Come secondo testo della miniserie di recensioni dedicate all’ecologia politica (qui la prima) abbiamo un altro libro scritto a quattro mani. Questa volta si tratta di Philippe Pignarre e di Isabelle Stengers. Philippe è un personaggio multiforme: trotskista della “Lega Comunista Rivoluzionaria” negli anni ’70, è stato direttore della comunicazione per i laboratori di Synthélabo, una delle più grosse case farmaceutiche francesi, nonché docente di medicinali psicotropi presso l’Università di Parigi VIII. Alla Synthélabo fonda l’istituto omonimo “per il progresso e la conoscenza” con il quale edita una collana indipendente e prestigiosa dal nome “Les empêcheurs de penser en rond”, non prima di aver avuto garanzie sulla completa autonomia editoriale della stessa. Quando la Synthélabo è stata acquisita da Sanofi formando il gruppo Sanofi-Synthélabo, Philippe viene licenziato. Insieme a Isabelle fonda allora una nuova casa editrice con lo stesso nome della collana appoggiandosi alle edizioni Seuil. Per sopraggiunti disaccordi, lascia la Seuil nel 2008 sbarcando alla Découverte dove pubblicherà con la dizione: Empècheurs de penser en ronde/La Decouverte.
Isabelle si è laureata in chimica, ma è poi passata a studi filosofici sino ad arrivare alla cattedra di Filosofia della scienza all’Università libera di Bruxelles. In Italia è conosciuta per aver cofirmato insieme a Ilya Prigogine, premio Nobel per la Chimica, La nuova alleanza (edito nel 1981 da Einaudi) testo nel quale viene fondato il concetto di complessità che darà poi adito alla costruzione di quella che viene appunto chiamata “Teoria della Complessità”. I suoi studi critici sulla pretesa autoritaria della scienza moderna, l’avvicinano a temi ambientalisti ai quali dà un contributo che sposta il punto di vista verso una direzione politica di taglio anticapitalista.
È appunto di undici anni fa l’edizione originaria di Stregoneria capitalista – Pratiche di uscita dal sortilegio, che testimonia la posizione politica dei nostri autori. Undici anni ma, come dicono Claudia Baracchi e Stefania Consigliere nell’introduzione, la traduzione di questo testo non arriva in ritardo. In un certo senso la sua attualità è divenuta ancora più pregnante tanto da richiedere come un prolungamento della loro riflessione alla luce dell’aggravamento degli squilibri da essi denunciati. Se un elemento di datazione può però emergere, è relativo alla sua nascita che è connessa a quei momenti di apparente riflusso dei movimenti legati al global forum che si erano rivelati e manifestati in quello che viene chiamato l’evento-Seattle.
Per recuperarlo occorreva e occorre oggi più che mai un cambiamento del paradigma della modernità che possa portare a poter scendere a patti con «la molteplicità dei mondi e con la pari dignità di ciascuno di essi» (p. 7).
L’originaria vocazione scientifica dei due autori pare adesso fuori luogo nel momento in cui essi descrivono il modo di essere del capitale in quanto stregoneria, ma l’espediente serve a cercare di dare risposte a quella sensazione di affatturazione che il capitale è riuscito a spargere ovunque. Una risposta, un lungo sospiro, che echeggia lo slogan che a Seattle veniva esposto e gridato: “un altro mondo è possibile”. Spezzare dunque il sortilegio che fa del capitale l’unico mondo possibile. Al di là dello smascheramento dei dispositivi che inducono un senso di sconforto di fronte alla pervasività di questo modello neoliberista, il testo si propone di sconvolgere le carte, di fare emergere atteggiamenti orgogliosamente e volutamente infantili. Non ascoltare, cioè, quelli che ci intimano di “comportarci da adulti”, ma riuscire ad accogliere in noi un modo di fare che è “fare come se”, che è il modo di fare che caratterizza l’inizio di un gioco. Allora bisogna alfine capire che, se si deve prendere il potere, questo significa rompere con il modo di essere di quel potere stesso, cambiarne la definizione. Se c’è un possibile intravisto, e questo è nato a Seattle, Isabelle e Philippe dicono che occorre trovare parole che aiutino ad abitarlo, ma senza invaderlo, «senza dargli il potere di designare i propri guardiani, cui poi spetterebbe di mobilitare le masse, o i cittadini, o la moltitudine» (p. 18). Come possiamo vedere (sentire) il linguaggio di Stengers e Pignarre è volutamente evocativo. C’è come un continuo passaggio da un tono pacato all’accelerazione della presa di posizione. C’è la consapevolezza che “fare come se” non rimanda a una cosa qualsiasi. È accettare anche un rapporto filiale nei confronti dell’evento, ma non per poi perdersi in qualche forma di infantilismo. Non è dare delle direzioni, mettere in piedi una strategia. È forse il contrario. Il loro sapere è forse più simile ad un atteggiamento, a un tipo di prudenza, a una messa in guardia verso quelle forme di pensiero che potrebbero «fare arenare ciò che è nato a Seattle, proprio come una barca si arena nella melma» (idem). E sono pensieri già pensati quelli che dicono che è possibile dare una correzione al capitale. Tutte le sue vesti, tutte le sue manifestazioni, tutti i suoi cambiamenti-travestimenti non sono andati che in una direzione: massimizzare la ricerca del massimo profitto anche a scapito del bene comune, anche a scapito di qualunque conseguenza si potesse presentare.
Secondo gli autori il compito che l’attualità esige non è quello di un’esegesi corretta del pensiero di Marx, ma quello di riuscire a riprendere la questione delle questioni, «quella che lui ha creato, quella del capitalismo». Occorre perciò un’alleanza tra «gli eredi di Marx» e chiunque lotti contro il capitalismo: le femministe che hanno rifiutato le priorità proposte in nome della lotta di classe, gli ecologisti radicali, i contadini, i popoli indigeni, etc. Gli autori confessano una difficoltà che gira intorno a tutte quelle questioni che i rapporti di classe non riescono a spiegare (o, almeno, non nel senso dei rapporti tra struttura e sovrastruttura). Il problema è quello di riuscire a fare presa. Ci si interroga perciò a proposito delle capacità di mobilitazione di alcune pratiche, per poi accorgersi che la mobilitazione non è il problema e tantomeno la soluzione. Provare a prolungare l’eredità marxista diviene allora un fare chiarezza su che cosa abbiamo contro, perché «forse là incontreremo dei partner interessati, anziché degli smarriti da convincere» (p.35).
E se per Marx la forza lavoro misurabile è un’astrazione e quello della sua riproducibilità una convenzione in mano al capitale, il compito non è quello di darle una concretezza definitoria perché, nel momento in cui si volesse davvero calcolare e quindi retribuire il lavoro non pagato «(il lavoro domestico ad esempio), il capitalismo sarebbe impossibile» (p. 65).
Entra perciò in gioco un altro dispositivo di cattura, quello del progresso che ha permesso di mettere in campo un punto di vista per il quale si identifica capitalismo e progresso, riconoscendogli (lo fa anche Marx) il formidabile sviluppo delle “forze produttive” che esso ha liberato. Da qui in poi progresso e capitale si muovono in parallelo tanto che chi contesta l’uno non può più giustificare l’altro. Dispositivo che si voleva annichilente in quanto non era pensabile avere posizioni ostili al progresso, ma che di fronte alla crisi ambientale che ci troviamo di fronte, smaschera i miti dello sviluppo infinito principio e assunto della essenza del capitalismo.
E dopo le stregonerie e i sortilegi arrivano le «alternative infernali». Sono anch’esse un dispositivo messo in atto dal capitale. Il meccanismo è connesso al: “bisogna pur…”
Sono necessari sacrifici, altrimenti le pensioni non saranno più garantite! Altrimenti il deficit della sanità pubblica diventerà un baratro! […] L’Europa deve accettare gli OGM oppure perderà la sua competitività a livello mondiale, oppure i ricercatori andranno a far lavorare altrove il loro cervello! Bisogna accettare la necessità di tenere a distanza gli immigrati illegali con tutti i mezzi possibili: niente sentimentalismi o sarà la catastrofe sociale, il crollo dei nostri sistemi di protezione sociale, la rimonta dell’estrema destra! (p. 37)
“Bisogna pur…” . E se le risorse non sono infinite, bisogna meritarsi tutto e non diventare quindi un soprannumerario. Bisogna lottare per non esserlo. Bisogna lottare per meritarsi tutto. Ed è così che le lotte, e il loro terreno, sono decise dall’avversario. E il dispositivo del “bisogna pur…” che ha disarmato i politici, coloro che erano riusciti ad avvicinarsi al potere, tanto da poter riuscire a far infine pensare che è tutto inutile, che “sono tutti uguali”. «È proprio il modo di funzionamento del capitalismo che uccide la politica».
Ma, occorre fare attenzione non bisogna pensare che il capitalismo sia assimilabile a una testa pensante, o anche a più teste. Ad un’oligarchia complottista che esprime un’intelligenza fuori dal comune. Per questo ho parlato di dispositivo e meccanismo; Stengers e Pignarre parlano invece di flussi mobili riorganizzatori intendendo che un evento anche piccolo interno alle dinamiche dei modi della produzione, provoca effetti che a cascata interagiscano sull’organizzazione stessa del lavoro in un paese intero quale la Francia. Ed è questa forse la forza del capitalismo che intorno all’obbiettivo di estrarre profitto ha messo insieme una rete, un insieme di flussi tali che irrorano e mobilitano, permeando ogni anfratto dell’esistenza sociale e delle relazioni ad essa connesse. Ma non si tratta di un semplice automatismo, di qualcosa che funziona di per sé. Il capitalismo, in realtà, non vuole meno Stato, vuole uno Stato che intervenga continuamente per appianargli la strada. Il capitalismo chiede continuamente nuove leggi e nuovi regolamenti inventati e garantiti dallo Stato.
A proposito di Stato, i nostri autori si domandano anche perché, pur essendoci il bisogno di un intervento continuo e ubiquo dello Stato, la conflittualità e la violenza siano soltanto episodici. L’idea è quella che la ragione (la colpa) di tutto ciò sia l’esistenza dei “galoppini” (petit mains) che innescano la loro obbedienza al: “non ci sono alternative”, al “bisogna pur…”, facendo di fatto da cassa di risonanza o da innesco di un’ondata placida che sommerge e soffoca le istanze di rivolta: “bisogna pur…”.
La stregoneria non è una metafora. Questo significa che quelle pratiche che, attribuite agli “altri” non abbiamo paura a definire sortilegi, sono pratiche che sono reali e scientificamente coerenti. La stregoneria non è neanche un altro punto di vista, è semplicemente allargare l’angolo della visuale. E chi crede invece che la stregoneria sia una metafora è un altro tipo di bigotto (petit mains) che, questa volta mette in atto una forma di polizia che, se non riduce al silenzio, opera uno spostamento riducendo ogni voce discorde ad essere soltanto un’opinione, svuotandola dei caratteri di veridicità che invece può possedere in rapporto ad un paradigma a venire.
Stengers e Pignarre fanno anche riferimento a una tradizione di un certo tipo di pensiero francese citando qua e là Foucault o Deleuze. Ma anche proseguendo, in un certo senso il loro lavoro. Ecco, ad esempio, il termine “yearning” nato dalla spiritualità black che si potrebbe tradurre con “bramosia” che è parente del desiderio di Deleuze e Guattari, ma che ha un’aura e, conseguentemente, un senso leggermente diverso: «[un] vocabolo che connette la speranza al gemito e al desiderio, ciò di cui un’anima ha sete ma che, nello stesso tempo, non è in grado di definire, e che la trasformerà ben più di quanto possa appropriarsene» (p. 60). E bisogna fare attenzione a non confondere lo yearning con un semplice residuo di spiritualità, non è «di conversione, ma di produzione» che qui si parla, dicono Isabelle e Philippe; produzione di un sapere che non abbisogna più di un terreno che faccia da riferimento alle possibili e ulteriori questioni di giudizio, che possa cioè fare a meno dell’imprimatur del giudizio stesso.
È il paradigma stesso dell’occidente che guarda alle operazioni di veridificazione, e il capitalismo è l’attuale punto di arrivo del pensiero occidentale, (Stengers e Pignarre citano Gilles Deleuze che ha connesso la nozione greca di Idea al potere di distinguere il “pretendente autentico” dal rivale illusorio). Questo, ad esempio, significa che si possono mettere in discussione le verità di un certo tipo di scienza ma, per sostituirle, bisogna chiamare in causa il paradigma stesso sulle quali essa si fonda; cambiare paradigma, appunto. Per esempio non una logica sequenziale che estrae le verità da rapporti di causa ed effetto, ma un paradigma di tipo olistico che prenda in considerazione le relazioni e i rapporti tra gli enti. Con una visione non gerarchica che assegni ad ogni ente una pari dignità ontologica.
Tutto il testo è giustamente permeato di un senso che rimanda a un cosa aspettarsi, a un “che fare”? E le analisi e le considerazioni sono volte alla ricerca di una fuoriuscita dal sortilegio, di «percorsi di apprendistato». E la risposta, per i nostri autori, è qualcosa di diverso dai movimenti di massa. Ad opporsi al capitale non ci sarebbero le masse, ma una folla variopinta composta da gruppi impegnati in percorsi anche differenti, comunque felici per la presenza degli altri. E se il grido è unico in realtà echeggia esperienze diverse che possono adesso ampliare il proprio spettro immaginativo. Occorre far esistere nuove connessioni dicono ancora Isabelle e Philippe. Si prendono così ad esempio alcune lotte che hanno prodotto risultati positivi tipo quella contro gli OGM che si connette all’esigenza da parte del capitale di fare uso dei brevetti.
Una delle idee proposte è quella di servirsi, di approfittare degli interstizi dove «l’interstizio non si definisce né contro, né in rapporto al blocco di materiale al quale comunque appartiene. Crea le sue proprie dimensioni a partire dai processi concreti che gli conferiscono la sua consistenza e la sua portata, l’ambiente che abita e quel che può determinare» (p. 121).
E, per quanto riguarda i rapporti tra movimenti altermondisti e classe operaia, la posizione dei nostri autori è:
Non disponiamo di alcuna grande teoria, ma ci preme trovare parole capaci di non schiacciare il presente sotto la sfida di trovare un sostituto alla classe operaia o di contribuire al suo risveglio. Sappiamo solo che il discorso che ha dipinto questa classe operaia come grande forza indipendente da tutti gli ambienti, definita da una vocazione immediatamente universale, e cioè da un’intrinseca “buona volontà”, ci ha rinchiusi nelle categorie della fedeltà e del tradimento, ci ha presi in ostaggio. (p. 119)
Per chi conosce il francese c’è un altro testo di Isabelle Stengers sullo stesso argomento: Isabelle Stengers, Au temps des catastrophes. Resister à la barbarie qui vient, La Découverte, Paris 2013.
Philippe Pignarre – Isabelle Stengers, Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, Ipoc, Milano 2016, Pp. 160, € 16.00.
*Gilberto Pierazzuoli
Gilberto Pierazzuoli
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