Il nemico di tutti, il pirata contro le nazioni

copertina roazenUna ricerca sulle identità ci può fornire elementi di riflessione sulla loro gerarchizzazione, ma anche illustrare il discrimine che è possibile mettere in atto a partire dalle loro definizioni, allora l’identità del pirata è certamente un terreno ricco di apporti produttivi.

Daniel Heller-Roazen [1]
Il nemico di tutti, Il pirata contro le nazioni
Quodlibet, Macerata 2010. Pagine 286. € 22.00.

Il libro di Heller-Roazen non è una storia della pirateria, ma la storia o l’archeologia di un concetto e della sua collocazione giuridica ed etica. L’autore ricostruisce il paradigma che descrive il modo d’essere di questo personaggio sicuramente sfuggente. La dimensione, il chi è, del pirata, si mostra da subito alquanto complessa. C’è un primo paradosso di tipo etico per il quale, in alcune epoche, un’attività predatoria non viene disdegnata come si potrebbe pensare. Ad esempio, nella Grecia antica, «questa pratica era considerata un commendevole, anzi glorioso modo di procurarsi da vivere» (C. Phillipson citato a p. 33). O, come ci racconta Tucidide, nel momento in cui si erano intensificati i traffici marittimi, alcuni Greci si fossero dati alla pirateria che consisteva, oltre al classico scontro navale, anche nell’assaltare e depredare villaggi rivieraschi privi di mura. Ma «una tale pratica non recava vergogna, anzi, piuttosto buon nome», perché si espletava nei confronti di un altro che era comunque un competitore.
Diciamo che l’atto di pirateria si svolgeva in una situazione nella quale mancava od era latitante una autorità sovra locale. Le cose cambieranno appena ci confronteremo con civiltà più strutturate. Con Cicerone scopriamo che i pirati godevano di uno statuto giuridico alquanto imbarazzante. Il testo al quale Heller-Roazen si riferisce è il “de officiis” tradotto in italiano con: “I doveri”. Officium è un termine le cui accezioni coprono un campo semantico non facilmente circoscrivibile, che poi, per alcuni fenomeni, si trasformerà in tempi più recenti nel termine “liturgia”, da intendersi però nella sua accezione primitiva di “prestazione pubblica”,[2] con un senso in qualche modo equivalente a comportamento (o pratica) da tenere.

Cicerone, nel determinare quali legami sociali uniscono tra loro i vari elementi della società, definisce vari gradi dei rapporti tra i suoi membri, definendone perciò anche i doveri. Si arriva così sino al gruppo il più allargato possibile che comprende tutti gli esseri viventi dotati di parola. Essi, «insegnando e imparando, comunicando, discutendo e giudicando» si associano in un raggruppamento che è quello che costituisce una “società naturale”. Di questa fanno parte anche gli stranieri che «rientrano pienamente tra coloro verso i quali si hanno degli obblighi. Persino gli individui di altri popoli che dimostrino una chiara e forte ostilità nei confronti della nostra patria e della nostra terra d’origine, possono appartenere all’orbita della responsabilità» (p. 15).

Si ha così che anche i nemici possono esigere un giusto trattamento, o anche semplicemente, che si possa con essi, ad esempio, patteggiare una tregua. Si definiva cioè un insieme dai tratti universali: «l’immensa società costituita dal genere umano» (p. 17). Ma ne rimangono fuori degli individui particolari: i pirati. «Il pirata infatti non è annoverato fra i nemici legittimi, ma è il nemico comune di tutti, e con lui non possiamo avere in comune né la fede né il giuramento» (p. 16). Questa immensa società costituita dal genere umano lascia al di fuori dei propri confini una figura che è comunque umana. Il discrimine è l’agire in buona fede, elemento riscontrabile anche nel comportamento del nemico che si identifica a partire dalla sua appartenenza ad una nazione ed uno stato in nome dei quali agisce, ma non nel caso del pirata, lasciando così aperta la contraddizione che vuole che la definizione la più includente possibile (essere vivente dotato di parola) lasci comunque che qualcosa ne rimanga escluso. Heller-Roazen pone appunto questo interrogativo logico: il nemico di tutti è o no uno dei tutti?

“Asilo” ha un’etimologia molto interessante. È composto da “a” con funzione di negazione e dal verbo sylan che ha a che fare con il diritto di rivalsa con riferimento sia all’atto, sia ai termini di diritto che regolano la possibilità dell’atto stesso. Ma questo termine è oggetto di una trasformazione semantica che testimonierebbe anche il passaggio dal pensiero magico al pensiero positivo. In origine il termine indica infatti una azione violenta tipo catturare una persona o dei beni che gli appartengono e può essere riferita anche a personaggi divini. In opere più tarde designa il saccheggio di luoghi sacri e il furto di oggetti consacrati. Azioni che implicano la congiunzione di due concetti, il sacrilegio e la vendetta. A tutto questo, occorre aggiungere che c’è anche un altro senso ancora attraverso il quale interpretare il senso del verbo sylan, senso concernente l’aspetto giuridico, che fa riferimento a quello che viene chiamato il “diritto di rivalsa”.

Un altro significato del termine di tipo para-legale sarebbe la detenzione di una persona o di un bene trattenuti a garanzia o come anticipo per soddisfare una pretesa. C’è ancora un’ultima accezione che fa sì che il termine possa riferirsi a sequestri classificabili come post- giudiziali. Gernet[3] dice che nell’evoluzione della parola si possono osservare almeno tre stadi: «sylai associate ai gene, dominate dalla nozione di vendetta familiare o religiosa; sylai private, operanti nella nascente vita economica e dominate dal concetto di vendetta individuale e magica; sylay strettamente “secolari”, pendenti sui beni del debitore e, nelle relazioni internazionali, sui beni dei compatrioti solidali con lui» (p. 44).

Tutto questo testimonia comunque un elemento comune per il quale si ha che sylan sia una predazione approvata se non, addirittura, una prescrizione di legge. Questo aspetto è quello che la distingue dalla semplice ruberia. Si ha così che la legge che può proibire le pratiche di depredazione era la stessa che le permetteva in tutti gli altri casi e presupponeva l’esistenza di un potere riconosciuto che equivarrà in molti casi con quello che potremmo definire, in un’accezione più moderna, il concetto di “Stato”. La conseguenza è che, all’interno dei confini ove poteva arrivare il potere dello stato (o di istituzione simile), erano possibili razzie considerate legali, anche se avvenivano alla stessa stregua di quelle che non potevano usufruire della stessa autorità che appunto poteva autorizzarle, perché si muovevano fuori di detti confini.

All’ombra di questo potere, di quello che i moderni avrebbero chiamato “stato”, dice Heller-Roazen, si ebbero razzie di beni e persone alla stessa stregua dei razziatori che si muovevano al suo di fuori. Così che questo potere «catturò anche qualcos’altro: il diritto stesso di cattura, con la forza non meno che per mezzo della legalità» (p. 46). C’è un fuori e un dentro rispetto ai quali comportamenti simili diventano o atti di giustizia o atti di pirateria. Questo aspetto spiega, almeno parzialmente, il perché gli atti di pirateria avvengano principalmente in mare, dove infatti è più difficile estendere quei confini entro i quali si applica la giurisdizione statale. C’era infatti una difficoltà di carattere tradizionale che si rifaceva a «un arcaico principio giuridico per il quale l’acqua che scorre, tanto all’interno del territorio quanto davanti alle sue coste, è per natura esente da rivendicazioni di proprietà». Il pirata svolge infatti la sua attività muovendosi sulla soglia di un confine, per la quale le cose passano dall’appartenere a qualcuno all’appartenere a nessuno o a tutti.

Le ragioni per poter legittimare il comportamento predatorio ci conducono «a due classi di predoni legalizzati: i privati ingaggiati nel nome del pubblico interesse, e quelli pubblicamente autorizzati a rimediare a un torto privato» (p. 92). Classi per le quali, in epoche a noi più vicine, si emettono apposite licenze o marche che si distinguono in definitiva per l’essere l’una relativa ai periodi di pace, l’altra riguardare invece quelli di guerra. Una facilitava le transazioni nella sfera privata, l’altra quelli nella sfera pubblica. Ad una si potrebbe attribuire il termine di rivalsa o di “rappresaglia”, l’altra autorizzava i corsari. Ecco, appunto i corsari, termine che dal basso medioevo sostituisce quello di pirati proprio a distinguere quei comportamenti in qualche modo autorizzati. Ma, come si può facilmente intuire, i detentori di lettere (patenti) di rappresaglia emesse per ragioni commerciali e gli uomini che venivano ingaggiati per combattere, facevano parte di una unica classe di predoni che comprendeva anche i pirati. L’unica legittimazione, in definitiva, proveniva dal possesso dell’autorizzazione, perché l’atto non può legittimarsi da sé, né può legittimarlo l’attore.

Si capisce sempre di più che l’essenza politica e giuridica del pirata possa essere un paradosso attraverso il quale (attraverso le sue possibili – e plurali – chiavi di lettura) poter giustificare comportamenti di lotta e contenimento altrimenti biasimabili. L’autore costruisce pezzo pezzo il paradigma di un qualcosa di particolare, estraneo alle leggi consuetudinarie e, in qualche modo definisce il “nemico di tutti”; paradigma che descrive appunto quello che si deve considerare come l’atto di pirateria. Occorrono diversi elementi per caratterizzarlo. Una regione al di fuori di ogni giurisdizione territoriale (spesso il mare, ma anche l’aria, ma non è esclusa la terra) e attori non riconducibili ad uno stato costituito. Ma poi entrano in gioco le labili separazioni tra le categorie che distinguono il fare criminale da quello politico e le definizioni stesse di guerra e di “genere umano” per le quali si avranno soggetti inclusi ed esclusi e guerre giuste, guerre auspicate, guerre preventive. Già in Kant, dietro il progetto di una pace universale, si costruisce il dispositivo che chiama ad una guerra indispensabile all’ottenimento del risultato. Si ha così il nemico ingiusto.

Ma cosa è mai un nemico ingiusto secondo il concetto del diritto delle genti? È colui, la cui volontà pubblicamente manifestata (sia a parole, sia a fatti) tradisce una massima che se fosse eretta a regola universale, renderebbe ogni stato di pace impossibile tra i popoli e perpetuerebbe lo stato di natura. Tale è la violazione di trattati pubblici, della quale si può presumere che riguardi gli interessi di tutti i popoli, la cui libertà si trova da ciò minacciata, onde sono così obbligati a unirsi contro un tale disordine per togliere a questo stato il potere di commetterlo.[4]

Scopo di questa guerra auspicata sarebbe quello di consentirgli «di adottare una nuova costituzione, che per la sua natura reprima la tendenza verso la guerra».[5] La guerra ha quindi anche lo scopo di esportare elementi del valore, ad esempio di esportare la “democrazia”; e si giustifica tramite esso. In definitiva il pensiero europeo (oggi occidentale) ha messo insieme una serie di dispositivi per combattere il pirata di turno considerato ora il predone marittimo, ora lo stato “canaglia”[6] rispetto al quale il fargli guerra non soltanto è possibile, ma è appunto dovuto. È altresì possibile fargli guerra in termini preventivi, anche prima che abbia messo in atto una qualunque azione presunta essere ostile.

L’attualità delle ricostruzioni ed interpretazioni di questi meccanismi ed atteggiamenti, ci sembra essere più che puntuale; basti pensare ai vari “terrorismi” con provenienza interna od esterna degli attori ed alle classificazioni da poter attribuire all’Isis e ai vari califfati per determinare se siano o no degli stati e se siano o no degli stati “canaglia”. Ecco forse perché il pirata, incarnando il nemico di tutti e quindi anche di questo sistema, si muova in un territorio ambiguo dove può raccogliere le simpatie degli oppositori del sistema stesso.

Gilberto Pierazzuoli è un attivista di perUnaltracittà


[1] Daniel Heller-Roazen, (1974) canadese, si è laureato in filosofia all’Università di Toronto, specializzandosi all’Università Johns Hopkins in tedesco e concludendo un dottorato in letterature comparate. Dal 2000 è professore di letteratura comparata all’Università di Princeton. È autore di diversi saggi e traduttore inglese di Giorgio Agamben.
[2] Cfr. G. Agamben, Opus dei, Archeologia dell’ufficio, Boringhieri, Torino 2012.
[3] Louis Gernet, Recherches sur le développement de la pensée juridique en Grèce ancienne, Albin, Paris 2001.
[4] Immanuel Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 2003, p.186.
[5] Idem, La metafisica dei costumi, Laterza, Roma Bari 2006 p. 187.
[6] Cfr. Jacques Derrida, Stati canaglia, Raffaello Cortina, Milano 2003.