Il libro raccoglie tre saggi, due di essi già pubblicati in precedenza, ma sui quali l’autore ha fatto un lavoro di revisione, e un terzo che ad essi si collega, aprendo però la possibilità di ulteriori sviluppi. Quest’ultimo infatti, secondo la dichiarazione dell’autore stesso, sarebbe “l’enunciazione stenografica” di un programma di ricerca da poter portare avanti. Il primo saggio (Mondanità – Contesto sensibile e sfera pubblica) si occupa del concetto di mondo e quindi del modo di stare al mondo e di poterlo o meno determinare. Per fare questo l’autore si muove intorno alla falsariga costituita dalla relativa coincidenza di pensiero che Kant e Wittgenstein hanno sull’argomento e che arricchiscono la riflessione a partire dalla semplice e celebre definizione proposta da Heidegger – anche se non citata espressamente – quella per la quale la pietra non ha mondo, l’animale è povero di mondo e l’essere umano è invece formatore di mondo. Il che vede infatti Virno parlare – sulla scorta di Plessner e Gehlen – di una problematicità dell’umano perché sprovvisto, al contrario dell’animale, di un ambiente definito. Viene così conseguenziale il secondo testo, questo di carattere più espressamente politico, che si chiede come lo stare al mondo dell’uomo agisca sul mondo (o possa agire sul mondo) in vista di un cambiamento supposto radicale. Qui troviamo discussi alcuni dei concetti che più caratterizzeranno il pensiero di Virno, in particolare quello di intelletto pubblico (il ‘general intellect’ del Marx del frammento sulle macchine), che si apre al concetto di virtuosismo. Seguono poi l’esodo e la moltitudine, quest’ultima intesa come opposta al concetto di popolo che, a partire da Hobbes, ha invece dominato il pensiero politico sino quasi ai nostri giorni. Questi due saggi sono resi attuali in quanto costituiscono il retroterra e il riferimento teorico per l’ultimo dei tre.
Il primo saggio è il più corposo e il più specificamente filosofico, tanto che è più difficile sintetizzarne una chiave di lettura così come proporne una sintesi esplicativa, se non per ricordare che la riflessione è in parte orientata sull’idea di mondo e quindi sull’effetto che l’uso del linguaggio comporta nella determinazione dell’ambiente mondo, con conseguenze impreviste: «[…] che gli uomini abbiano un “mondo” (riguardo al quale la compenetrazione è sempre imperfetta, irrisolto l’attrito, parziale e precario l’orientamento) anziché un “ambiente” (in cui, invece, si è integrati irrevocabilmente come in un liquido amniotico), ciò è dovuto ai limiti del linguaggio, non già alla sua potenza rappresentativa» (p. 69, abbiamo sostituito il corsivo con il grassetto per motivi editoriali). Se poi la mancanza di ambiente indica anche un possibile smarrimento nell’abitare il mondo, ne nasce però una possibilità, quella del riconoscersi della moltitudine. Un trovar casa per coloro che condividono l’esperienza del «non sentirsi a casa propria» per cui i molti sono realmente tali, perché di fatto condividono detta esperienza. Il “non sentirsi a casa propria” è infatti lo stato d’animo della moltitudine che dà rilievo a ciò che è davvero comune perché espone al Comune in quanto tale (p. 83). La coscienza di questa condizione ci giunge proprio perché siamo costantemente indaffarati al contenere e circoscrivere l’ambiente che ci circonda. La povertà di esperienza dell’abitare il mondo produce un atteggiamento simile a quello tipico dell’infanzia che poi genera l’iterazione ossessiva del gesto insita appunto nel gioco: il gioco «non è già un “fare come se”, ma un “fare sempre di nuovo”; la trasformazione dell’esperienza più sconvolgente in un’abitudine, ecco ciò che costituisce l’essenza del gioco» (p. 90, Virno cita Benjamin). Si tratta cioè di un modo di vivere la “povertà di esperienza” relativa al rapporto con l’ambiente che induce a ricominciare, anche «a ripartire dal Nuovo, a farcela con il Poco» (p. 91 altra citazione da Benjamin). Con una “povertà di esperienza” che si contraddistingue a partire da una “sovrabbondanza di mondo”.
C’è poi – a chiudere il primo saggio – l’emergere fattuale dell’intelletto comune (general intellect) che, nelle sue articolazioni, può farci anche intravedere «la possibilità che la potenza del pensiero si estrinsechi come spazio politico, o meglio, come Repubblica della moltitudine» (p. 108).
Con il secondo saggio il linguaggio cambia registro, si fa più simile a quello di un trattato politico. Qui, programmaticamente, vengono avanzate un paio di tesi e parimenti di ipotesi come, ad esempio, questa: «Mentre la simbiosi di sapere e produzione procura l’estrema, anomala e però vigorosa, legittimazione al patto di obbedienza nei confronti dello Stato, la commessura tra general intellect e Azione politica lascia intravedere la possibilità di una sfera pubblica non statale» (p. 117).
Chiave di lettura della condizione contemporanea è l’aumento esponenziale del lavoro “in cui il prodotto è inseparabile dall’atto del produrre”, quella parte cioè di lavoro salariato che non è considerato da Marx lavoro produttivo, quello che, dice ancora Marx, svolto da “oratori, insegnanti, medici, preti” ma che, insiste ancora Marx, rappresenterebbe (ai suoi tempi) “una grandezza infinitesima rispetto alla massa della produzione capitalistica” (citazione a p. 119). Questo è probabilmente uno dei nodi il cui scioglimento potrà portare a un’interpretazione più lucida della realtà contemporanea dove, «nell’organizzazione produttiva postfordista, l’attività-senza opera diventa il prototipo del lavoro salariato in generale» (p. 121). Il concetto ha radici di riferimento antiche. Si tratta della distinzione tra Azione e Lavoro, azione che sarebbe fin da subito imparentata con la ricerca della “buona vita” (Aristotele Eth. Nic.,VI, 1139 b) e che, secondo Arendt, avrebbe «una grande affinità con la politica» , in quanto la prestazione (esibizione) avrebbe una dipendenza dalla presenza altrui. Qui si adombra in realtà un conflitto tra Arendt e Marx in quanto, per la prima, la “vita della mente” non avrebbe niente a che fare con la cura degli affari comuni che porterebbe a una vera esposizione pubblica. Marx, invece, concepisce il general intellect come “capacità scientifica oggettivata” (p. 126) cioè come capitale fisso. La realtà contemporanea ci mostra invece come l’intelletto in generale che ha unito Lavoro e Azione, vada a costituire la facoltà che rende possibile ogni esperienza e che si estrinseca nel semplice mostrare l’attitudine che, ad esempio, permette ad un singolo parlante di poter accedere alla lingua che è attributo e origine del general intellect stesso. L’inattualità di Marx diventa invece attuale e preveggente quando equipara l’attività virtuosistica al lavoro servile.
Se l’epoca postfordista è caratterizzata da servile virtuosismo, valorizzazione della facoltà di linguaggio e relazione con la altrui presenza, Virno chiama Esodo «la defezione di massa dallo Stato, l’alleanza tra general intellect e Azione politica, il transito verso la sfera pubblica dell’Intelletto» (p.130). Occorre in definitiva trovare un riferimento da poter di nuovo perimetrare per marcare l’ambito degli affari comuni. Si tratta di una “sottrazione intraprendente” che pensa a una via di fuga che sia infine fondativa, perché, viceversa, soltanto chi fonda ha la capacità di trovare un varco per sottrarsi, “abbandonare l’Egitto”, dice Virno. L’Esodo presuppone una serie di parole chiave che l’autore prova a circostanziare nel prosieguo del saggio, esse sono: Disobbedienza, Intemperanza, Moltitudine, Soviet, Esempio, Diritto di Resistenza, Miracolo.
In gioco sono i conflitti sociali che si manifestano non solo e non soltanto come protesta ma come defezione. «L’exit consiste in una invenzione spregiudicata, che altera le regole del gioco e fa impazzire la bussola dell’avversario» (p. 134). Il soggetto della fuga è la Moltitudine; e così via per i concetti citati al preambolo. Lo sviluppo dell’Esodo produce a cascata una serie di corollari molto interessanti. Ne cito uno ad esempio. L’opposizione amico/nemico per la quale – per Schmitt – l’amico aveva la sola caratteristica di condividere il medesimo nemico, viene invece adesso definita dalle relazioni di solidarietà che si stabiliscono nel corso della fuga. Si incide anche sull’entità e sulla valutazione di “nemico” rovesciando l’attributo di relatività e assolutezza connessi al suo stato in una situazione di fronteggiamento, opposta adesso alla sottrazione dallo scontro che la fuga presuppone.
Veniamo al terzo saggio, a quelle note stenografiche in attesa di essere sviluppate. L’uso si riferisce all’ordine del tatto. Nel linguaggio l’uso è il modo sotteso al compito delle preposizioni. Le cose usabili sono espressione della potenza che può mettere in atto una serie infinita di suoi adempimenti e che quindi non si può esaurire. Far coincidere l’uso con il consumo è un vecchio espediente a difesa della proprietà privata e carattere precipuo delle risorse messe in produzione oggi. Giovanni XXII negò a Francesco di Assisi di poter inserire nella regola francescana il rifiuto della proprietà con la spiegazione che i frati non potevano scegliere il solo uso delle cose, perché tramite il consumo delle stesse di fatto se ne sarebbero appropriati (G. Agamben, Altissima povertà, Neri Pozza, Vicenza 2011). Le cose sono diverse per quanto riguarda le risorse epistemiche e linguistiche inerenti il modo di produzione postfordista che infatti forza l’uso verso il consumo. «Questo sistematico quid pro quo, grazie al quale l’uso viene trasfigurato a consumo, è l’asse portante del capitalismo contemporaneo, ma anche un focolaio della sua crisi permanente» (p. 159). Il capitale immette il consumo anche nel prodotto del lavoro immateriale; tratta una conoscenza come se fosse un metro cubo di gas del quale non resta nulla dopo esser stato usato (ivi).
Ultimo “appunto di ricerca” è quello che fa riferimento al lavoro di preparazione al quale l’attore si sottopone prima (e per) la messa in scena. Che sia opera di immedesimazione o, al contrario, opera di straniamento, Stanislavskij vs Brecht, il lavoro dell’attore ha caratteristiche topiche confrontabili con la figura dell’imprenditore di sé che caratterizza la situazione postfordista. L’attore usa infatti una quantità di lavoro su di sé maggiore di quella che dovrà impegnare nell’opera vera e propria (la reale messa in scena). La situazione in cui è immerso l’attore potrebbe cioè restituirci il paradigma del lavoro su di sé, implicito alla condizione del lavoratore attuale.
Attori e rappresentazioni richiamano anche l’ultimo libro di Giorgio Agamben su Pulcinella. Il nesso è che, secondo Agamben, il carattere precipuo della maschera sarebbe la sua capacità di trovare delle vie di fuga; capacità che sembrerebbe richiamare il concetto di Esodo proposto da Virno. La maschera si accompagna infatti a un’altra caratterizzazione legata a mettere in risalto le possibilità del linguaggio. Questo aspetto parrebbe essere semplicemente funzionale a suscitare il riso, ma invece permette quei fraintendimenti che, lungi da piombare nell’insignificante, possono fare emergere i termini e la condizione della moltitudine dei subalterni, disarmando il linguaggio dalle sue prerogative di controllo. Una delle etimologie probabili del termine “persona” deriverebbe dal latino PERSONA, dal verbo per-sonare (risuonare attraverso), traducibile con maschera che faceva riferimento alla maschera di legno che amplificava i tratti somatici, sottolineando e caricaturando i caratteri, ma anche amplificando i suoni. La persona allora diviene tale nel momento che accetta di recitare un ruolo al quale si deve addestrare. Essa sarà stata assoggettata a un ruolo e sarà circuibile nella misura di una sua presenza nella dinamica sociale con l’eccezione di quella maschera che, pur nella presenza sulla scena, aveva invece sempre e da prima escogitato una via di fuga o, meglio ancora, riesce, avendo lavorato sulle possibilità del linguaggio, senza sottrarsi, a ribaltare a proprio favore gli esiti delle tensioni. Più Arlecchino che Pulcinella. E, con riferimento ancora a Schmitt, alla capacità del pirata di presentarsi su un terreno che esclude lo scontro frontale.
MmPaolo Virno, L’idea di mondo, Intelletto pubblico e uso della vita, Quodlibet, Macerata 2015. Pagine 204, € 16.50.
Gilberto Pierazzuoli
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