Per una ferrovia pubblica e sociale

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Il 29 maggio 2017 si è tenuto un convegno a Firenze dal titolo: Nazionalizzare le FS? Per il diritto alla mobilità, alla sicurezza, per i diritti dei lavoratori, per un futuro del trasporto pubblico.

Il convegno si è posto l’obiettivo di rilanciare un dibattito sulla necessità della ripubblicizzazione del trasporto ferroviario a cominciare da un netto NO allo scorporo e alla immissione sul mercato del trasporto alta velocità e a lunga percorrenza e con la richiesta di reintegrare nelle FS il trasporto merci.

Le Ferrovie dello Stato Italiane, come “azienda autonoma” a controllo pubblico, hanno assolto per oltre un secolo, dal 1905, il loro ruolo di collegare il paese dal nord a sud e di garantire un trasporto dei pendolari nelle aree metropolitane.

Esse sono nate attraverso l’atto di nazionalizzazione che rilevava le molteplici ferrovie private finite in fallimento. Ma la presa in carico da parte del soggetto pubblico statale, punto di partenza per la costruzione di un’innervatura del trasporto su ferro di persone e merci, fu frutto anche di una battaglia culturale, parlamentare e sociale. Fra i partecipanti al dibattito i ferrovieri che chiedevano il rilancio del vettore treno sul nuovo piano nazionale.

Non fu solo una questione di bilancio (si nazionalizzavano le perdite dei privati, si dava il via ad ingenti finanziamenti), fu una questione di sviluppo. Con lungimiranza di più parti sociali (anche la parte della Destra storica in parlamento votò a favore) la ferrovia fu intesa come infrastruttura che consente lo scambio, la mobilità, l’attecchire di attività collegando le parti più lontane e meno raggiungibili del paese.

Nel 1964, cosa che si tende a voler dimenticare, si arrivò addirittura a sfiorare il pareggio di bilancio, ancora con la “ferrovia vecchia”, quella pubblica, con oltre 220.000 ferrovieri in servizio, con oltre il 35% delle merci trasportate, con periodi in cui si contavano fino a 300 “treni derrate” al giorno, cioè di frutta e verdura che dal sud raggiungevano il nord dell’Europa, Poi il potere dei signori della gomma dilagò. Iniziò la contrazione del servizio ferroviario.

Dopo che le FS avevano assolto alla loro funzione originaria, accumulato patrimoni e servizi strategici, è cambiato l’orientamento politico: si trattava, nel mutato quadro, di privatizzare i profitti. Da quel punto quindi sono cominciate le dismissioni di lavorazioni, servizi, conoscenze e competenze specifiche; la logica del profitto ha soverchiato le altre, a discapito di organicità, estensione capillare, qualità, sicurezza totale. Il modo di pensare privato non pensa alla diffusione del servizio, si concentra dove c’è rendita. Si comporta in modo parassitario, non di promozione. Le linee periferiche non sono l’aggancio e immissione del traffico a quelle maggiori, non sono garanzia di spostamento pendolare, sono “rami secchi”.

La proprietà è ancora rimasta nelle mani del governo (il controllo è in mano al Ministero del Tesoro) ma amministrata pienamente con logiche di mercato che nulla hanno a che vedere con gli interessi generali. Inoltre la permanenza formale della proprietà statale assicura la possibilità di mobilitare enormi risorse verso imprese private: le FS rappresentano infatti il più grosso committente di opere (dai binari agli annessi, dalle vetture alle forniture, alla realizzazione delle linee TAV più care d’Europa).

Le FS hanno così così cominciato a svolgere il compito cui il capitalismo nostrano le aveva destinate:

  • riduzione drastica del personale impiegato
  • compressione salariale e riduzione dei diritti dei lavoratori
  • esternalizzazione di molte funzioni
  • spacchettamento in varie controllate, tutte gestite da ben remunerati consigli di amministrazione popolati da politici di tutti i colori
  • riduzione dei canoni di sicurezza per andare incontro a necessità di risparmio economico
  • possibilità di gestire appalti in maniera privatistica, pur amministrando risorse pubbliche

Accanto alle profonde trasformazioni aziendali i governi che si sono succeduti hanno provveduto alla riduzione drastica dei diritti dei ferrovieri; in questo è stata tragicamente utile la normativa introdotta con la legge 146 sul diritto di sciopero e tutti i successivi aggiornamenti sempre peggiorativi per i lavoratori. Nella sostanza il diritto di sciopero si è così contratto da potersi considerare impraticabile. L’illusione che la regolamentazione del diritto di sciopero avrebbe garantito il diritto alla mobilità è presto svanita, mentre le condizioni dei lavoratori sono precipitate. È precipitato anche il livello delle relazioni interpersonali tra lavoratori via via che sono stati introdotti modelli e meccanismi competitivi, sconosciuti ad una categoria che aveva fatto della solidarietà un’arma invincibile.

La strage di Viareggio è emblematica del decadimento delle condizioni di sicurezza; purtroppo è solo uno degli anelli di una catena tristissima di incidenti e disastri. Non si cerca più la massima sicurezza, ma quella “economicamente sostenibile”, un calcolo di pro e contro di tipo “assicurativo”.

Un altro cambiamento profondo nelle FS è avvenuto nel trasformare l’azienda in appaltificio di grandi opere inutili, che uniscono costi enormi per la collettività, scarsa utilità sociale, pessima quantità e qualità del lavoro sviluppato, favorendo addirittura una capillare penetrazione mafiosa; il modello TAV italiano ha penalizzato pendolari e trasporto regionale in favore di una minoranza, di quella élite economica e politica che vive nelle principali città, favorendo nella sostanza l’incremento del traffico privato su gomma e limitando il diritto alla mobilità, tagliando fuori non solo le zone più remote del paese, ma addirittura penalizzando intere zone industriali più lontane dalle metropoli.

La recente decisione di fusione tra ANAS e FS non può che far nascere un mostro monopolistico soggetto al diritto privato; l’impunità e la sfacciataggine di imporre alla collettività opere insulse e dannose si fa sempre più grave, il tutto nella sostanziale resa della politica davanti agli interessi dell’oligarchia dominante.

Anche la recente decisione di procedere alla collocazione sul mercato del servizio AV, le cui tariffe consentono – per ora – una gestione vantaggiosa, sono un sostanziale furto di risorse della collettività; il sistema TAV che conosciamo è costato circa 100 miliardi di euro ai cittadini e ora se ne regala il profitto alle grandi imprese private, dopo decenni di promesse che quei proventi avrebbero finanziato il trasporto regionale.

La ferrovia pubblica consente per gli utenti un contenimento dei costi nella gestione di scala delle risorse e nella razionalizzazione del servizio in ogni parte del paese, ai cittadini una programmazione generale ed integrata del trasporto fra le varie tipologie di servizio, nonché l’alleggerimento sulle strade del traffico privato.

Ma la nazionalizzazione non garantisce di per sé il perseguimento di quegli scopi di pubblica utilità: occorre che il bene pubblico sia posto sotto gestione comunitaria, trasparente, partecipata e non delegata agli inutilmente mitizzati manager.

Da oggi questo Comitato si propone di rappresentare le ragioni illustrate e di renderle diffuse nel dibattito politico, per costruire una consapevolezza che arresti lo smantellamento e riconduca il trasporto ferroviario nel solco dell’interesse generale. A partire dagli obiettivi immediati di non scorporare il servizio AV per la collocazione in borsa e di reintegrare nel soggetto madre il trasporto merci.

Si scrive treno, si legge democrazia e giustizia sociale.

*Comitato per una Ferrovia Pubblica e Sociale

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