenza è comunque in relazione alla pervasività attuale del debito stesso. Elemento già preso in considerazione in alcuni degli ultimi lavori di R. Esposito che sollevano ulteriori quesiti: «è in atto un mutamento profondo delle forme di potere, che implica anche un ripensamento delle modalità di resistenza o di antagonismo» (p. 69). Si paventa così il bisogno di un lavoro politico che consenta la possibilità di articolare forme di contropotere altrettanto «compatte e capillari» delle attuali modalità di dominio. Ma forse, aggiungeremo noi, le forme di capillarità sono già in atto, e quello che occorre è il riuscire a compattarle. Viene da sospettare che il tempo attuale non sia espressione di una crisi del capitale, ma si tratti invece di una sua ristrutturazione. La cappa obnubilante del debito giustifica infatti i tagli allo stato sociale, lo smantellamento dei diritti e l’appropriazione di tutte quelle funzioni che adesso lo stato vuole esternalizzare.

Il testo della Stimilli tocca e cita anche i temi svolti da Graeber e da Lazzarato che abbiamo già raccontato per poi addentrarsi su quel terreno che l’autrice aveva già affrontato in alcuni precedenti lavori (Il debito del vivente – Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011 e sempre per la stessa casa editrice: Il culto del capitale – Walter Benjamin: capitalismo e religione, curato insieme a M. Ponzi e D. Gentili). Si riaffaccia qui l’ipotesi accennata anche da Graeber su un debito primordiale profondamente inserito nell’ambito religioso di società arcaiche che influenzava le relazioni tra gli individui. C’era come un debito di vita da riconoscere agli antenati che condizionava tutti i rapporti a partire dalle costruzioni parentali e che inglobava sia la sfera economica, sia quelle giuridica e politica. Questo debito originario d’ordine religioso condizionerebbe a tutt’oggi le relazione umane. Questo comporta che il legame finanziario (il rapporto credito/debito) fosse in qualche modo anteriore allo scambio. In ambito giudaico-cristiano il cosiddetto peccato originale ha una funzione abbastanza simile e in particolare l’assume attraverso un meccanismo particolare:  bisogna prendere in considerazione il processo attraverso il quale il peccato, concepito inizialmente come un fardello che grava sulle spalle di chi ha commesso una colpa, si modifica sino ad assumere nel Nuovo Testamento il senso di un debito che deve essere ripagato. (cfr. G. A. Anderson, Il peccato, Liberilibri, Macerata 2012). L’efficacia del dispositivo di assoggettamento dipende dunque dalla possibilità di far coincidere la colpa con il peccato mettendo in atto un ordinamento che conserva il suo dominio attraverso lo stato di soggezione che il peccato produce e che il debito contratto provoca. Qui di nuovo agisce il senso dello spostamento dell’istituzione del Giubileo, da anno di liberazione dalla schiavitù per debiti ad anno di perdono dei peccati. Se così fosse un ritorno alle origini smonterebbe l’efficacia del meccanismo e il pensiero da esso derivato.

In questo contesto il sacrificio sarebbe la transazione originaria, una donazione come ricompensa per il dono di vita che dèi o antenati avrebbero concesso. Riprendendo una tesi di Aglietta e Orlean (due economisti francesi facenti parte della scuola dei regolazionisti) proprio dalla prassi sacrificale sarebbero nate le prime monete usate quali “oggetti simbolici” per la remunerazione di colui – un terzo tra le parti – che si prendeva il carico dell’esecuzione materiale del sacrificio. Il rito permetteva così il trasferimento del potere dal mondo degli dèi a quello degli uomini favorendo l’istituzione della sovranità. In definitiva e sinteticamente Stimilli dice: «Il problema del debito generalizzato per molti versi è l’espressione di un potere coercitivo, in cui il dispositivo teologico-giuridico della “colpa” si identifica con quello economico del “debito”» (p. 106).

La colpa che equivarrebbe all’essere in debito (al sentirsi in debito) Stimilli la ritrova in Esposito e Agamben, di quest’ultimo una citazione che dà la chiave dell’approccio biopolitico alla questione:

la cifra [della] cattura della vita nel diritto non è la sanzione […], ma la colpa (non nel senso tecnico che questo concetto ha nel diritto penale, ma in quello originario che indica uno stato, un essere in-debito: in culpa esse) (p. 111 in “Homo sacer” p. 32)

Debito e colpa intersecano anche il campo religioso non soltanto come derivazioni secolarizzate di concetti teologici, ma anche aprendo una discussione o una riflessione sugli influssi che le religioni hanno su elementi del capitalismo neoliberista sia dal punto della genealogia, sia da quello degli sviluppi, mettendo in primo piano la questione dei rapporti più o meno strutturali tra i due ambiti, proponendo approfondimenti che comprendano – all’interno delle riflessioni weberiane e a quelle suscitate dalla ripresa del frammento benjaminiano sul capitalismo come religione – un’analisi dei rapporti tra capitale e religioni comprendendo dunque anche quelle non cristiane, per una lettura della globalizzazione che renda conto dell’emergere di economie come quelle asiatiche o dell’influenza dell’Islam nel settore del credito e quindi della finanza.

L’ultimo capitolo è quello che riprende il lavoro della Butler in relazione alla “vita psichica del potere” attraverso la quale ci troviamo di fronte a «nuove forme di istituzioni normative in grado di amministrare l’economia libidica a fondamento della vita umana con modalità non esclusivamente repressive, ma attraverso la riproduzione continua di condizioni indebitanti» (p. 187).

In conclusione diremo che il saggio di Elettra Stimilli mettendo in relazione i concetti di debito e colpa, coglie forse uno dei nodi più importanti di riflessione-discussione nell’attuale contesto delle pratiche antagoniste. Ricerca anche l’insieme delle possibilità che illustrino il più possibile i modi di operare del neoliberismo per riuscire a mettere in atto adeguate contromisure tutte comunque ancora da definire, mettendo a disposizione una grande quantità di materiale pressoché indispensabile.

*Gilberto Pierazzuoli, scrittore e attivista di perUnaltracittà