Anthony, fattorino di Deliveroo, si è ucciso. Era stato licenziato via mail

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Anthony, 35 anni, è morto gettandosi in Arno dal ponte Vespucci. Anthony pedalava per vivere, faceva consegne per Deliveroo per arrivare a fine mese. Il collettivo Riders Union Firenze, i ciclofattorini auto-organizzati per la riconquista dei loro diritti di lavoratori, racconta così gli ultimi giorni del trentacinquenne tedesco.

“Cosa lo abbia spinto a suicidarsi è una domanda a cui è difficile dare una sola risposta. Ma quello che è sicuro è che ci siano molteplici disagi e difficoltà alla base di questo gesto e che in questa società ci si possa spesso trovare da soli ad affrontarli”. Il RUF ci dà conto della situazione di estrema precarietà economica in cui era precipitato Anthony “licenziato da Deliveroo con una semplice email, senza alcun preavviso e senza alcuna motivazione dichiarata, nonostante le ripetute richieste di chiarimento” con una “modalità che è la normalità in un settore che non riconosce il lavoro subordinato e di conseguenza i diritti fondamentali dei lavoratori, che tali sono, sotto ogni punto di vista”. È anche per motivi come questo che i fattorini londinesi di Deliveroo hanno coniato il neologismo “Slaveroo“, una parola che nasce dalla contrazione del nome dell’azienda con “schiavitù” (slavery), per sottolineare come la multinazionale della gig economy abbia divelto i diritti dei lavoratori col suo modello di business.

Nell’esprimere “l’amarezza per questa tragedia” il collettivo dei Riders denuncia “un sistema che, guardando solo al profitto, non mostra alcuna attenzione verso queste situazioni e che, anzi, contribuisce a generare”. Anthony è morto perché qualcuno, in nome del denaro a tutti i costi, ha messo la sua vita sul piatto della bilancia: da una parte c’era lui, con i suoi sogni e le sue aspirazioni; dall’altra i dividendi da staccare agli azionisti di una multinazionale che gli ha sconnesso la app e spedito una mail terminale. Deliveroo ha cancellato senza facoltà di replica il suo diritto a lavorare e a vivere dignitosamente. Così, all’improvviso: un minuto prima pedali per portare la pizza a casa di qualcuno; un minuto dopo sei fuori, come se la tua vita fosse tracimata all’improvviso in uno dei tanti reality per dementi in cui “l’eliminazione” fisica di qualcuno è diventata culturalmente accettata.

Anthony sì è ucciso a tre giorni dalla sentenza della Cassazione che riconosce ai riders la dignità di lavoratori subordinati, da cui si evince che le decine di migliaia di fattorini che affollano le nostre strade non sono collaboratori autonomi, liberi di organizzare il proprio lavoro come meglio preferiscono, e che meritano le tutele del caso.

Nel rispetto della Costituzione – a qualcuno fa sempre comodo dimenticare che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro (art.1) e che la proprietà privata è comunque secondaria rispetto all’interesse generale (art.42) – la sentenza prevede l’applicazione della disciplina del rapporto subordinato anche ai co.co.co, affinché siano tutelate le persone con potere contrattuale pressoché nullo nei confronti dei loro padroni. La Cassazione ha così messo nero su bianco che i riders lavorano in modo continuativo, subordinato, personale e organizzato dall’impresa attraverso piattaforme e app che li obbligano a seguire istruzioni predefinite sulle consegne. E che per questo hanno diritti che i mostri della gig economy vogliono invece cancellare, anche se c’è chi – come Anthony – muore per garantire gli utili agli azionisti.

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