Sarebbe facile storpiare la parola “riforma” applicata alla legge costituzionale “Renzi-Boschi” (o anche Alfano e Verdini) con la vulgata giornalistica di “deforma” o “schiforma”. Vogliamo stare nel merito delle proposte e del nuovo assetto che si vuole imprimere alla Costituzione del 1948.
Viene presentata, dunque, come una riforma. Senza rivangare le differenze storiche tra “riformisti” e “rivoluzionari, troppo indietro nel tempo, nel linguaggio corrente riforma evoca, comunque, uno stato di miglioramento. Nel caso di un’asserita riforma della Carta fondamentale di uno Stato i miglioramenti dovrebbero attenere ai principi e al funzionamento della Carta precedente attraverso l’aumento di diritti del “popolo sovrano”.
Le proposte di modifica riguardano la seconda parte della Costituzione denominata “Ordinamento della Repubblica”, e quindi gli organi rappresentativi, la loro modalità di funzionamento, gli enti territoriali e tanto altro (sono ben 47 articoli).
In questi casi una riforma che vuole essere tale interviene sul miglioramento della democrazia rappresentativa, sul rapporto con gli elettori, sulla maggiore vicinanza del corpo elettorale agli organi di rappresentanza politica, su nuovi elementi di democrazia partecipativa, avvicina il parlamento alle istanze degli elettori. Potremo continuare ma ci fermiamo qui.
Cercheremo di dimostrare – e non sarà difficile – che la riforma “Renzi-Boschi” non ha queste caratteristiche, non migliora lo stato di cose esistente e, anzi lo peggiora decisamente, che non persegue un avvicinamento degli organi al corpo elettorale ma lo allontana e che vengono meno alcune caratteristiche fondamentali come il delicato equilibrio tra i vari organi: parlamento-governo-corte costituzionale-presidenza della repubblica.
Quando una asserita riforma perde i connotati di miglioramento significa che non ha diritto a chiamarsi tale, ma assume le caratteristiche di una “controriforma”. Le riforme degne di questo nome sono arrivate ai nostri giorni e hanno avuto il segno del cambiamento positivo. Impossibile non ricordare lo Statuto dei Lavoratori del 1970. L’idea di fondo dello Statuto era il riconoscimento della tutela dei diritti e della dignità dei lavoratori. Stabiliva che il lavoratore era un cittadino a tutti gli effetti e non perdeva i suoi diritti solo perché “dipendente”. Si pensi alla riforma del Diritto di famiglia datata 1975, che archiviava la famiglia patriarcale e fortemente ineguale nel rapporto tra i generi. Si pensi all’istituzione del Servizio sanitario nazionale che riaffermava e dava forza all’articolo 32 della Costituzione sull’attuazione del diritto alla salute.
Erano il frutto non di un mero lavoro parlamentare ma delle istanze che provenivano dalle lotte sociali, che il parlamento si trovava quasi “costretto” ad approvare non senza difficoltà. Avevano tutte la caratteristica di essere attuative di principi costituzionali e hanno reso un po’ più giusto, equo e democratico questo paese.
Le controriforme invece arrivano dall’alto. Chi richiede queste istanze ha interessi propri svincolati dell’interesse generale e dal bene comune e parte proprio all’attacco delle riforme conquistate precedentemente. I suggeritori vengono da fuori. Ricordiamo il documento di JP Morgan del 2013 che stigmatizzava in l’Europa, le “Costituzioni della periferia meridionale approvate dopo la caduta del fascismo” per essere un ostacolo allo sviluppo economico e addirittura la causa della crisi economica in quanto risentirebbero di una “forte influenza socialista”. Un’istituzione finanziaria, dunque, che nessuno ha eletto, ha dettato le regole e l’agenda ai governi italiani: Letta prima e Renzi dopo. Il primo ha iniziato, il secondo ha concluso il progetto.
Ecco allora che, coerentemente, anche le altre leggi di questo governo vanno in quella direzione. Il Jobs Act – nella Repubblica “fondata sul lavoro” – attacca pesantemente i diritti di cittadinanza del lavoratore mettendolo in primo luogo sotto ricatto da quelle “tutele crescenti” che erano già diritto pieno nella legislazione precedente. Oggi sotto attacco sono la scuola, la sanità, il territorio, l’ambiente. Tutto presuppone decisioni di vertice, assenza di vincolo partecipativo e tutela di interessi privati.
La riforma Renzi-Boschi asseconda le decisioni di vertice, centralizza le decisioni, esautora il parlamento e, con la legge elettorale chiamata patriotticamente Italicum, attacca fortemente il principio di rappresentanza, in continuità con la legge precedente dichiarata anticostituzionale e di cui è espressione questo parlamento: il c.d. Porcellum.
E’ proprio la legge capolavoro di Calderoli che ha permesso a questo governo di proporre la modifica costituzionale a colpi di maggioranza cambiando ben 47 articoli su 139. I primi importanti segnali c’erano già stati con il Governo Monti e con la modifica dell’articolo 81 che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio che rischia di comprimere ogni diritto costituzionale. Non si può non condividere con chi afferma che è da considerarsi “abnorme e inaccettabile che il principio del pareggio di bilancio debba prevalere su ogni diritto dei cittadini costituzionalmente garantito”.
Il referendum di ottobre diventa allora la madre di tutte le battaglie in questo momento storico. Difendere gli spazi di civiltà, di democrazia e di garanzia di cui la Costituzione si dovrebbe fare garante diventa un imperativo categorico. Perduta questa battaglia tutto diventerà più difficile e lo smantellamento definitivo dei diritti fondamentali di conquista democratica diventerà la naturale conseguenza politica.
Dobbiamo averne la piena consapevolezza. Proponiamo qui un percorso di conoscenza delle modifiche proposte dalla controriforma Renzi-Boschi.
Nei numeri a seguire approfondiremo attraverso una serie di “pillole costituzionali”.
*Luca Benci, giurista esperto di diritto sanitario e biodiritto
Luca Benci
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Articolo, serio e competente. Ciò che manca, forse qui ed altrove ogni volta che ci sofferma sulla “riforma” costituzionale, è il non sufficiente rilievo per il ruolo decisivo dell’Europa in tutto questo, ovvero chiedersi chi è il vero burattinaio: non Boschi, Renzi, Letta, Monti e c. ma l’Europa stessa. Uscirne bisogna. Vediamo se dopo la mancata uscita da sinistra, la Grecia, se ne comincia ad uscire da destra, l’Inghilterra.