Il sindaco, l’archistar, le “case più grandi”. E i poveri?

A dispetto di quanto affermato di recente sui media, le città non hanno bisogno di case più grandi adatte allo smartworking. Chi abita in città ha bisogno viceversa che le attrezzature collettive siano più diffuse e meglio collocate sul territorio. E che la questione della residenza non resti in balìa del libero mercato. 

Nardella ha incontrato Fuksas. L’archistar si rammarica per «non aver lasciato una traccia» a Firenze: irrealizzato, infatti, il suo progetto di stadio a forma di nuvola.

Tra le idee trasmesse al primo cittadino, la costruzione ex novo di un quartiere post Covid. Un quartiere «dove ci siano case a misura di smartworking e di smartlearning, dunque più grandi». Lo scenario che si profila e si favorisce è l’abbandono (almeno parziale) del lavoro in spazi comuni, degli uffici, delle scuole, e una riconfigurazione al ribasso della rete dei trasporti pubblici.

L’idea delle “case più grandi” fa il paio con le facciate verdi. E naturalmente piace.

Nardella (“La Nazione, 31 luglio) rilancia con i progetti per i quattro nuovi “quartieri” fiorentini: Castello, Mercafir, Leopolda e Gonzaga. Insediamenti in cui gli attori/imprenditori sono prioritariamente privati che, come è naturale, ricercano i loro profitti nel fabbisogno di residenza. Fabbisogno che – troppo spesso è sottaciuto – rientra tra i diritti fondamentali e non dovrebbe costituire una fonte per la rendita più parassitaria.

Le politiche per la casa dovrebbero andare nella direzione opposta. Da un lato, un progetto a lungo termine: rilanciare un piano di edilizia residenziale pubblica nelle grandi aree dismesse (caserme in primis), con alloggi – dignitosamente dimensionati – per il più ampio spettro sociale, e di massima flessibilità: alloggi volàno, alloggi temporanei per migranti, per giovani e studenti. Dall’altro lato, una revisione legislativa: ricordate l’equo canone?

Se il Comune volesse mettersi dalla parte delle fasce più povere della città – abbandonando la sua posizione al fianco dell’imprenditoria e della finanza (cioè, degli “investors and patrons” cui Nardella rivolgeva la sua supplica su Fox TV nel maggio scorso) – sarebbe necessario che ponesse termine al processo di trasformazione dei grandi immobili in strutture “turistico-ricettive”. E che gli amministratori si ingegnassero per la realizzazione di spazi che coprano il fabbisogno di socialità, di cultura e sport, aperti alla popolazione. Tutta, anche ai meno affluenti, ai marginali.

La pandemia ha infatti rivelato con chiarezza che in città (anche dal punto di vista economico, non solo socio-politico) è inopportuna l’accelerazione verso lo spossessamento degli spazi urbani e verso l’accaparramento delle risorse comuni.

In una città soffocata dal turismo e afflitta dal lavoro “povero” (se non nero) che il turismo ha generato, l’accesso alla casa è negato a migliaia di persone; anche il più semplice accesso al sostegno alimentare e al sostegno al pagamento del canone di locazione ha lasciato scoperta una rilevante porzione di abitanti.

L’amministrazione pianifichi la città in favore (anche) dei subalterni, nell’interesse generale. Stia tranquillo il sindaco, che patrons and investors, ai propri interessi, ci pensano da sé.

*Ilaria Agostini