Apparentemente altre parole non servono. L’immagine della piazza di Prato gremita di 5000 persone, messa accanto a quella di 100 ridicolissimi personaggi di Forza Nuova, basterebbe da sé. Fiore e company ridotti a un nulla.
Eppure altre parole servono, perché il fascismo non sono solo le quattro teste rasate di Forza Nuova, ma è qualcosa di molto più vasto, qualcosa di cui FN è solo una misera manifestazione. Qualcosa che era anche in mezzo a noi, in piazza delle Carceri, e che pure non vedevamo, non sentivamo.
“C’è ancora il fascismo? C’è. – scriveva Fortini nel 1962 – Ha ritrovato il suo viso di 50 anni fa. Prima delle camicie nere, il viso della conservazione che sul mercato politico offre ancora a buon prezzo gruppetti provocatori, perché il poco fascismo visibile mascheri il molto fascismo invisibile. La vostra coscienza cos’ha da dire? Bisogna scegliere, bisogna decidere. Il destino è solo vostro. Rispondete”
A quale fascismo si riferiva Fortini? Avevamo imparato a riconoscerlo, un tempo: quello degli industriali in doppio petto, le camicie bianche stirate e inamidate che si erano ben nascoste dietro quelle nere dei fascisti, e che durante la Prima Repubblica tornavano a palesarsi. Fortini parlava della DC e del ruolo che ebbero i fascisti del MSI – insieme ai tanti fascisti che si erano annidati nell’esercito e negli apparati statali, grazie alla mancata epurazione del secondo dopoguerra – nel creare confusione e paura. Un tentativo di colpo di stato fallito (uno fra tutti, il Piano Solo del 1964); la necessità di garantire la stabilità politica contro “gli opposti estremismi”; il bisogno di contenere la frustrazione dei ceti medi, o quella del sottoproletariato meridionale, entro un ribellismo controllabile. Il fine era sempre quello: isolare il movimento popolare, creare paura nei confronti dei partiti e delle organizzazioni in cui si organizzavano i lavoratori e i braccianti. Far convergere il bisogno di sicurezza verso il centro, verso “la vecchia via”, che dal fascismo “storico” aveva imparato a dispensare prebende e posti di lavoro.
Il contenuto che era stato del fascismo – che aveva funzionato anche assorbendo le classi medie nell’apparato statale, nei famosi Enti, grazie a un clientelismo dilagante – era diventato una maniera di gestione del consenso tipica della DC. La forma, il “neofascismo” del MSI, il generale golpista, erano le manifestazioni “del poco fascismo visibile”, che serviva a mascherare, “il tanto fascismo invisibile”.
Tornando all’oggi, alla giornata di sabato 23 marzo, e prendendo come spunto la frase di Fortini, proviamo a domandarci: dov’è il “tanto fascismo invisibile”, celato dietro “il poco fascismo visibile”?
Proviamo a ragionare insieme. Per più di una settimana 100 provoloni di FN hanno conquistato intere paginate sui giornali. La finta indecisione del prefetto Scialla, che aveva già deciso di lasciarli manifestare, ha fatto il resto. La reazione popolare fortunatamente è stata molto forte: una piazza gremita, enorme, una risposta decisa all’idiozia e all’ignoranza. Nei giorni successivi, tutti i giornali nazionali hanno dato estrema visibilità alla manifestazione di Prato: interviste a esponenti istituzionali, bandiere in primo piano, e poi i volti noti accorsi, da Gad Lerner, a Vauro, a Zoro. Allo stesso tempo, un’altra manifestazione popolare, quella dei 100.000 organizzata da comitati territoriali e associazioni accorse a Roma contro le grandi opere e tenutasi in contemporanea alla manifestazione di Prato, veniva letteralmente oscurata. Repubblica e il Corriere semplicemente NON ne hanno parlato.
Perché questa disparità di trattamento? Semplice: la manifestazione di Prato poteva essere “assorbita” entro la rappresentazione di un dualismo inesistente, quello tra i fascisti, che nonostante fossero in 4 scemi hanno ricevuto estrema visibilità; e quella dell’”antifascismo”, un antifascismo depurato dai suoi connotati popolari e buono per giustificare alleanze elettorali “da Tsipras a Macron”. Dal palco difatti non si sono sprecati appelli all’unità contro i fascisti, gli interventi erano letteralmente blindati dai dirigenti di Cgil, Anpi, Arci e istituzioni varie (dalla Regione Toscana al Comune di Prato, tutte legate al centrosinistra). In piazza, insieme alle bandiere antifasciste, sventolavano anche le bandiere del PD, di + Europa, persino quelle dei 5 stelle, gli stessi che sono al governo con Salvini. I giornali hanno fatto il resto, attestando di fatto la piazza al PD (un PD che nelle assemblee di preparazione non si è mai visto), e rappresentando lo spettro politico diviso in due campi contrapposti.
La manifestazione di Roma, invece, non era assorbibile: non potevano criminalizzare una piazza così partecipata, ma nemmeno recuperarla. Non potevano riconoscere la grande prova di democrazia (spendere soldi e tempo, farsi controllare dalla polizia, attraversare il paese per andare a un corteo) perché il mantra è che il TAV piace a tutti. Così diventava più semplice non dare la notizia, cancellare quella parte enorme del paese che ogni giorno si organizza e lotta per evitare un trasferimento di risorse pubbliche dalle opere, dai servizi e dagli investimenti (pensiamo solo alla mobilità regionale ed alla manutenzione delle infrastrutture come le autostrade) nelle tasche di una minoranza di speculatori. La terza Italia, quella che lotta tanto contro il centrosinistra quanto contro la destra (guarda caso, tutti uniti, dal PD a Forza Nuova, quando si tratta di sostenere il TAV Torino-Lione), scompariva dai giornali. D’altronde l’informazione italiana è in mano agli stessi gruppi imprenditoriali che hanno interessi materiali nelle grandi opere.
La manifestazione di Forza Nuova di Prato funzionava dunque come arma di distrazione di massa: 100 fascistelli sono riusciti a cancellare 100.000 persone, un lavoro di costruzione enorme, autorganizzato, dal basso, fatto di persone vere che vivono i problemi, tutti i giorni, sulla loro pelle. Forza Nuova è il “poco fascismo visibile” che doveva nascondere “il molto fascismo invisibile”, quello dei costruttori, che hanno tanto nella destra quanto nel PD i loro referenti politici, che controllano giornali e grandi media, e tutelano così i propri interessi.
Se guardiamo d’altronde al “contenuto sociale” dei loro programmi, fascisti e finti antifascisti dicono in realtà le stesse cose: sono programmi scritti contro i diritti dei lavoratori, per sottrarre democrazia a chi vorrebbe decidere sullo sviluppo del proprio territorio, contro le donne, e in particolare contro le lavoratrici, contro il diritto alla casa. Persino sui migranti – dove il discorso sembra polarizzarsi di più – si fanno le stesse cose, tanto che il programma della Lega è la semplice applicazione di quanto ha fatto Minniti nello stesso campo.
Ma allora fascismo e antifascismo sono la stessa cosa? Non proprio, vediamo perché.
I fascisti come abbiamo visto svolgono un ruolo di distrattore di massa: sovradimensionati dai media rispetto al loro peso reale, indicano negli immigrati e nei più poveri il nemico da combattere. Su questo provano a fungere da base di reclutamento per la destra, che infatti da quanto è al governo li coccola e li sovvenziona lautamente. Ma servono anche al PD, come abbiamo visto, per creare uno spauracchio contro cui porsi come argine necessario. Non è un caso che i dem, quando sono stati al governo, abbiano tollerato o persino incoraggiato i fascisti. A Firenze Casapound, un partito dichiaratamente neofascista, ha aperto sedi indisturbata, accanto alla Questura, proprio quando al Governo e al Comune c’era il PD. Un PD disposto a giocare col fuoco pur di attrarre consensi elettorali, tollerando partiti che non solo predicano l’odio razziale, ma che lo praticano anche, come dimostra la strage di Piazza Dalmazia del 2011, o la strage tentata da Luca Traini a Macerata nel febbraio 2018, tutti attentatori guarda caso cresciuti nel brodo di coltura dell’estrema destra.
I fascisti dunque esistono, svolgono un ruolo essenziale per il mantenimento del potere, e sono anche pericolosi. Come fare a combatterli, come, cioè, attualizzare la lotta antifascista?
In primo luogo occorre togliere loro spazi fisici di agibilità. Pur trattandosi di esaltati, sono in grado di camuffarsi da “bravi ragazzi” per penetrare nei quartieri popolari, dove i problemi sociali possono essere cavalcati e dirottati nell’odio verso il migrante, verso chi è ancora più povero o emarginato. Essere presenti quando provano a mettere la testa fuori dai loro covi, smascherarne la natura di fascisti, impedire loro di aprire sedi, è sicuramente un cattivo servizio reso alla loro causa e a quella di chi li manovra.
Ma l’antifascismo militante non può di certo bastare. Esiste un specifico humus culturale che favorisce il fascismo e che è molto più ampio delle piccole cerchie di militanti neofascisti. La “lotta al degrado”, la rappresentazione di una società assediata da ladri e assassini, la favola dell’”uomo nero” venuto a delinquere ed a rubarci il lavoro è una narrazione che viene ormai diffusa a reti unificate. Nonostante si tratti di affermazioni in totale contrasto con la realtà, questa narrazione tossica attecchisce molto di più di quanto non riescano i gruppi neofascisti, perché proviene da comunicatori molto meno caratterizzati: dalle grandi testate giornalistiche (non solo “il Giornale” o “libero”, ma anche “La Repubblica” e “il Corriere”), dagli stessi partiti “di opposizione” (le prime leggi contro i lavoratori immigrati sono state fatte dal centro-sinistra con la Turco Napolitano; per non parlare delle ordinanze di Minniti, tese a stringere accordi con i criminali libici, a criminalizzare chi salva vite umane nel Mediterraneo ed a privare del diritto ad un giusto giudizio i richiedenti asilo). Nonostante i gruppi neofascisti e la stessa presenza territoriale della destra razzista, Lega compresa, sia molto limitata, il razzismo arriva direttamente nelle nostre case, si insinua nelle nostre difficoltà, dirige la nostra impotenza e la nostra rabbia verso un nemico inesistente. La Lega non è arrivata al 30% nei sondaggi perché ha sedi e militanti ovunque in Italia, anzi, se potrà costruirsi il suo personale politico anche in Toscana e al Sud lo deve principalmente alla sua costante presenza politica e mediatica.
Non basta allora impedire fisicamente ai fascisti di portare la loro propaganda distorta per le strade, occorre anche dare una risposta concreta ai problemi della gente, impedire che vengano convinti dalla propaganda leghista direttamente dal divano di casa propria. Ci sono due modi speculari per farlo: in primo luogo occorre fondare delle “comunità” dove nell’aiuto reciproco si possa creare una cultura del riconoscimento che rompa l’isolamento e l’individualismo imperanti. “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia” scriveva Don Milani. Il mutualismo, il lavoro di radicamento nei quartieri popolari, le lotte sul lavoro, la rivitalizzazione di luoghi di aiuto reciproco e di aggregazione (attraverso sportelli per lavoratori, ambulatori popolari, palestre e scuole calcio autogestite etc.) consentono di fare inchiesta nei quartieri, di riconoscere le proprie difficoltà in quelle dell’altro, in chi sta peggio, rompendo alla radice la catena dell’odio e ottenendo dei cambiamenti reali, tangibili, per chi è stretto nella morsa della crisi.
In secondo luogo, se il razzismo è prima di tutto senso comune, ossia un insieme di pregiudizi diffusi ad arte, occorre combattere anche sul terreno in cui questi pregiudizi vengono diffusi, per combatterli e sostituirli col buon senso di chi sa individuare concretamente i propri avversari e nemici, dallo speculatore immobiliare, al grande evasore, allo sfruttatore, al mafioso, al politicante di turno, e sa soprattutto mettere in campo delle strategie collettive per combatterli. Il terreno prediletto sul quale tali pregiudizi vengono veicolati è quello della politica. Per noi politica vuol dire organizzare o sostenere uno sciopero, aprire una casa del popolo o uno sportello, tirare su una mobilitazione, creare il terreno sociale in cui si può definire meglio un noi e un loro. Ma questo chiaramente non basta, perché per la maggior parte delle persone politica è quello che appare loro in televisione o in prossimità delle scadenze elettorali. Dobbiamo fare i conti con questo dato di fatto, senza ignorarlo o facendo finta che non esista. Per questo un vero antifascismo deve porsi concretamente il compito di togliere spazio politico, mediatico, di discorso, alle destre, contrastando il cattivo senso comune con il buon senso, e farlo tanto sul terreno sociale, quanto su quello politico.
Da questo punto di vista è importante smascherare la falsa dicotomia che i media spingono ogni giorno tra un “sovranismo” (leggi fascismo) che avanza inarrestabile tra le masse popolari e un “antifascismo” dei “competenti”, rappresentato dalle forze più “europeiste” come il PD o Macron. Se gli antifascisti vogliono evitare che i “sovranisti” appaiano come difensori delle masse popolari contro le élites occorre mettere al centro i problemi sociali e dimostrare come queste due forze rispondano in fondo ai medesimi interessi, che non sono quelli dei lavoratori e delle lavoratrici, dei disoccupati e delle disoccupate, dei precari e delle precarie, dei pensionati e delle pensionate di questo paese e di tutta Europa. Nella nostra città, è molto facile dimostrare come tanto il PD e Nardella, quanto i soggetti sociali legati al centrodestra fiorentino, compreso il candidato sindaco Ubaldo Bocci, siano totalmente asserviti alle stesse logiche, che sono quelle della finanza e delle aziende che campano di appalti e di esternalizzazioni.
Perché ciò avvenga, dobbiamo accettare la lotta anche sul piano elettorale. Quando si dice che bisogna combattere con ogni mezzo necessario intendiamo proprio questo: abbiamo ricacciato indietro il fascismo visibile e invisibile con le armi, 60 anni fa, dobbiamo tornare a farlo oggi, con l’antifascismo militante, l’appoggio e l’organizzazione delle lotte sociali, il mutualismo ed una piena riconoscibilità politica che passa anche dal piano elettorale.
*Potere al popolo-Firenze
Potere al Popolo Firenze
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