Si sono susseguite in questi giorni notizie contraddittorie sulla possibilità o meno che si dovesse rinunciare, ufficialmente per mancanza di fondi, alla mostra di maggiore impegno e più vasta attrattiva in mezzo alla strabordante offerta delle iniziative, talune non prive di vuota retorica, previste per celebrare il cinquantesimo dell’alluvione di Firenze. Intitolata “Firenze 1966-2016. La bellezza salvata”, la mostra avrebbe dovuto aprirsi a fine mese di ottobre; ora sembra che comunque si farà, si dice a fine novembre, non essendoci oggettivamente i tempi tecnici per il prossimo 4 novembre. A debita distanza, quindi, dai giorni deputati alle esaltazioni epiche. Meglio così, tutto sommato, perché sul patrimonio artistico e l’alluvione la vera storia da scrivere ha ben poco di epico.
La vera storia racconta che intorno alle opere d’arte vittime dell’alluvione, una volta spentisi i riflettori e volati via gli angeli del fango, sono rimaste delle persone (non tante quanto quelle dei primi giorni, ma comunque tante, come vedremo) che hanno portato avanti il grosso del lavoro per anni e per decenni, aggiungendo il tempo e la fatica richieste da questa immane mole di opere affogate nel fango, a quelli richiesti dai normali impegni quotidiani. Funzionari e impiegati dell’Ufficio e del laboratorio di restauro dell’allora Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici, dei laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure e della Fortezza da Basso, dell’Ufficio Territorio, dei musei. Insomma gran parte di quegli statali fannulloni e ammuffiti di cui ha fatto piazza pulita la ventata rinfrescante del governo Renzi attraverso la riforma Franceschini.
Per dare un’idea della situazione reale con un piccolissimo esempio tratto dalla mia esperienza diretta, quando sono entrata nell’organico della Soprintendenza, nel 1980, gran parte della gipsoteca di Lorenzo Bartolini era ancora alluvionata, sparsa in diversi depositi, fra cui quello detto “degli occhi” all’ultimo piano di Palazzo Pitti dove giaceva una ventina di cassette da frutta piene di frammenti (teste, dita, orecchie) da ricomporre. Aggiungo ancora che tante opere provenienti dalle chiese del territorio, anche delle province di Prato e Pistoia, erano state alluvionate in quanto si trovavano nei depositi in attesa di restauro.
La vera storia racconta anche che le opere alluvionate non sono state ancora tutte restaurate e che chi volesse toccare con mano il fango dell’alluvione può ancora farlo su qualche centinaio di oggetti. Perché finiti i tempi eroici sono finiti anche i soldi e solo sporadicamente, negli anni che si andavano allontanando da quel cruciale 1966, è stato possibile avere finanziamenti finalizzati al restauro delle opere alluvionate, per salvare le quali era necessario ritagliare risorse nelle pieghe dei finanziamenti ordinari o andarsele a procurare grazie alla disponibilità di sponsor illuminati e al sacrificio di comunità parrocchiali che, stanche di attendere il ritorno dei loro beni, riuscivano a raccogliere i fondi necessari. Ricordo che anche tante piccole ditte di restauro riuscivano a trovare di loro propria iniziativa i finanziamenti per fare o per completare un lavoro: erano l’eccellenza del nostro restauro, di cui si parlava in tutto il mondo, ma a fronte dell’indifferenza dello Stato il lavoro dovevano talvolta procurarselo da sé.
Se non fosse stato per tutte queste persone, di cui difficilmente si vedranno foto e filmati, il grosso delle opere da restaurare giacerebbe ancora nei depositi. Ma pochi sanno (e la mostra, se verrà fatta, lo racconterà) che prima di affrontare i restauri e poi affiancandosi al loro procedere, è stato necessario un complicatissimo lavoro di inventariazione, perché di molti dei pezzi alluvionati non si conosceva neppure la provenienza, essendo andati perduti nell’acqua la gran parte dei cartellini identificativi.
Ebbene, la separazione creata dalla legge Franceschini fra musei e territorio, e nello specifico il passaggio dell’Ufficio Restauri dell’ex Polo Museale Fiorentino all’esclusivo uso delle Gallerie degli Uffizi, significa anche questo: interrompere la creazione di un archivio comune degli interventi di restauro su tutti i beni culturali di Firenze e territorio, lavoro da tale Ufficio portato avanti per 35 lunghi e faticosi anni con risultati fondamentali per la storia del restauro e per la conoscenza del nostro patrimonio.
Ora ci attendiamo che con una mostra, per quanto in ritardo, a tutto il mondo sia data l’opportunità di conoscere la tenace musica di sottofondo, oltre che gli acuti dei cantanti solisti alle celebrazioni del 4 novembre.
*Franca Falletti
Franca Falletti
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