Il legame tra Firenze e la moda sembra talmente ovvio da risultare stucchevole. «Firenze è la città della moda» è una frase così abusata che di per sé non ci dice più nulla. Ci passa davanti senza toccarci, come i manifesti giganti dei modelli vestiti da cretini che campeggiano nelle grandi vie del capoluogo. Al limite il legame ci colpisce per gli effetti che ha sul centro storico, come la diffusione infestante di negozi monomarca dei marchi del lusso (flagship stores), o per il traffico intorno alla Fortezza da Basso che – già intenso – si blocca regolarmente in occasione delle esposizioni di Pitti.
Sappiamo tutti che il settore della moda è una realtà economica trainata dall’export con giri di affari di miliardi di euro, che vedono proprio in Firenze un punto di riferimento per la fase della commercializzazione dei prodotti. Da Firenze si vende in tutto il mondo ma si produce anche in tutto il mondo: buona parte del settore ha ormai esternalizzato le sue filiere produttive ai quattro angoli del pianeta, in Vietnam, Bangladesh, India o Est Europa, giusto per citare alcuni dei maggiori poli di tessitura, cucitura e confezionamento dei capi progettati in Italia.
Firenze ha perso ormai gran parte del suo sistema produttivo, quello che permetteva a Pavolini di definirla nel 1929 la «città più artigiana d’Italia» (espressione che dà il titolo a una bella ricostruzione storica di Anna Pellegrino ), ma ha conservato la sede di alcuni grandi marchi. Non è un caso che proprio la Filctem Cgil di Firenze abbia promosso circa un anno fa un appello per chiedere alle aziende della moda di rendere pubbliche e trasparenti le proprie catene di fornitura, che invece rimangono la parte più oscura e segreta delle attività aziendali.
Spesso infatti ci scordiamo che dietro al luccichio della moda si può nascondere anche un pesante sfruttamento dei lavoratori, in paesi dove sono negati con la violenza i più elementari diritti: ce lo ricordano le tragedie, come quella del 24 aprile 2013 quando a Savar, in Bangladesh, un edificio di otto piani, il Rana Plaza, collassò su se stesso provocando la morte di 1.129 persone, operai e operaie di fabbriche tessili che producevano vestiti delle grandi ditte mondiali, tra cui l’italiana Benetton. Queste persone erano state obbligate dai padroni a rimanere in fabbrica anche quando era evidente il crollo imminente.
Non tutto il lavoro manuale però è scomparso dall’Italia; anzi, proprio la Toscana rimane un polo di produzione di estrema importanza, uno dei maggiori bacini italiani per numero di addetti del settore moda. La più importante filiera produttiva è quella della pelle, ingrediente chiave nella fabbricazione dei capi di abbigliamento e degli accessori dell’alta moda. Proprio sulle condizioni di lavoro nel distretto conciario di Santa Croce, da dove esce il 70% di tutto il cuoio per suole prodotto in Europa, si è concentrato uno studio coordinato da Francuccio Gesualdi del Centro Nuovo Modello di Sviluppo.
Ne emerge una situazione preoccupante, di grande sofferenza per i lavoratori in particolare nelle fasce basse della scala occupazionale: gli addetti alle lavorazioni più faticose e sporche, per la gran parte senegalesi ma anche italiani, denunciano il ruolo delle agenzie interinali, mediatori che lucrano sulle difficoltà economiche peggiorando le condizioni dei lavoratori. In un contesto di smantellamento dei diritti del lavoro si fanno largo losche figure di intermediari: dinamiche che sono già tristemente note nelle filiere dell’agroalimentare.
Francuccio Gesualdi sarà a Firenze il prossimo sabato 28 gennaio, in un’iniziativa promossa dalla Lista Sì Toscana a Sinistra e dedicata alle nuove schiavitù del lavoro, in cui interverranno rappresentanti della Campagna Abiti Puliti, dell’Osservatorio Placido Rizzotto, della UIL TEC, oltre a giornalisti, politici e docenti. Può essere un’occasione per restituire un diverso significato – stavolta informato e critico – al legame tra Firenze e la moda. Il programma completo a questo link
*Stefano Gallo
Stefano Gallo
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