All’alba del 23 febbraio 2021, Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, marito e moglie rispettivamente di 84 e 67 anni, sono stati svegliati dalla Digos, l’accusa è quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a fini di lucro. Siamo a Trieste, la città che simbolicamente rappresenta la fine di quella rotta balcanica che si fa convenzionalmente iniziare in Grecia; per molti dei migranti si tratta più semplicemente di un passaggio per cercare di raggiungere la Germania e gli altri Paesi più a nord.
Un anno prima, l’Europa aveva sbarrato le sue frontiere per l’emergenza sanitaria del Covid e Gian Andrea e Lorena erano rimasti tra i pochi che cercavano di fornire un minimo di aiuto a quelle persone che passavano miracolosamente la frontiera con la Croazia, dopo aver subito vere e proprie torture. Insegnante in pensione lui e psicoterapeuta lei, si erano spostati più volte in Bosnia per capire e vedere la situazione al di là del confine con i propri occhi: “siamo stati in Bosnia 19 volte, l’ultima volta a febbraio [2020] poi le frontiere si sono chiuse per tutti, i profughi sono di meno, ma continuano ad arrivare anche a Trieste”.
All’inizio dell’emergenza sanitaria, quando molti italiani si affacciavano dai balconi ed erano assai diffusi gli slogan: “Andrà tutto bene”, “Restate a casa”, “Vi è stato solo chiesto di restare sul divano”, la situazione era immediatamente peggiorata per coloro che una casa non ce l’avevano o che l’avevano abbandonata dall’altra parte del confine, per fuggire da guerre, fame, violenza; erano sporadiche le azioni di sostegno da parte di alcune associazioni, era assente l’azione degli enti pubblici e nei pochi casi di sostegno istituzionale, erano richieste le impronte digitali delle persone che entravano in contatto con le strutture.
La città sull’estremo confine orientale italiano si era chiusa su se stessa, eppure, a meno di voler ancora credere a quell’immagine di una “Trieste italianissima” propagandata dal fascismo e da ferventi nazionalisti dei giorni nostri, la città è sempre stata crocevia di popoli, punto di arrivi e di partenze; molto spesso è stata vedetta d’avanguardia di quegli avvenimenti storici che hanno segnato il destino dei territori limitrofi. Lo ricorda il confine mobile che ha contraddistinto da sempre quel lembo di terre sull’Alto Adriatico, lo ricordano gli appetiti post bellici delle forze in guerra durante i conflitti mondiali, ma lo segnalano soprattutto i racconti della prima metà degli anni Novanta del Novecento, quando da Trieste si sentivano i primi colpi di mortaio che davano inizio alle guerre nella Jugoslavia, poi diventata Ex e frammentatasi in molteplici nazioni, tutte quante oggi assiduamente impegnate a tenere lontani i profughi dall’Europa.
Ci sono state anche molteplici storie personali che hanno costruito l’immagine di Trieste come città a difesa dei diritti e dell’accoglienza: nel gennaio 1994, Marco Luchetta, giornalista della Rai di Trieste, era partito per la Bosnia insieme ai colleghi Dario D’Angelo e Alessandro Ota, entrambi tecnici televisivi. Il loro obiettivo era quello di raccontare le violenze della guerra, in particolare quelle agite sulla pelle dei bambini. A Mostar, lo scoppio di una granata uccise i tre inviati ed i loro corpi fecero da scudo ad un bambino che si salvò miracolosamente. Da quel tragico avvenimento, Trieste è diventata la sede di realtà come la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin, sorta in memoria dei giornalisti, ma soprattutto a difesa dei diritti dell’infanzia e per dare sostegno e cure ai bambini colpiti dalla guerra.
Trieste è da sempre luogo privilegiato di osservazione dei confini ed è sempre stata luogo di racconto di comunità, popoli e gruppi in movimento, ma è anche punto di osservazione privilegiata di una storia recente. È da Trieste che si percepisce in modo particolare il fallimento dell’Europa dei popoli, proprio oggi che tutto è rapportato alla condizione di pericolo nella pandemia. Il 15 marzo 2020, Paolo Rumiz scriveva sul suo Diario dalla Quarantena: “Assurdo. Confine con la Slovenia sempre sigillato, col virus ormai ovunque. Il naufragio di Schengen lo senti da qui, non da Milano o Roma. Da Trieste ho visto l’autodissoluzione dei Balcani e ora assisto alla balcanizzazione dell’Europa. La balcanizzazione non è solo guerra e barbarie. È far credere ai babbei che il male venga solo dallo straniero”.
Non si tratta di una costruzione narrativa che è iniziata soltanto con il Covid, lo ricorda bene Musli Alievski, un rom macedone che oggi vive in Italia impegnandosi con la propria associazione per fornire un minimo di assistenza e di cibo ai profughi nei campi della Grecia: “Era l’estate del 2015 ed ero a Skopje quando scoppiò la crisi umanitaria dei profughi siriani che sbarcavano in Grecia e che si facevano chilometri a piedi, in condizioni disumane, verso l’Europa; per molti la prima meta era Trieste. Vidi le mamme che lanciavano i propri figli piccoli sui treni per cercare di farli arrivare in Serbia e da in Italia. C’era il reato di favoreggiamento all’immigrazione a Skopje che rendeva illegale qualsiasi tipo di aiuto nei loro confronti. Allora mi misi a raccogliere vecchie biciclette che lasciavo sul loro tragitto, in modo tale che almeno potessero avere un minimo sollievo”.
Febbraio 2021 a Trieste, anche Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir fanno i conti con la medesima accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: “Ho ospitato una famiglia iraniana con due bambini di 9 e 11 anni per una notte e ho dato i miei documenti per un money transfer di 800 euro che ha permesso loro di raggiungere la Germania” racconta il professore triestino ormai pensionato, mentre Lorena chiarisce che l’obiettivo della loro giovane associazione denominata “Linea d’Ombra” è soprattutto prendersi cura delle persone di passaggio sulla rotta balcanica, curare i loro piedi e le gambe martoriate, ma anche aiutarli ad arrivare là dove immaginano la propria vita futura.
“Spesso qui a Trieste non sanno dove andare a dormire ed allora – corsi e ricorsi della storia – si rifugiano in un capannone che fu occupato a lungo da italiani dell’esodo dalle terre d’Istria”. Siamo evidentemente di fronte ad un racconto prima interrotto e poi lentamente scomparso: la negazione dei diritti umani è ormai un tema derubricato a disinteresse internazionale. Ecco perché l’assalto all’alba della Digos nell’abitazione dei due attivisti è stato un attacco frontale alla loro azione di cura degli altri. È un attacco alle parole nette che avevano espresso a difesa degli ultimi: “Noi siamo coloro che dicono no alla paura…noi siamo coloro che maledicono i confini”.
È trascorso da poco l’8 marzo ed è utile chiudere questa nostra riflessione ricordando le parole scelte per il manifesto “Un ponte di corpi” elaborato dalla stessa Lorena Fornasir che ha messo al centro la figura femminile: “Con il nostro corpo di donne su un confine di morte vogliamo dire che il migrante è portatore di vita”. È la richiesta di riaprire le frontiere e di dare vita, su quelle linee di separazione, a dei luoghi di cura degli esseri umani. Il manifesto convocava (il 6 marzo 2021), donne e uomini sul confine con la Croazia, quello dove è stata agita la più forte violenza. È stato Gian Andrea Franchi ad esprimere in maniera chiara la specificità che Trieste rappresenta in questa storia: “Trieste è una città particolare. Più che una città di confine è una città che da cento anni ha interiorizzato il confine come ferita insanabile”.
Guardare il mondo da Trieste significa immergersi nella storia passata e presente dei confini, nella costruzione o distruzione dell’Europa dei popoli, nella città in cui il migrante che arriva è un corpo concreto di cui prendersi cura o da allontanare con sdegno. “Da che parte stare” è il titolo del film che nel 2018 ha raccontato l’azione quotidiana, costante e pubblica (perché svolta in piazza Unità d’Italia) dei volontari che continuano a dare accoglienza a Trieste; l’accusa di sostenere le persone più fragili soltanto per scopi di lucro personale ha colpito anche questa realtà, come prima era stata diretta alle Ong che salvano vite nel mare di fronte a Lampedusa.
Irvin Mujcic, giovane bosniaco musulmano fuggito a 5 anni da Srebrenica per scampare al genocidio, è intervenuto a Firenze in occasione del Giorno della Memoria 2020 di fronte ad ottomila studenti toscani radunatisi per riflettere sui temi della memoria della Shoah: “Noi tutti siamo dei piccoli Hitler, Mussolini e Milosevic”; era il suo invito a prendere atto delle responsabilità personali, a non accontentarsi di versare facili lacrime su vicende ormai purtroppo immutabili del passato, a non rinchiudersi nell’indifferenza, a scegliere di prendersi cura delle persone su quei confini che rischiano da sempre d’innescare nuovo e semplice odio, nuovi e terribili conflitti.
Luca Bravi
Ho iniziato a lavorare a sette anni, nel mio paese in provincia di Firenze, era l’anno 1949, poi sono andato a lavorare, dopo aver superato l’esame della qunta elementare a Prato dalle ore 6 alle 14, una settimana e l’altra dalle 14 alle 22 alle macchinette per le spole dei telai. Lei signor Bravi ha un bel lavoro ed è protetto, essendo uno statale. Io credo che queste persone che arrivano di contrabbando, ogni stato dovrebbe richiedere, in base alle proprie esigenze, le persone che potrebbero essere utili. Perché non rimangono nei loro paesi per LAVORARE e far crescere la loro economia?
Povero Luca, penso meritassi ben altro che un commento come quello che precede il mio e così i bravissimi Gian Andrea e Lorena inquisiti dalla Digos per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. E’ la prassi, oggi, di chi si occupa degli altri, di chi ha bisogno di aiuto. Salvini insegna ma importante è insegnare all’opposto di lui.