Da Firenze a Riace: di quale “accoglienza” parliamo?

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La vicenda di Mimmo Lucano in questo periodo porta alla memoria una vicenda del 2005 a Firenze in cui fu tentato di mettere assieme il tema dell’accoglienza di chi fuggiva dalle guerre con la salvaguardia e l’uso condiviso dei beni pubblici. Ricordare quella vicenda crediamo sia interessante per capire come un modello, talvolta disordinato ma guidato da principi solidali come quello di Riace, possa dare frutti ben più positivi e concreti di un approccio burocratico e sostanzialmente escludente.

Nel 2005 alcuni nonviolenti fiorentini, tra i quali spiccava per attivismo il compianto Gigi Ontanetti, seppero dell’arrivo in città di circa quaranta militari etiopici e eritrei fuggiti dalla guerra che insanguinava i loro paesi, guerra che, anche se formalmente terminata nel 2000, si trascinò fino alla soluzione provvisoria del 2018 per poi riemergere recentemente con la crisi nel Tigrai.

Obiettori di coscienza o disertori, erano un simbolo forte di pace oltre che esseri umani in fuga da violenze e morte; soldati di fronti avversi, prima costretti ad uccidersi, avevano attraversato assieme i deserti del Sudan e della Libia subendo le angherie delle varie polizie e dei trafficanti di esseri umani. I loro racconti, pudicamente sfumati, accennavano alla violenza di quella guerra africana, forse anche eredità del colonialismo italiano.

L’entusiasmo vitale di Gigi fece organizzare allora il piccolo gruppo di pacifisti nella “Fucina per la nonviolenza” e si cercarono subito aiuti e collegamenti in tutta le città nella speranza che quell’arrivo di rifugiati divenisse un’occasione per riportare l’attenzione su una guerra quasi dimenticata e far crescere la consapevolezza politica in una Firenze dove era già iniziata l’età delle privatizzazioni e della paura dello straniero.

Di fronte all’inerzia del Comune, che ignorava per strada quel gruppo di ex militari, il Movimento di lotta per la casa, con la figura indimenticata di Lorenzo Bargellini, trovò loro un alloggio provvisorio in una scuola vuota e abbandonata di San Frediano; la mobilitazione cittadina si allargò cercando di fare di quel gruppo un simbolo concreto di accoglienza e soprattutto di rinascita della città. Nacquero proposte diverse ed interessanti per utilizzare i fondi che il Comune avrebbe ricevuto dal governo per accogliere i rifugiati; i famosi 35 euro al giorno, di cui quasi nulla è mai andato nelle tasche degli interessati.

Sorsero varie idee per cercare di integrare concretamente i rifugiati senza ricorrere al solito assistenzialismo calato dall’alto, spesso dimostratosi inutile; tutte confluivano nel proposito di usare quei fondi per rendere agibile qualche immobile pubblico inutilizzato fornendo una esperienza lavorativa agli ex militari, partendo dalle loro competenze. Associazioni di immigrati si dissero disponibili a collaborare assieme a molte persone sensibili al tema dell’opposizione alla guerra (in quegli anni il movimento contro la guerra italiano era ancora il più grande del mondo, almeno così si diceva). Alberto L’Abate propose di realizzare una “casa della pace” in cui poter accogliere persone perseguitate e obiettori di coscienza, altri pensarono a strutture di accoglienza per migranti, altri strutture che potessero essere a destinazione pubblica per incontri e attività politiche e culturali (già allora si sentiva la carenza di spazi pubblici) o semplicemente restaurare immobili per residenza sociale.

Un tentativo di dialogo con il Comune di Firenze, nella persona dell’allora assessore Lucia De Siervo, iniziò quando la presenza evidente di queste di vittime di guerra non era più eludibile, ma le proposte di una gestione dell’accoglienza, che vedesse collaborare tutti insieme istituzioni, rifugiati e volontari nella realizzazione di un progetto condiviso, furono tranquillamente ignorate. Il Comune si limitò a comunicare le proprie decisioni ai tanti volontari, ma proseguì nel solito iter burocratico e inefficace: le risorse vennero utilizzate per un corso di lingua italiana e per ospitare i rifugiati in appartamenti privati con affitti piuttosto elevati. Dopo qualche tempo fu decisa la sistemazione in una remota colonica nel Comune di Vicchio, lontano dallo stesso paese del Mugello, con l’ impossibilità di cercare non solo un inserimento, ma anche un contatto di qualunque genere con chicchessia.

Il risultato finale fu che gli ex militari poco per volta abbandonarono quella destinazione impossibile e di loro si persero tracce; l’obiettivo, non dichiarato ma perseguito, di liberarsi di quell’ingombrante fardello umano fu raggiunto.

Quel lontano episodio riemerge oggi in tutta la sua importanza anche per la vicenda che sta interessando Mimmo Lucano, il sindaco che avrebbe pasticciato nel suo Comune di Riace, tanto da ritrovarsi assurdamente una condanna a oltre 13 anni di carcere.

La memoria di quel piccolo tentativo fiorentino dimostra come il rispetto rigoroso e ipocrita di leggi e norme può portare tranquillamente a non risolvere problemi, anzi a crearne; mentre il violare qualche legge per rispettare i principi della Costituzione e della solidarietà è duramente condannato in questo paese che appare sempre più imbarbarito e impaurito.

A oltre 15 anni di distanza vediamo come a Firenze il problema della casa è irrisolto, mentre quello della proprietà pubblica vede una frenetica accelerazione nella svendita del patrimonio.

Tiziano Cardosi

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Tiziano Cardosi

Obiettore di coscienza negli anni ‘70, attivista contro le guerre, già capostazione delle FS, oggi si occupa soprattutto di mobilità e del fenomeno delle “grandi opere inutili”, tra I fondatori del comitato No Tunnel TAV di Firenze. Attivista di perUnaltracittà.

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