24 gennaio, Giornata internazionale dell’istruzione. Ma… davvero?

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Dal 2018 ogni anno il 24 gennaio ricorre la Giornata Mondiale dell’Istruzione. L’appuntamento, lanciato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quest’anno è dedicato al tema Cambiare rotta, trasformare l’istruzione, e si propone niente meno che “l’uguaglianza educativa sia tra Paesi ricchi e poveri che tra donne e uomini”.

Al di là del senso di questi mega eventi che di solito non producono alcun effetto concreto, notiamo che i propositi – buoni sulla carta – sono del tutto astratti, perché sappiamo che un sistema scolastico si modella sui principi e gli obbiettivi della società in cui si colloca. Quindi in un sistema globale in cui le differenze tra paesi ricchi e paesi poveri si accentuano sempre di più, e il divario tra donne e uomini è tutt’altro che risolto, suona irrealistico l’intento dichiarato da questo evento che si prefigge di: “coniugare sforzo pubblico e bene comune, guidare la trasformazione digitale, supportare gli insegnanti, salvaguardare il pianeta e sbloccare il potenziale in ogni persona per contribuire al benessere collettivo e della nostra casa condivisa”. Dichiarazioni ambiziose che suonano stonate e persino irritanti nella loro chiarezza espositiva: come se si sapesse benissimo in quale direzione si dovrebbe andare, mentre si procede in quella opposta.

Del resto, per uscire dalla retorica e stare nel concreto della realtà presente, l’ultimo rapporto di Save the Children, Build forward better pubblicato nel settembre 2021, ha mostrato un netto peggioramento dei casi di dispersione scolastica. Nonostante le riaperture delle scuole nel mondo, quasi 274 milioni di ragazzi e ragazze non hanno fatto ritorno in classe. I numeri mostrano che sono stati tra i 10 e i 16 milioni in più rispetto al pre-pandemia.

Il panorama su cui si aprono queste “Giornate” è internazionale, e subito pensiamo ai paesi dove il diritto alla studio è violato sistematicamente, ad esempio l’ Africa subsahariana, dove milioni di bambini e bambine non sanno leggere né fare le operazioni matematiche più semplici. Dove meno del 40% delle ragazze ha ultimato il percorso di studi della scuola secondaria. E potremmo continuare con dati e cifre che rendono spaventosamente reale l’ingiustizia su cui si basa l’equilibrio o meglio lo squilibrio economico globale.

Ma guardiamo un po’ in casa nostra, alla situazione di un paese come l’Italia, dove sulla carta l’obbligo scolastico c’è. Come tratta la formazione e l’istruzione un paese che, ancora nel 2019, si confermava la settima potenza manifatturiera mondiale, davanti alla Francia e al Regno Unito? Che tra gli esportatori mondiali si aggiudicava la performance migliore, subito dietro la Germania, come registrava il Rapporto Scenari Industriali del Centro Studi di Confindustria?

La risposta è terribilmente sconfortante. Per stare agli ultimi dati, nel PNRR sono destinati investimenti più corposi alla rete ferroviaria, soprattutto alla linea AV (24,77 miliardi) che ai “servizi di istruzione: dagli asili nido all’università” (19,44 mld). 3,9 miliardi di euro saranno poi investiti per la messa in sicurezza e la riqualificazione dell’edilizia scolastica, e va bene, ma non si prevede quella “discriminazione positiva” per la messa in sicurezza delle scuole in aree sismiche e nelle aree socialmente più fragili. Soprattutto, non si prevede né un incremento degli spazi, né un aumento degli insegnanti: ovvero non si investe sulle precondizioni per un miglioramento sostanziale della formazione, con classi meno numerose e la possibilità di una didattica diversa da quella attuale.

Eppure, ci sarebbe moltissimo da fare. Nel corso degli ultimi decenni, con un’accelerata dovuta alla Buona scuola di Renzi, abbiamo assistito allo smantellamento della scuola pubblica, relegata a settore marginale e aggredita da un’impostazione aziendale e privatistica. Sul piano economico, già nel 2017 l’Italia era quartultima in Europa per investimenti nell’istruzione in rapporto al PIL. Come se non bastasse, la legge di bilancio per il triennio 2020-2022 ha previsto nell’arco dei prossimi due anni tagli progressivi per un totale di circa 4 miliardi di euro.

Sul piano culturale, il concetto di scuola-azienda è esplicitato al meglio dall’Alternanza scuola-lavoro, introdotta all’inizio degli anni 2000 e resa obbligatoria dalla legge 207 del 2015, appunto dalla già citata Buona Scuola di renziana memoria. Ora si è abbandonata la definizione di Alternanza (contestata da studenti, docenti, sindacati e non solo) e si parla di “Percorsi per le competenze trasversali e per l´orientamento“, previsti dall´art. 1 (commi 784-787) della legge di bilancio 2019. Cambia il nome ma non la sostanza.

I PCTO hanno durata non inferiore a 210 ore nel triennio terminale del percorso di studi degli istituti professionali; non inferiore a 150 ore nel secondo biennio e nell’ultimo anno del percorso di studi degli istituti tecnici; non inferiore a 90 ore nel secondo biennio e nel quinto anno dei licei, con una esplicita impostazione classista. Inoltre, tale riduzione del monte ore complessivo obbligatorio previsto per ciascuna tipologia di istituto ha conseguenze anche sul piano delle risorse finanziarie, con una proporzionale diminuzione dei finanziamenti pubblici.

Dunque la scuola pubblica viene finanziata meno dallo Stato perché manda ragazzi e ragazze a quella che più che una formazione è uno sfruttamento di forza-lavoro non retribuita, esposti a un sapere sempre più mercificato, a un addestramento alle competenze utile a garantire il profitto delle imprese.

E che dire del valore formativo? Si può chiamare formazione una preparazione non inserita in un costante percorso di rielaborazione critica, nucleo dell’esperienza scolastica, che mira a creare non solo lavoratori e lavoratrici ma anche soggetti adulti consapevoli, e che non si può attivare in un luogo di lavoro?

E come inserire nella formazione la feroce repressione messa in atto dalla polizia nei confronti di studenti che manifestano dopo la morte di Lorenzo Parelli, studente diciottenne dell’Istituto Bearzi all’ultimo anno giorno di PCTO, ucciso da una trave d’acciaio in un capannone della Burimec azienda metalmeccanica alle porte di Udine? Ennesima dimostrazione dell’enorme problema sicurezza nel mondo del lavoro, che ora contagia anche la scuola.

Infine, la favola che l’alternanza scuola- lavoro contribuisca a risolvere il problema della disoccupazione giovanile è smontata dalle cifre. In effetti, la disoccupazione giovanile è legata all’aumento della disoccupazione generale.
Occorre invece un piano di investimenti strutturali sulle scuole, basato su un ripensamento degli spazi, una riqualificazione degli edifici, l’uso di tutti gli strumenti e i dispositivi di sicurezza, impianti di aerazione e purificazione dell’aria che in altri Paesi sono in uso, un potenziamento vero dei trasporti, la riduzione drastica del numero di alunni per classe, l’assunzione di contingenti adeguati di docenti e di personale ATA.

Le proposte ci sono, ma non sarà nessuna “Giornata internazionale” a realizzarle; ci vorrà la pressione che possono esercitare sull’opinione pubblica, sulla stampa, sulla politica le realtà indipendenti e antisistema come  i sindacati di base, i comitati come Priorità alla scuola o il collettivo NiNaNd@, i docenti in lotta, insieme a tutti coloro che vogliono una scuola senza sfruttamento, precariato, aziendalizzazione. E prima di tutti, le soggettività più importanti da ascoltare sono i collettivi di studenti, che da anni discutono, elaborano, lottano per una scuola pubblica che sia fuori dal mercato, che sia uno spazio e un bene comune, non un servizio all’impresa e all’economia privata. 

 

 

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Ornella De Zordo

Ornella De Zordo, già docente di letteratura inglese all'Università di Firenze, e attiva per anni nei movimenti, è stata eletta due volte in Consiglio comunale - dal 2004 al 2014 - per la lista di cittadinanza 'perUnaltracittà', portando dentro il palazzo le istanze delle realtà insorgenti e delle vertenze antiliberiste attive sul territorio. Finito il secondo mandato di consigliera di opposizione ai sindaci Domenici e Renzi, prosegue con l'attività di perUnaltracittà trasformato in Laboratorio politico, della cui rivista on line La Città invisibile è direttrice editoriale.

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