Dallo scorso 1 giugno è in corso una mobilitazione collettiva, indetta in primo luogo da detenuti condannati all’ergastolo ostativo, che interessa diverse carceri e cerca di coinvolgere anche detenuti non ergastolani e liberi cittadini, contro l’ostatività, illegittima, dell’ergastolo. Contro quella condanna che non lascia alcuno spazio di speranza per il condannato, quella pena che termina il 31/12/9999, come si trova scritto negli ordini di esecuzione emessi dalle Procure.
Dei 1619 ergastolani in carcere lo scorso ottobre, 1174 si vedono precluso l’accesso alle misure alternative alla detenzione, ed in particolare, alla liberazione condizionale, l’unico istituto che consente a chi abbia già scontato almeno 26 anni di pena detentiva di non morire in carcere: è “morte viva, è apparenza di vita. L’ergastolo ostativo è in sé “trattamento inumano e degradante” inflitto alla persona ristretta” (avv. Maria Brucale).
Tutto questo in applicazione del l’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, che individua certe categorie di reati (quindi in maniera del tutto indipendente dal detenuto, dal suo comportamento, dal suo percorso carcerario) per cui l’accesso ai benefici di legge è precluso, e può essere ripreso in considerazione unicamente se legato alla collaborazione con gli inquirenti. Quindi un aperto invito alla delazione da un lato, dall’altro la beffa estrema verso chi dopo vent’anni di galera, magari in regime di 41 bis, non ha più alcun contatto con un suo mondo di appartenenza probabilmente del tutto mutato, o ancora peggio per chi è stato condannato innocente (e ce ne sono, nella stagione del pentitismo a tutti i costi).
La mobilitazione si svolge con varie modalità, dalle battiture in carcere dalle 16 alle 16,30 al rifiuto del vitto dell’amministrazione, dalla raccolta firme alla fermata al rientro dai passeggi. Si può aderire firmando online la petizione:
https://www.change.org/p/ministro-della-giustizia-sciopero-collettivo-contro-l-ergastolo-ostativo
Naturalmente niente di tutto questo è apparso nell’informazione mainstream: di carcere si parla quando qualche governo pensa di vendere gli istituti “storici” situati nei centri urbani (San Vittore, Regina Coeli, Poggioreale), così da spostare le nuove carceri “fuori” dalla percezione delle città, chissà dove, ma lontano, alla periferia delle periferie, in modo da non disturbare la sacralità del ciclo produzione/consumo con abbozzi di pensiero, inutili, e soprattutto improduttivi.
Oppure con un quarto d’ora di ipocrita partecipazione quando l’ennesimo detenuto si impicca (Sollicciano solo qualche giorno fa), muore non curato abbandonato in cella, o vittima di violenza delle guardie o di altri detenuti.
Il carcere come grande rimosso del contemporaneo, l’abbiamo detto altre volte: il grande malinteso securitario, agitato ad arte da politici cialtroni e cinici, che vede nelle manette, nell’atto dell’incarcerazione il momento topico, l’unico che interessa. Non interessa certo chi è legato con quelle manette, la sua storia, né tantomeno quello che succede dopo, dietro le sbarre.
Ma anche il trionfo dell’individualismo così caro al pensiero e alle prassi neoliberiste: nessuna socialità, nessuna solidarietà, solo competizione e interesse personale. E chi non ce la fa in fondo se l’è cercata.
Una rimozione talmente potente, ed evidentemente un punto tuttora dolente almeno potenzialmente, che non solo non trovano alcuno spazio le posizioni più volte da noi espresse anche qui di contestazione del carcere quale massimo strumento di un complesso dispositivo repressivo agito dal potere di classe, ma anche parole provenienti da istituzioni pubbliche, pur autorevoli, passano sotto silenzio e soprattutto senza esito.
Sentenze della Corte europea, della Corte Costituzionale, della Cassazione, hanno più volte ribadito l’inammissibilità del “fine pena mai” senza possibilità di revisione, così come giuristi e costituzionalisti di fama, e perfino Papa Francesco, si sono espressi per una modifica del regime attuale. Ma niente si muove sul piano pratico, tutto tace nel mondo politico. Carcere? L’unica preoccupazione è quella di tenerne fuori i colleghi parlamentari.
Stesso destino sembra accomunare il “Rapporto sul regime detentivo speciale – indagine conoscitiva sul 41-bis” della” Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani” del Senato, di aprile 2016:
Un Rapporto che si conclude con 15 “raccomandazioni” che di fatto ripercorrono tutti i punti per cui il regime del 41 bis è stato ed è contestato da più parti (ricordiamo la campagna “Pagine contro la tortura”).
La Commissione raccomanda una “più accurata istruttoria da parte degli uffici competenti in merito al rinnovo dell’applicazione del regime speciale”, “standard minimi di abitabilità delle celle”, “videosorveglianza applicata solo in casi particolari”, “rivedere le limitazioni al possesso di oggetti nelle camere detentive, riservandole esclusivamente a ciò che ha una incidenza effettiva sulle possibilità di comunicazione con l’esterno”.
Raccomanda di “rimuovere le proibizioni riguardanti la possibilità di avere a propria disposizione, in cella, tutti gli strumenti necessari alla lettura, allo studio e allo svolgimento di attività artistiche che possano essere svolte individualmente”, “facilitare lo svolgimento dei colloqui dei parenti dei detenuti”, “superare ingiustificate limitazioni ai colloqui telefonici con i familiari”, “garantire la possibilità di prendere parte alle udienze dei processi cui partecipano nelle vesti di imputati”.
Raccomandazioni che, se seguite da modifiche di legge o procedurali, svuoterebbero il regime di 41 bis da molti degli aspetti che lo rendono una pratica assimilabile alla tortura, ma probabilmente destinate a restare lettera morta, come dimostra anche il silenzio con cui un tale Rapporto è stato accolto.
E restano sempre vive le parole di Salvatore Ricciardi: “Facciano pure la loro battaglia i giuristi, gli avvocati (…) ma una legge potrà servire solo se si collocherà all’interno di una ripresa di iniziativa dei movimenti contro la repressione”.
*Maurizio De Zordo
Maurizio De Zordo
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Sono contrario al carcere che considero uno strumento repressivo non volto al recupero ma all’eliminazione. Figuriamoci dunque l’ergastolo. Misure alternative ce ne sono infinite, la principale è una società equa e solidale. E’ l’obbiettivo e non è scontato che chi opera in suo favore in carcere non debba finire. Anzi.