Che quello attualmente in corso – a Parigi come in Siria, in Turchia come a Bruxelles – sia uno scontro fra due opposte concezioni della barbarie, piuttosto che della civiltà, ci vuol davvero poco a capirlo: ai raids aerei russi sulla Siria risponde l’abbattimento di un aereo civile russo, a quelli francesi una serie di stragi di civili nel cuore di Parigi, cui a sua volta il governo francese risponde con nuovi e più distruttivi raids che – ça va sans dire – uccidono anche un numero imprecisato di civili. Se c’è qualcosa di civile, in tutto questo, sono appunto soltanto le vittime.
Non è nemmeno certo che le “opposte” concezioni siano veramente opposte: a parte i passaporti a prova di bomba, i jihadisti laureati a Cambridge e gli outing di spie e politici più o meno accreditati, qui ci viene in aiuto la logica. Se la barbarie è la negazione della civiltà, e se una negazione azzera il valore di verità di ciò che nega, le negazioni di due asserti, per incompatibili che essi siano, hanno sempre lo stesso valore, cioè zero; e infatti il residuo netto di tutti questi “opposti” eroismi è sempre, solo, invariabilmente lo stesso: la grande livella del grande Totò.
Nell’agone, per di più, ciascun contendente finisce proprio per dimenticare e negare i “valori fondanti” della stessa civiltà di cui si erge a campione. Il musulmano nega il significato originario della parola “Islam” che, con la stessa radice semitica dell’ebraico Shalom, vuol dire pace; l’occidentale risponde scatenando stati d’emergenza e controffensive campali che negano precisamente le tre parole magiche – liberté, égalité, fraternité – che vorrebbero difendere. Lo scontro aliena dunque ciascuna parte a se stessa, e la unisce all’altra lungo una linea di nullità.
Lo scontro, del resto, è solo una delle forme possibili di incontro; lo abbiamo già visto al tempo della Crociata, quando l’urto sanguinoso fra le due stesse civiltà oggi in campo favorì l’irripetibile contaminazione fra i loro valori (estetici, filosofici, giuridici e finanche religiosi) creando meraviglie come la basilica di Santa Sofia e il baccalà alla vicentina. Ma che distanza tra quell’incontro e questo, in cui la sola contaminazione è il contagio virale di una violenza gratuita, assurda e cieca, che permea parole, opere e omissioni di tutti come appunto la cecità di Saramago.
Eppure, come in quella di Amleto, c’è del metodo in questa follia: posizioni, alleanze e dottrine scivolano furiosamente l’una contro l’altra, come biglie che rotolano in una grande coppa, ma basta aspettare un po’ perché, rallentando, si allineino tutte sul fondo, ferme ed impotenti com’erano all’inizio. Non passa giorno senza che i dietrologi scoprano un nuovo agitatore della coppa (la CIA, Chaney, Merkel, l’Arabia Saudita…), senza mai accorgersi che tutti costoro – e loro stessi che li accusano – sono altrettante biglie che godono di un breve momento di gloria prima di fermarsi per sempre.
Sorge allora il dubbio che un “grande vecchio” in questa storia non esista affatto, e che quello della coppa non sia altro che il movimento automatico con cui la macchina del capitale mondiale, marginalizzandoli e lasciando che si scannino a vicenda, si libera degli ultimi residui di valore (di “opposto” valore) che ancora intralciavano la sua sconfinata pervasività. È anzi il movimento in cui la macchina, dopo che ha secolarizzato, banalizzato e infine nominalizzato il valore nei listini delle borse-valori, si manifesta come negazione assoluta del valore, come fine della sua storia.
In effetti, lo scambio non ha mai avuto bisogno del valore: nelle pieghe dello scontro “per i Luoghi Santi”, il mercante medioevale prosperava esattamente come oggi prospera il mercato mondiale; ma mentre il mercante teneva il lardo per i normanni e le merguez per i saraceni, oggi le Nike si vendono altrettanto bene agli adolescenti parigini e ai kamikaze che escono di casa solo per sterminarli. Il valore non è più mobile, adattabile, al limite deformabile, è assente; e il mercato non fiorisce più come suo ultimo rifugio, ma come sua antitesi dichiarata.
Istituzionalizzando così il dis-valore, il sistema istituzionalizza la barbarie come suo rito pagano, la mette “all’ordine del giorno” come la rivoluzione nel ’17. Ma mentre il valore è relativo (a una Weltanschauung, una cultura, una civiltà), il disvalore è assoluto: è pura mancanza di valore. Il mercato può così ergersi al di sopra di ogni scontro affrancandosi dai limiti locali imposti da usi e costumi ormai desueti; e rendere assoluti i poteri che lo controllano, i quali da legge imposta con la forza divengono norma interiorizzata, normalità, abitudine, in una parola: bio-poteri.
A fronte di tutto ciò temo che la semplice tolleranza – da molti, giustamente invocata – sia misura certo necessaria, ma non sufficiente: il mercato sarà sempre più bravo di noi nel coltivarla. Quel che ci rimane non è astenersi dal prendere posizione, bensì farlo, consapevolmente: è chiaro, non all’interno dello scontro fittizio fra due sistemi di valore all’apparenza morenti, ma di quello reale fra i sistemi del valore come tali e l’unico sistema del disvalore che minaccia di fagocitarli tutti, in un carnevale di oblio e negazione che rappresenta il Leviatano della globalità.
Non ignorare, dunque, ma negare la negazione; schierarsi apertamente dalla parte del valore; continuare o ricominciare, ciascuno dentro il suo piccolo “universo valoriale”, non importa quale, a produrre valori (oggetti tangibili e intangibili, servizi, domande, idee e visioni) in faccia a chi vorrebbe ridurre il mondo a una distesa infinita di mancanze intercambiabili e perpetue. È questa, forse, la sola via d’uscita da questo tragico scontro di (in)civiltà: la sola che può permetterci di trasformarlo in un incontro – un incontro carico di tensioni e differenze ma, proprio per questo, civile.
*Angelo M. Cirasino, filosofo della scienza, fa parte della Società dei Territorialisti
Angelo Maria Cirasino
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