Da Auschwitz a Srebrenica passando per le foibe: i rischi di una Memoria senza Storia

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Passare il cancello di Auschwitz, luogo cardine della Shoah, visitare la risiera di San Sabba a Trieste, unico campo di sterminio italiano, risalire il memoriale di Potočari che ricorda le vittime del genocidio di Srebrenica provoca indubbiamente un impatto emotivo molto forte ai ragazzi e alle ragazze in visita di studio, ed è per questo necessario affiancare ad esso un ragionamento storico, razionale, basato sui fatti realmente accaduti e non su ricostruzioni non aderenti alla realtà. Ogni nostro impegno pedagogico è segnato da letture di libri accreditati, visioni di film o spettacoli teatrali, incontri con i testimoni quando possibile”. Con questo avvertimento inizia la nostra chiacchierata con Gianluca Paciucci, insegnante al Liceo Galilei di Trieste e attivo nell’organizzazione dei Viaggi della memoria lungo il Confine orientale e la ex Jugoslavia grazie alla sua collaborazione con la Tenda della Pace di Staranzano – comune a pochi chilometri da Trieste – un’organizzazione che ha come missione quella di promuovere la memoria e vincere le discriminazioni con progetti sostenuti anche dalla Regione Friuli Venezia Giulia. Nei giorni in cui 561 studenti toscani sono ad Auschwitz con il Treno della memoria organizzato dalla Regione Toscana, l’opinione di un insegnante che tutti i giorni si confronta con i giovani ci pare interessante per il ruolo didattico-pedagogico che tali argomenti rivestono all’interno della scuola italiana.

Un cimitero musulmano a Sarajevo

Dobbiamo affrontare Memoria e Storia insieme – continua Paciucci – cercando sempre di superare il predominio ormai acclarato della prima sulla seconda. Il rischio è che un accumulo di emotività, privo di una ricerca sugli avvenimenti storici, possa essere addirittura deleterio perché non permette di distinguere le cose, di affrontare con lucidità ciò che è stato. I ragazzi riescono a comprenderlo grazie soprattutto al viaggio, occasione ideale per parlare, ragionare, fugare dubbi. È così quando visitiamo i luoghi della Memoria e incontriamo le persone che ci vivono (e magari ci mangiamo insieme) siamo tutti pronti a superare quel nodo che almeno in Bosnia non è stato ancora superato. Gli studenti che abbiamo portato in viaggio, ad oggi circa 400, sono molto attenti a questo passaggio, andare oltre la memoria per vedere come il passato ben compreso, affrontato a viso aperto, possa senza paura essere utile al presente e al futuro. E in Bosnia-Erzegovina, come del resto a Trieste e, purtroppo, anche nel resto del Paese, è ancora difficile fare i conti con la Storia, quella con la esse maiuscola”.

Il genocidio di Srebrenica e le donne dei “Frutti di pace”

Paciucci conosce bene i Balcani. Ha lavorato per anni presso l’Ambasciata italiana di Sarajevo occupandosi di affari culturali. Rientrato nel 2006 ha continuato ad intrattenere rapporti con chi vive oltre l’Adriatico perché pensa sia “uno dei nodi cruciali dell’Europa di oggi e di quella che verrà. Non averlo capito negli anni Ottanta e Novanta ha contribuito a causare il disastro jugoslavo di fine secolo. Viaggiare in Bosnia-Erzegovina con gli studenti delle superiori e universitari, in particolare in luoghi come Mostar, Tuzla, Sarajevo e Srebrenica, scenari di alcune delle storie di guerra più drammatiche di quegli anni, non è quella macabra forma di turismo di guerra che spesso va a pescare nel torbido” ci dice il professore. “Il viaggio che proponiamo viene costruito sull’incontro con le realtà sociali, culturali, politiche che, soprattutto nella società civile, si sono battute contro la guerra e contro i rispettivi nazionalismi. E quindi anche, ad esempio, con donne serbe o musulmane che hanno combattuto contro i rispettivi nazionalismi. Gruppi che nel lungo dopoguerra, dal 1995, hanno provato a ricucire il tessuto sociale di un Paese dilaniato”.

Bosnia Erzegovina – Bratunac. Le donne della Cooperativa Insieme

È qui che si esplicita il senso del viaggio della Memoria: “Una memoria che non chiude in armadi polverosi le vicende passate esaltandole oppure denigrandole, ma che tenta di usarle per modificare i rapporti di forza del presente. Faccio l’esempio della Cooperativa Insieme nata nella zona di Bratunac e Srebrenica che dà lavoro ad oltre 500 famiglie nel settore delle confetture e dei succhi di frutta. Da sempre vi lavorano – insieme per l’appunto – donne bosniache e serbe, proprio in quel territorio che ha visto compiersi una delle tragedie assolute di quella guerra. Un vero e proprio esempio di “pacifismo in pratica”, come diceva il compianto Alexander Langer, e quindi un pacifismo che tenta di superare gli odi nazionalisti con la consuetudine quotidiana di attività molto concrete. È significativo che siano proprio le donne ad essere il motore di un’attività che riesce a dare anche da vivere a molte persone: i prodotti della linea “Frutti di Pace” sono infatti disponibili anche nel catalogo di Coop-Italia. E per i ragazzi che toccano con mano queste esperienze virtuose, e ne assaporano i frutti, l’impatto culturale è immenso”.

Le guerre jugoslave sono un nodo irrisolto di un’Europa troppo concentrata su dinamiche interne e priva di una politica condivisa, incapace di fare i conti con una realtà continuamente in movimento come quella dei Balcani. Altro nodo irrisolto per Gianluca Paciucci è quello del nostro Confine orientale e di quella parte di storia del Novecento che ha visto Trieste diventare una delle città chiave della cosiddetta Cortina di ferro, protagonista involontaria degli anni più cruenti della Guerra fredda. “Con i ragazzi parliamo spesso di come i bosniaci non si raccontano la Storia, o meglio di come si raccontano troppe storie attorno alla loro guerra… ma anche in Italia, e a Trieste in particolare, c’è un pessimo rapporto con il passato”.

La storia misconosciuta di Trieste

“Per buona parte dei triestini la storia inizia infatti il primo maggio 1945 quando i nazifascisti sono costretti a lasciare il controllo della città alle truppe jugoslave di Tito. E i fatti di quei giorni ci portano direttamente al nodo rappresentato dal Giorno del Ricordo”. Per Paciucci è necessario parlare a viso aperto di questa ricorrenza istituita con legge dello Stato nel 2004, celebrata il 10 febbraio per ricordare le “vittime delle foibe” e la “più complessa vicenda del Confine orientale” .

L’incendio del Narodni dom

La Storia a Trieste inizia ben prima del 1945” afferma il professore, “nei decenni precedenti c’era stata in queste zone una forte e terribile propaganda antislava: basti ricordare come a Trieste nel 1920 venne dato alle fiamme il Narodni dom, la Casa della cultura slovena. I fascisti non sono ancora al potere, la Marcia su Roma è del 1922, ma già bruciano il luogo simbolico degli slavi in città. Si tratta del primo atto squadrista compiuto in Italia e dal forte impatto emotivo. Salito al potere il fascismo conduce per venti anni una lotta spietata nei confronti del mondo slavo, sloveno in particolare, a Trieste autoctono da sempre”.

Va ricordato come Trieste, villaggio preromano, sia stata dal 1382 e per molti secoli soggetta all’Austria. Dal Settecento fu dominata dagli Asburgo che la trasformarono nel ricco porto commerciale dell’Impero. Trieste diventa italiana solo nel 1918 con la fine della Grande Guerra. Per secoli l’attuale capoluogo giuliano è stato quindi laboratorio laico di convivenza, una città dove vivevano commerciando pacificamente popolazioni diverse – tedeschi, francesi, greci, armeni, slavi, ebrei – e in cui i documenti della pubblica amministrazione venivano redatti nelle diverse lingue. “L’avvento del fascismo porta in città una violenza e una rozzezza lampante, in particolare contro gli sloveni che non potevano più parlare e scrivere la loro lingua a scuola e con il cosiddetto “onomasticidio” che cambiava i cognomi slavi in italiani”, racconta Paciucci. “In quegli anni i primi atti di resistenza slovena vengono pesantemente puniti e repressi e le prime foibe vengono utilizzate anche dagli stessi fascisti”.

Passano gli anni e un’altra data si affaccia in questa storia. “Il 6 aprile 1941, giorno in cui la Jugoslavia viene invasa dalle truppe naziste e italiane. Non sono anti-italiano – dice il professore – ma questo evento nel nostro Paese oggi nessuno lo ricorda; come non si ricorda che gli ufficiali italiani non sono stati condannati per crimini di guerra alla fine del Secondo conflitto mondiale, a partire da Mario Roatta, comandante dell’esercito nella provincia di Lubjana e protagonista della guerra contro la popolazione slovena. Appare ancora una volta evidente come vi sia un cattivo rapporto degli italiani con la Memoria”.

Definito il contesto torniamo però al 1 maggio 1945, giorno della liberazione di Trieste. “Ora è possibile comprendere come il dopoguerra debba essere analizzato leggendo anche quanto accaduto prima, non certo per giustificare l’orrore delle foibe, ci mancherebbe altro, ma per capirne il contesto culturale, politico e sociale”. Per Paciucci si mescolano quindi elementi di carattere politico – “basti pensare che persino il Partito comunista era spaccato tra chi voleva la città italiana e chi jugoslava” – con elementi di carattere nazionalistico italiano, sloveno e finanche croato.

“La legge istitutiva del Giorno del Ricordo dovrebbe rappresentare una grande opportunità per consentire a tutti noi un lavoro di maggiore approfondimento che, seppur presente a livello scientifico, non si è trasformato in opinione comune. Resta così in superficie la retorica della barbarie slava che uccide i puri, gli onesti e innocenti italiani. Una lettura del tutto scorretta dal punto di vista storico ma l’unica presente nel dibattito pubblico nazionale”. Sulle vicende del Confine orientale c’è anche chi, nel passato ha però lavorato seriamente: “Andrebbe recuperato il Rapporto della commissione storico-culturale italo-slovena, un documento ufficiale redatto da storici italiani e sloveni di grande equilibrio e spessore su questi aspetti della memoria e sulla storia delle foibe. Un testo onesto, forse troppo, ed è per questo che è stato messo nel dimenticatoio e non diventa strumento di opinione condivisa”.

Basovizza, lo stendardo della Xª Flottiglia MAS (Repubblica Sociale Italiana)

Chi si recasse il 10 febbraio a Basovizza, sul carso triestino, Monumento nazionale alle foibe, troverebbe senza problemi drappi fascisti e nazisti. “Una vicenda storica fatta propria da quei soggetti politici che a Trieste hanno compiuto crimini spaventosi proprio nella città della Risiera di San Saba, unico campo di concentramento e di sterminio su suolo italiano. Si tratta quindi di avvenimenti che andrebbero raccontati tutti insieme, e, ribadisco, affrontati con la ragione e non più con l’emotività dell’immediato dopoguerra. Oggi ce lo possiamo permettere”.

Dagli esodi istriani ai barconi nel Mediterraneo

Ineludibile a questo punto un ragionamento che attualizzi gli esodi istriani, fiumani e dalmati protagonisti del Giorno del Ricordo, ma anche di quelli forzati degli ebrei, del popolo rom, dei tanti “politici” avviati verso i campi di sterminio della Seconda guerra mondiale ricordati dal Giorno della Memoria. Come non affrontare con chi ha il primario compito di educare le giovani generazioni, anche il tema delle migrazioni dai Paesi in guerra in Africa e in Medio Oriente, dei barconi carichi di chi fugge dalla Libia, dalla Siria, dal Corno d’Africa e che tutti i giorni è protagonista dei notiziari della nostra “vecchia” Europa? “La storia dell’umanità è una storia di migrazioni, dall’inizio dei tempi fino ai nostri giorni”, mette nero su bianco il professor Paciucci. “Dire che siamo tutte e tutti migranti non è un banale slogan ma una semplice e pura verità. Un disordine globale che – attenzione! – non è però causato dai migranti che sono invece semplici vittime. Vittime di uno sfruttamento radicale e scientifico attuato dai Paesi più ricchi”.

Si tratta di un fenomeno inarrestabile: nessun muro può fermare gli esodi epocali che però, statistiche alla mano, non coinvolgono che marginalmente i Paesi europei. “Ricordo che il Libano, grande poco più dell’Abruzzo, ospita un milione e quattrocentomila rifugiati siriani. Tendono a vivere nelle zone vicine al loro Paese perché vorrebbero tornare presto in ciò che resta delle loro case. Solo pochi di loro si imbarcano a rischio della vita e arrivano in Europa. E a noi tutto questo sembra un’invasione. Dobbiamo quindi riflettere sulla sofferenza delle persone, sul fatto che molti muoiono nel percorso verso la salvezza, che non vengono accolti in alberghi a 5 stelle ma che perdono la vita nei roghi dei rifugi di fortuna in cui si arrangiano nelle nostre periferie, come è successo recentemente anche in Toscana a Sesto Fiorentino”.

“Credo quindi che si debba ripartire da un concetto di solidarietà umana forte e profonda”, dice il professore. “Anche l’Europa contemporanea ha posto le sue radici fondative nei valori di umanità e di riconoscimento dell’altro.

Resistenze

Come opporsi allora alla deriva culturale, sociale, e non ultima politica, che ci vede ormai convinti protagonisti nella definizione del migrante come nemico, vero e proprio capro espiatorio di una situazione che lo dovrebbe invece descrivere come semplice vittima? “Ci soccorre Hanna Harendt con il suo grandioso testo “Le origini del totalitarismo” in cui, è bene ricordarlo, ci parla del nazismo, del fascismo, dello stalinismo, ma anche del colonialismo europeo. Utilizzando il pensiero della Harendt l’attuale sistema liberista può quindi essere interpretato come una forma potenzialmente totalitaristica. Assistiamo inoltre ad una propaganda carica d’odio che contrasta con successo le tante voci belle, attive sul territorio, che lavorano quotidianamente sul campo e che sono per forza di cose più flebili, a partire dalle tante associazioni di volontariato, laiche e confessionali, che tutti i giorni si rimboccano le mani per accogliere l’altro”. Per Gianluca Paciucci è così che viene meno la tenuta democratica e trionfa quella demagogia razzista che ha, appunto, dei tratti totalitaristici.

Cedric Herrou davanti al Tribunale di Nizza / AFP Valery Hache

Spesso si accusano i profughi di “non fare resistenza” nei propri Paesi, accettando lo status quo politico e sociale. Un tema così cruciale andrebbe maggiormente dibattuto. “Vorrei prima citare la storia di Cédric Herrou, il contadino francese che a pochi chilometri da Ventimiglia offre aiuto e protezione ai migranti che tentano di attraversare il confine e che per questo è finito sotto processo”, dice il professore triestino. “Oppure quella di Pierre-Alain Mannoni accusato di aver favorito l’ingresso e la circolazione illegale nel territorio francese di persone sprovviste del permesso di soggiorno e assolto per ragioni umanitarie”. Si tratta di due persone comuni che fanno resistenza a leggi ingiuste, scritte contro ogni principio di umanità. La loro è una storia esemplare perché dimostra che anche noi europei, se vogliamo, possiamo essere protagonisti positivi in questa vicenda. Entrambi hanno “disobbedito” come tanti loro concittadini fecero durante la Seconda guerra mondiale salvando molti perseguitati, tra cui anche un protagonista della Resistenza italiana, Sandro Pertini, poi divenuto il Presidente della Repubblica”.

Torniamo però all’accusa fatta ai migranti di non ribellarsi nei loro Paesi. Paciucci afferma che abbiamo l’abitudine di celebrare le vittime ma non i ribelli. “Se si leggono però le Memorie del ghetto di Varsavia di Marek Edelman, un libro che consiglio sempre di leggere ai miei studenti, ci troviamo di fronte ad uno straordinario atto di coraggio interpretato da un pugno di militanti sionisti e della sinistra socialista e comunista. Prima di cadere sotto la mannaia nazista i protagonisti decidono di riprendere in mano il destino della loro vita. Il messaggio è chiaro: “Noi non siamo solo vittime siamo anche coloro che si ribellano”. Per me le memorie dell’insurrezione del ghetto di Varsavia dovrebbero essere lette insieme alle memorie dei reduci dai lager, a “Se questo è un uomo” e ai “Sommersi e salvati” di Primo Levi, a “Intellettuale ad Auschwitz” di Jean Améry, testi straordinari. Edelman fu ribelle tutta la vita, prima contro i nazisti, e poi, pur da posizioni socialiste, contro il regime stalinista polacco, partecipando anche al movimento di Solidarnosc. Una vita di ribellione sana, pulita, straordinaria, contro qualsiasi tipo di oppressione. Questa trasformazione della vittima in ribelle è interessantissima”.

“Noi che viviamo “nelle nostre tiepide case”, per dirla con Primo Levi, non possiamo permetterci di accusare chi non si ribella. È sempre necessario tenere conto delle situazioni storiche. Come nel 1943 nel ghetto di Varsavia, anche oggi in Siria, chi ha provato a ribellarsi contro il governo di Assad – a ragione dice Paciucci – è stato subito travolto da un’ondata di ferocia nazionalista e di fondamentalismo islamista. La popolazione civile cosa avrebbe dovuto fare se non andar via, fuggire? E oggi quegli stessi occhi di bambini, donne e uomini che hanno visto e vissuto la tragedia della guerra ci interrogano nelle nostre città. Saremo mai in grado di sentirci coinvolti e rispondere al loro grido di aiuto?”

*Cristiano Lucchi

Articolo pubblicato su Toscana Notizie in occasione del Treno della Memoria 2017

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Cristiano Lucchi, giornalista e mediattivista, dirige Fuori Binario, giornale dei senza fissa dimora fiorentini. Ha fondato e diretto l’Altracittà – giornale della Comunità delle Piagge. Ha pubblicato “Autopsia della politica italiana” (2011), “L’imbroglio energetico” (2012), “Il Laboratorio per la Democrazia. La politica dal basso” (2012). È un attivista di perUnaltracittà.

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