Google, i nostri dati e le omissioni dei giornalisti

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«Crediamo che i vostri dati dovrebbero essere conservati in un prodotto solo per il tempo necessario a renderlo utile per voi. Che si tratti di trovare facilmente le vostre mete preferite su Maps o di ricevere raccomandazioni personalizzate su cosa guardare su YouTube». Scrive Pichai, Ceo di Alphabet il contenitore di Google e delle sue svariate attività, annunciando che le impostazioni di default per i nuovi account prevedranno la cancellazione dei dati che l’azienda usa per la sua attività economica nella rete e attraverso di essa dopo 18 mesi. In un ambito delle attività commerciali non sottoposto a nessuna regola, nell’ambito che ha permesso la nascita di un oligopolio di aziende che nella loro specifica attività sono anche dei monopoli globali che eludono le tassazioni nazionali, la regolamentazione sul possesso dei dati è delegata al loro volontarismo. E te lo raccontano con orgoglio facendo opera di lobbyng attraverso un modo di presentarsi che ha un che di etico e di socialmente corretto tale che il giornalista di Repubblica estrapola da un’altra frase di Pichai una affermazione che Pichai non poteva fare perché non vera. La frase è questa: «L’azienda ricorda poi che non vende “le informazioni a nessuno e nemmeno le usa per scopi pubblicitari“». Peccato che la frase non fosse terminata e proseguisse così: «[… e nemmeno usa per scopi pubblicitari ] le informazioni che si trovano nelle app in cui conservate principalmente contenuti personali, come Gmail, Drive, Calendar e Foto”».

Il senso è completamente diverso, non è vero che l’azienda non usa le informazioni estratte spiando il nostro comportamento in rete a scopi pubblicitari – l’azienda vive di pubblicità (alcuni autori parlano di più dell’ottanta per cento dell’intero giro di affari, vedi anche qui), ma non usa quelle provenienti da certe App (non da tutto), ma da quelle dove il problema della privacy del cliente è più sensibile. Ricordando poi, che nessuno potrà mai indagare se il loro uso indiretto viene o verrà fatto. Uso indiretto che è invece proprio teorizzato e ben raccontato a proposito di una tecnologia che Google orgogliosamente sbandiera: il federated learning. Normalmente le operazioni di addestramento o di altro tipo di elaborazioni dei dati, ne prevede la loro centralizzazione, la loro ubicazione in un centro dati in possesso del gestore. Nel blog di Google si scrive: «L’apprendimento federato consente ai telefoni cellulari di apprendere in modo collaborativo un modello di previsione condiviso mantenendo tutti i dati di addestramento sul dispositivo, disaccoppiando la capacità di eseguire l’apprendimento automatico dall’esigenza di archiviare i dati nel cloud. Questo va oltre l’uso di modelli locali che fanno previsioni su dispositivi mobili portando anche l’addestramento dei modelli al dispositivo». Per poi proseguire: «Funziona in questo modo: il dispositivo scarica il modello corrente, lo migliora imparando dai dati sul telefono e quindi sintetizza le modifiche come un piccolo aggiornamento mirato. Solo questo aggiornamento al modello viene inviato al cloud, utilizzando la comunicazione crittografata, dove viene immediatamente mediato con altri aggiornamenti utente per migliorare il modello condiviso. Tutti i dati di allenamento rimangono sul tuo dispositivo e nessun singolo aggiornamento viene archiviato nel cloud». Semplicemente, riescono a usare i tuoi dati lasciandoli dove sono. Questo è anche e certamente una cosa positiva in vista della possibilità di furto o hackeraggio degli stessi, ma anche un guadagno dell’azienda. Ricapitoliamo dal punto di vista proprio dell’azienda: I dati una volta avuto il tempo di adoperarli per i propri fini verranno cancellati e se è possibile usarli sempre per i nostri fini senza prendersene carico, ben venga! Google non vende i nostri dati a terzi perché attraverso di essi si è costruita una posizione di monopolio nel comparto. Li estrae, li usa, ci fa profitto cercando (e riuscendovi) a non pagarci le tasse poi, a questo punto, li cancella, facendo apparire questo gesto un favore al consumatore. Troppe grazie Sant’Antonio!

Alcuni autori, ho in mente in maniera particolare Stefano Quintarelli, parlano di costo praticamente zero di alcune operazioni dell’universo produttivo dell’immateriale, per esempio il costo di trasferimento di un brano musicale, ma, facendo bene i conti, un costo c’è: l’allestimento e il mantenimento dei grossi data center dove si conservano e si elaborano i dati e dove si fa cloud computing. Questi centri ubicati vicino a fiumi o in climi particolarmente freddi (Islanda e Groenlandia) consumano quantità enormi di energia e di acqua per il raffreddamento. Costano moltissimo anche dal punto di vista della sicurezza sia per l’integrità degli enormi data base, sia per la difesa dagli attacchi terroristici o da quelli di spionaggio industriale, anche qui un misto tra difesa fisica e immateriale.

La crescita della capacità di stockaggio dei dati dei dispositivi preposti ha anch’essa un andamento esponenziale che fa fatica a stare al passo con la crescita della produzione dei dati stessi. Ogni minuto vengono caricate su YouTube 300 ore di video. Cioè 432.000 ore di video al giorno, ovvero 157.680.000 ore in un anno. In pratica, per guardare tutti i video che in un anno vengono caricati su YouTube ci vorrebbero 18.000 anni. Considerando una durata media di 4 minuti e mezzo per video e le 300 ore di video caricate ogni minuto, in un anno vengono caricati 2.102.400.000 video.

Il capitalismo digitale ha bisogno di dati ma, alla lunga, si prospetta la possibilità che possa soffocare per la sua ingordigia. L’unico modo di continuare a incamerare dati è quello di cancellare i più vecchi. I dati digitali, come abbiamo più volte detto, sono immateriali sono una serie enorme di zeri e di uno, nient’altro. Perché abbiano senso serve il modulo software per interpretarli, sia questo modulo un file system o, ad esempio, un programma di scrittura che si basa su uno specifico sistema operativo. Tutti strumenti software che si evolvono spesso tralasciando la cosiddetta compatibilità all’indietro. Molti dei programmi di una ventina di anni fa non girano più sulle nostre macchine, certo ci sono e ci saranno gli emulatori che simulano le piattaforme del passato, ma sono e saranno retrocompatibili per un arco di tempo limitato e non infinito.

Questi due aspetti, la cancellazione dei dati vecchi e la prematura obsolescenza di quelli nuovi avranno delle conseguenze. Si prospetta l’avvento di una società senza storia i cui dispositivi mnemonici sono diventati obsoleti e non funzionano più. Si prospetta un futuro senza storia. E, un futuro senza storia, è un eterno presente che produce scarti, rifiuti e macerie al suo divenire.

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. (Walter Benjamin)

*Gilberto Pierazzuoli

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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