Da Firenze a Baghdad al Kurdistan iraniano: così lontano, così vicino.

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Eccoci di nuovo a dover tracciare i confini fra noi e gli “altri”, fra noi e l’ “altro mondo”, quello che non capiamo, quello di chi si copre la testa, quello che per pregare si inginocchia verso La Mecca, quello che ci sembra così distante, così poco familiare al nostro sguardo.

Ecco, lo sguardo, appunto. In questi ultimi giorni nei quali, cavalcando fino all’ossesso l’onda emotiva rischiamo anche solo per un istante di sentirci davvero un po’ tutti così lontani (ma i bimbi siriani o pakistani, dove li mettiamo?), mi è tornato in mente un bellissimo libro che aveva molto attirato la mia attenzione durante un soggiorno spagnolo e che sperai di ritrovare, poi riuscendoci, nella sua traduzione italiana. Il libro si intitola I canoni dello sguardo ed è scritto da Hans Belting, “professore emerito di Storia dell’arte e teoria dei media presso la Hochschule für Gestaltung di Karlsrhue etc etc”.

Duo Djamshid Chemirani & Shadi Fathi شادی فتحی و جمشید شمیرانی.mp4.00_02_41_20.Immagine001So che questa rubrica dovrebbe trattare di musica, ma come si fa a non gettare un occhio sulle altre discipline artistiche, come si fa a non essere incuriositi da queste connessioni vitali che casualmente ti capitano fra le mani, come si può non rendersi conto dell’assurdità del mondo contemporaneo, così ossessionato dall’inscatolamento seriale che arriva a separare anche l’arte da sé stessa e a creare confini spesso dettati solo da esigenze di semplice marketing per il quale per vendere bene si deve definire e inscatolare tutto in modo semplice e invitante, take away e “usa e getta” e, soprattutto, rassicurante?

La seconda di copertina, fra le altre cose, recita così: “Esistono vicende, nella storia umana, che hanno una dirompenza più inappariscente dei grandi sconvolgimenti, ma un rilievo e una durata ben maggiori. Per comprenderne le vere dimensioni sono d’ostacolo gli specialismi non dialoganti e gli arroccamenti sugli spalti identitari. Ce lo insegna in modo esemplare l’invenzione della prospettiva […] Grazie alla sua indagine si chiariscono le alleanze tra pratiche pittoriche, dottrine artistiche, conoscenze scientifiche, e soprattutto si svela la fecondità di un paradosso: all’apice della sua fioritura, l’Occidente definì il canone percettivo, attraverso il quale ci appropriamo del mondo sotto forma di immagine, attingendo a una teoria della visione concepita quattro secoli prima da un matematico arabo nativo di Bassora, Alhazen, in un contesto religioso islamico che bandiva le immagini perché giudicate contraffazioni blasfeme della creazione di Dio […]”.

Eccoci quindi d’un tratto “gemellati”, noi e quei mondi così “assurdi” e lontani. Gemellati nello studio e nella pratica della prospettiva sia dal punto di vista pittorico che architettonico. E chi l’avrebbe mai detto che Firenze e Baghdad avessero così tanti “punti di fuga” in comune? Questo il libro:

https://books.google.it/books/about/I_canoni_dello_sguardo.html?id=DKNUbwAACAAJ&source=kp_cover&redir_esc=y

E questa subito di seguito, musica dell’antica Persia, con un racconto personale:
Shadi Fathi, di famiglia kurda, splendida solista di musica classica persiana, allieva per il sétar del grande musicista Ostad Dariush Tala’i e per il daf e lo zarb di Mehrdad Karim-Khavari, nel segno della confraternita Ghaderiyeh del Kurdistan Iraniano, attirata dal mio lavoro ascoltato solo su cd, mi vuole conoscere.
Ci troviamo, e comincia così un dialogo nel quale non parliamo di musica ma dove la musica siamo noi e durante il quale, a sorpresa, con le lacrime agli occhi, mi dice: “io sto parlando in francese, tu stai parlando in italiano ma per un lungo istante ho avuto l’impressione che stessimo parlando in persiano”.

Tutto è pregno di poesia, i suoi abiti sono leggeri, di forme essenziali e quasi antiche, la stoffa che copre il suo strumento a pizzico è pregiatissima come quella di un paramento sacro, la sua musica è preghiera, è un dilatarsi del tempo e uno spazio senza più confine.

Lei viene da un luogo dove la musica di tradizione è considerata musica classica e viceversa: un luogo dove la cultura è il popolo: un popolo sí sfiancato dalla dittatura, dai controlli continui, dalla mancanza di libertà, ma un popolo che ha la sua musica e l’ha coltivata anche in mezzo alle bombe, come mi raccontava lei, pensando che se fosse morta lo avrebbe fatto almeno con il suo strumento in mano perché quella era la sua voce e la sua libertà di esistere.

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Francesca Breschi, cantante, attrice, ricercatrice e didatta, è dal 1990 componente il Quartetto Vocale di Giovanna Marini. Ha collaborato, tra gli altri, con Nicola Piovani, David Riondino, Emilio Isgrò, Elio De Capitani, Francesco De Gregori, Mario Brunello, Marco Paolini e Vinicio Capossela. Si dedica allo studio, all’insegnamento e all’elaborazione di vari generi ed epoche musicali, con particolare interesse per i repertori della tradizione orale italiana. Attivista della lista perUnaltracittà. Il suo sito internet

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