I limiti dell’ubbidienza

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Per una critica del capitalismo digitale – IV parte

 

L’esistenza ai tempi delle epidemie si fa più introversa, ma non per la mancanza delle relazioni, non per mancanza dell’altro, che pure pesano, ma per il fatto di dover ripensarsi all’interno della nuova contingenza. La nostra fragilità si rende manifesta reclamando un’attenzione che ci porta a rivedere tutti i nostri comportamenti. Riduce i nostri spazi di manovra, le nostre relazioni, ci chiude nella casa rifugio. Emergono categorie mentali come quella di rischio da dover affrontare, che nel ripetersi scontato del quotidiano fuori dell’emergenza non avevano spazio.

In Cina gli strumenti del capitalismo della sorveglianza hanno aiutato a combattere l’epidemia. Lo stato – e per suo tramite le istituzioni sanitarie – avevano a disposizione la mappatura degli spostamenti di quasi tutta la popolazione. Con gli stessi strumenti di mappatura si è anche controllato che le quarantene e le ingiunzioni a non spostarsi fossero rispettate. Si è anche potuto individuare le persone che avevano avuto incontri con quelle infettate per metterle in quarantena e contrastare la diffusione del virus. Questo ha reso l’invasione della privacy più tollerabile, se non auspicabile. Il fatto è che questo oscuro spiare è, in questo caso, in mano ad un ente super parte che opera per il bene comune e non per il proprio bene. Le cose sono diverse quando invece lo stato ti spia per costringerti all’ubbidienza, quando il tiranno ti spia e ti controlla. Quando il privato ti spia, ti controlla e ti induce a fare qualcosa in vista soltanto del proprio interesse.

Ma i limiti dell’ubbidienza hanno a che fare anche con la dimensione della paura. Conoscere e vivere a partire dalla propria fragilità vuole dire non trasformarla in debolezza che apre le porte alla paura. Non trasformare un’inquietudine in paura. Nell’episodio di Calipso Ulisse vuole andare via dall’isola edenica che la ninfa gli offre. Ad Ulisse viene offerta un’immortalità riempita dall’eterno amore della semi dea. Nessuna conquista da fare, nessuna fatica. La dimensione umana, quella dei mortali, fatta di paure e desideri è sospesa. La vita dell’eroe diventerà anonima e immersa in un anomia giustificata dall’assenza dell’altro. L’immortalità cancella la sua fragilità. Calipso lo ama, anche ricambiata, ma non sa renderlo felice. Ulisse non è sordo all’amore della ninfa, ma la sua anima si strugge in questa nuova situazione. Lo stallo, quella della ninfa e dell’eroe, si supera soltanto permettendo a quest’ultimo di mostrare in termini evidenti il proprio carattere che poi sarebbe proprio l’aspetto umano e vitalistico contrapposto all’indolenza eterna della ninfa e degli dei. Perché quello che Calipso offre ad Ulisse è il non sopraggiungere della morte, ma in cambio, o meglio, quel che resta è una forma di anonimato che in qualche modo equivale alla morte stessa. Gli dei ascoltano la preghiera di Ulisse e impongono alla ninfa di farlo ripartire, di restituirgli la dimensione umana. Per l’umanità della Grecia classica l’esistenza era un intreccio di legami e opposizioni tra i vari clan, tra questi e la città, tra il singolo e i suoi antenati che lo determinavano nell’appartenenza. L’esistenza di sé negli altri era legata alla memoria e la memoria, il poter diventare antenato, era in diretta connessione con le imprese, con le azioni che potevano essergli attribuite. L’immortalità era figlia della fragilità umana, in un certo senso era figlia del suo essere mortale.

Chiusi in casa per sempre, spiati per sempre, ubbidienti alle regole per sempre, non è vita. La fragilità trova il coraggio di allungare una mano verso l’altro, non ora, ma prima o poi bisogna uscirne, bisognerà aver capito che bisogna fare i conti con la paura e i controlli. La paura ci costringe a un’autorepressione, ci consegna nelle mani del tiranno. Il potere si esercita in particolar modo quando l’assoggettamento è volontario, dice Byung-Chul Han. Il coraggio non è avere sprezzo del pericolo, il coraggio è allungare la mano verso l’altro, scongiurare la paura dell’altro. Lo sprezzo della morte da parte di Ulisse è semplicemente accettare la dimensione umana, la dimensione biologica, mettersi dalla parte dei mortali e non da quella degli dei. Accettiamo lo stato di eccezione, ma vegliamo affinché a tempo debito cessi.

L’ecocidio scombina le regole naturali e l’algoritmo, costruito in base a queste regole, ricostruisce il mondo in base a una mappa. Ma la mappa non è il mondo. L’ecocidio scombina il mondo, ma non la mappa. Non possiamo avere così tanta fiducia nell’algoritmo. Non possiamo fidarci ciecamente. Non possiamo farci condizionare dall’algoritmo. Non possiamo delegare senza esercitare il controllo.

L’azione della macchina capitalista provoca un annichilimento del corpo, una siderazione, dal latino siderationem, nome dato anticamente alla paralisi istantanea provocata dall’influsso degli astri. Siderare descriveva infatti il subire l’influsso degli astri (da: sidus, -ĕris, stella, astro, costellazione, stagione, clima, tempo, epoca ◊ fervidum sidus calura estiva, calidum sidus il sole, hiberno sidere nel cuore dell’inverno, sidera producere passare la notte.). La sua mancanza era come subire un colpo apoplettico. Ti bloccava nella stessa immobilità di un corpo as-siderato. Con-siderazione era osservare gli astri in vista di un auspicio. Con-siderare è difatti comportarsi a ragion veduta.

La scissione corpo mente alla base del pensiero dell’occidente moderno, permette di mettere in campo strategie di delega. Il corpo può essere messo in disparte e la mente, il logos, può essere demandato alla macchina algoritmica, più veloce e a prova di errori. I robot non sostituiscono l’umano solo in quegli incarichi più faticosi o più pericolosi, ma provano anche a sostituire l’ambito mentale. I corpi anonimi e acefali così ottenuti, sono la “mano d’opera” a basso valore aggiunto per la riproduzione dell’accumulo capitalista: riders, facchini di Amazon, autisti di Uber e operatori nei mestieri servili. Nei lavori ad alto contenuto cognitivo, la mano invisibile del mercato estrae le competenze e le incorpora alla macchina, anche in questo caso il corpo è decerebrato, è semplicemente un’appendice resa amorfa, atta al consumo e alla propria riproduzione. Le macchine ci stanno apparecchiando un desco fatto di comodità.

Il mondo al quale siamo appartenuti non propone niente da amare al di là di ogni insufficienza individuale: la sua esistenza si limita alla sua comodità: Un mondo che non può essere amato da morirne – nello stesso modo in cui un uomo ama una donna – rappresenta soltanto l’interesse e l’obbligo al lavoro. (Bataille, Acephale, num. 1, 1936)

Adesso la ragione è tutta dell’algoritmo. Amazon ha un braccialetto brevettato (per adesso non è stato utilizzato, ma non si brevetta qualcosa soltanto per “esercizio di stile”) che è in grado di monitorare con precisione dove si mettono le mani, vibrando per guidarle nella giusta direzione i movimenti. Campo di applicazione i suoi magazzini. Robot umani che lavorano vicino a robot meccanici, portando avanti compiti ripetitivi di packaging il più velocemente possibile. In questo caso la prestazione umana, dal punto di vista della polifunzionalità, è superiore a quella meccanica. Il comando però, la prestazione richiesta, l’ubbidienza stessa, è quella che pertiene alle macchine. Come il palmare del film di Ken Loach (ne avevamo parlato qui), il braccialetto è però in un certo senso più prescrittivo, interagisce più direttamente con il corpo, comanda il singolo gesto, forse ronza se ti gratti. Il lavoro non consiste infatti nel grattarsi la pancia. Le tue azioni, i movimenti del tuo corpo indirizzati, monitorati, giudicati. Si potrebbe infatti scegliere di rinnovare il contratto soltanto a quelli più efficienti (più ubbidienti). Il controllo sui corpi non è più metaforico, è fisico. Il corpo è posseduto dall’algoritmo. Lo schiavismo è aggiornato alla tecnologia disponibile.

Nel cognitariato, al tempo della psicopolitica, dell’anima al lavoro, il “lavoro necessario” aumenta perché aumenta la quota di lavoro di riproduzione, senza che il capitale la retribuisca. Aumenta così il profitto come se vi fosse stato una diminuzione di salari. O come se fosse diminuita la capacità di acquisto dei salari.

Se alla riproduzione della forza lavoro aggiungiamo la riproduzione della natura (forza lavoro a buon mercato e natura a buon mercato, in un certo senso sotto prezzate) vediamo che nel momento nel quale si sommano due tendenze, quella della caduta tendenziale del saggio di profitto, unita con quella della crisi da sovrapproduzione, si ha che il capitale per riuscire a fare profitto deve spingere di più dal punto di vista dello sfruttamento della natura e dello sfruttamento della forza lavoro prodotta dal sistema della sua riproduzione.

Il capitale nella sua forma contemporanea, non mette al lavoro soltanto il tuo corpo come espressione della tua forza lavoro, ti vuole tutto. Il capitalismo al tempo delle piattaforme digitali sussume, incorpora il soggetto. Crea un continuum, una totalità del tempo, senza separazione tra tempo lavorato e tempo libero, tra tempo della produzione e della riproduzione. Il gioco, la festa, sono parimenti incorporati, messi a profitto, tendenzialmente snaturati. La natura stessa è snaturata, il soggetto produttivo è esterno alla natura, la usa e basta. Nell’universo digitale, nella infosfera pervasiva, si attua così la subordinazione simbolica e formale degli individui a delle equazioni.

Continua…

*Gilberto Pierazzuoli

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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