I diritti per la Lega: poter chiamare qualcuno “negro” o “frocio”

«Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!».

È una delle frasi celebri del film “Palombella rossa” di Nanni Moretti del 1989, ma cosa significa? Non è necessario un corso di filosofia del linguaggio per rendersi conto che le parole non sono mai neutrali, sono uno strumento di costruzione culturale attraverso il quale dar forma a delle comunità e a delle identità sia singolari che plurali. Esse creano dei confini tra “noi” e gli “altri” ed è per questo che il linguaggio può avere una duplice funzione: una inclusiva e l’altra, inevitabilmente, escludente. Il linguaggio è quindi un fatto sociale e le parole sembrano neutrali solo quando esprimono i valori dominanti della società che le pronuncia. Quando si crea uno scollamento tra ciò che era percepito “giusto” o “accettabile” in passato o quello che nel presente è considerato “giusto” o “accettabile”, quando si assiste insomma ad un rinnovamento della sensibilità collettiva, alcune parole possono diventare problematiche. Non è una questione di “politicamente corretto”, in molti casi ostinarsi ad usare un linguaggio distante dalle nuove sensibilità collettive è un fatto reazionario e non rivoluzionario.

Questo dovrebbe saperlo fin troppo bene Nino Spirlì che per anni ha lavorato tra produzioni televisive e teatrali e che oggi è Vicepresidente e Assessore alla cultura della Regione Calabria con la Lega. Eppure nulla sembra essere ovvio altrimenti a Catania, durante un dibattito del suo partito tenutosi lo scorso uno ottobre, Spirlì non avrebbe rivendicato l’uso delle parole “negro” e “ricchione” come fossero atti rivoluzionari. Ma procediamo con calma perché c’è una duplice, seppur collegata, questione: quella legata al linguaggio e una questione politica.

Ci stanno «cancellando le parole di bocca», come dice Spirlì? Ci stanno imponendo una neolingua come in “1984” di Orwell? Qualcuno sta restringendo la sfera d’azione del nostro pensiero? O, al contrario, assistiamo ad un cambiamento del linguaggio che da voce ad una pluralità prima silenziata? Ma poi in che modo sta avvenendo questo cambiamento? Spirlì parla di lobby, evocando quelli che generalmente sono chiamati “poteri forti”, presupponendo quindi si tratti di un cambiamento imposto dall’alto. È verosimile pensare alle persone facenti parte della comunità lgbtqia+ o alle persone nere come a una lobby? Si tratta di due gruppi sociali che continuano a subire più discriminazioni rispetto alle persone eterosessuali, binarie o cisgender o rispetto ai bianchi. Certo, ci sono più pressioni affinché la realtà cambi ma questo tipo di fermento, che poi crea ovviamente dei gruppi di pressione, sembra partire più dal basso che non dall’alto.

Ma torniamo alle parole di Spirlì. Il Vicepresidente della Calabria denuncia il fatto che la parola “negro” sia associata automaticamente ad un giudizio negativo. Ed ha ragione, ma perché? La parola “negro” ha origine latina ed era la forma arcaica dell’aggettivo nero, quindi persino tra i versi di Dante o di Petrarca o persino in Leopardi è possibile trovare l’uso di tale aggettivo. La parola negro diventa però problematica nel XIX secolo ai tempi del colonialismo. Negro si riferiva alle popolazioni africane, percepite come una razza biologicamente inferiore. La parola “negro” rimanda ad una storia coloniale, alla tratta di esseri umani, allo sfruttamento, alla segregazione e alla discriminazione inflitta dai bianchi. Negro era usato in modo spregiativo per riferirsi a qualcuno considerato “meno umano” dei bianchi e quindi non degno di godere dei medesimi diritti. Per questo a “negro” si preferisce “nero” o “afro discendente”. È una questione storica e culturale più che dialettale come sostiene Spirlì nel suo tentativo di rivendicare e difendere l’uso di “negro” e comunque in alcune zone della regione si parla di “nivuri”, persino il dialetto è plurale.

E veniamo alla seconda ed ultima parola rivendicata da Spirlì: ricchione. Il Vicepresidente lamenta il fatto che chi la usa sia definito omofobo. Il termine “ricchione” deriva dal diletto napoletano, sono diverse le teorie rispetto la sua origine, ma qualsiasi storia legata alla nascita di questa espressione rimanda a una tradizione di sberleffo e discriminazione di questi “uomini considerati meno uomini e più donne” e dunque, in una cultura misogina e maschilista, questo li rendeva vittime di abusi e discriminazioni. La parola “omosessuale”, al contrario, non racchiude in sé un giudizio di valore (negativo) ma esprime un orientamento sessuale.

Ma questa è una questione linguistica e culturale, sono delle obbiezioni che si potrebbero muovere a Nino Spirlì in quanto privato cittadino, ma Nino Spirlì è un rappresentante delle Istituzioni e in quanto tale il suo discorso, tenutosi tra l’altro in un evento della Lega che resta uno dei principali partiti in Italia, ha anche delle implicazioni politiche.

Qual è il problema politico? Spirlì è Assessore alla cultura e Vicepresidente di Regione, ma quale cultura? La cultura dell’insensibilità, delle verità assolute e dogmatiche, quella della discriminazione o la cultura dell’irresponsabilità? Nino Spirlì non parla solo per sé, rappresenta una Regione e qual è il messaggio che arriva da questa Istituzione? Che utilizzare un linguaggio palesemente razzista e omofobo non solo è accettabile, ma sarebbe anche un atto di resistenza contro il potere oscuro di chi spesso non ha potere perché è ancora oppresso. Rappresentare un’Istituzione va aldilà dei beceri slogan di un partito, la Lega in questo caso, che dell’essere discriminatorio fa bandiera. Dovrebbe significare saper ascoltare e dare rappresentanza a tutti coloro i quali vivono un territorio e non solo rafforzare i privilegi dei soliti o della maggioranza, e non contribuire alla discriminazione di chi davvero appartiene gruppi di persone considerati “minoranza” per farli sentire ancora più marginali.

Per concludere è doveroso rassicurare il Vicepresidente. Non tutti gli omosessuali sono comunisti come teme Spirlì, altrimenti la colorazione politica del Parlamento sarebbe ben diversa e i piccoli partiti di sinistra radicale supererebbero tranquillamente la soglia di sbarramento del 3%. Tra gli studiosi di scienze politiche e sociali si moltiplicano infatti le ricerche sull’omonazionalismo: sulle persone non eterosessuali o cisgender che votano a destra o, come nel caso di Alice Weidel di AfD, si candidano e sono esponenti di partiti di destra e anche di destra radicale.

Ciò che era vero in passato non è vero in assoluto, le verità che gli uomini si raccontano mutano e la storia non si cancella e non si brucia come pensa Spirlì. Avere il coraggio di guardare avanti è rivoluzionario, l’ossessione di cristallizzarsi nella presunta epoca d’oro che fu è reazionario. Nessuno comunque impedisce a Spirlì o ad altri di usare il linguaggio che preferiscono, non esiste una “polizia della lingua”, ciò che si condanna (anche penalmente) sono gli atti di discriminazioni e violenza propri di un retaggio culturale razzista e omofobo che ha attribuito un certo significato alle parole che il Vicepresidente della regione Calabria difende.

*Francesca Pignataro