Migrazioni: voci di bilancio e costi umani

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Le migrazioni sono frutto di uno squilibrio economico generato da una storia di conquista di cui raramente si parla, residuo di un’economia del saccheggio cominciata alla fine del XV secolo. Nel tempo, la società capitalistica occidentale, nonostante l’apparente decolonizzazione, è stata in grado non solo di mantenere il monopolio politico economico nei Paesi di provenienza dei flussi migratori, ma di rendere i migranti fondamentali alla propria macchina produttiva, sia in termini di produzione diretta di merci sia in termini di produzione indiretta di servizi.

Questo squilibrio economico si è generato dalla “conquista” delle Americhe. Come scrive Ernest Mandel nel suo Trattato di Economia Marxista, «nel periodo 1500-1750, Spagna, Olanda, Francia, Impero Britannico, fra oro e argento trasferito, nascita d’imprese commerciali, fra cui anche il commercio degli schiavi e il loro lavoro, hanno ottenuto più di un miliardo di sterline d’oro inglesi, cioè più del valore totale del capitale investito in Europa fino al 1800».

Lo stesso Marx afferma che «la scoperta dei paesi dell’oro e dell’argento in America, lo sterminio, la tratta in schiavitù e il seppellimento della popolazione indigena nelle miniere, l’inizio della conquista e del saccheggio dell’India orientale, la trasformazione dell’Africa in terreno di caccia commerciale delle pelli nere: ecco ciò che caratterizza l’aurora dell’epoca della produzione capitalistica. Questi processi idilliaci sono le tappe principali dell’accumulazione capitalistica ».

Il saccheggio continua ancora oggi, in parte demandato al capitale privato delle grandi multinazionali, in parte messo in atto attraverso lo strumento – legale per definizione – dei “trattati” bilaterali o fra organismi sovranazionali. Ovviamente queste politiche di spartizione restano in ombra: l’ombra di un conflitto bellico di cui si conosce solo una descrizione sommaria, caricaturale, spesso menzognera della realtà. Gli effetti però sono ben visibili e si traducono in perdite di vite umane e trasformazioni sociali.

Un budget in aumento

Rifugiati e migranti economici sono il prodotto di scarto del benessere delle società occidentali, costretti ad abbandonare Paesi dove imperversano conflitti di cui spesso non sanno neanche registrarne le origini, costretti a rischiare la vita in viaggi di morte e ad accettare tutto ciò che viene offerto loro. Soli, ricattabili, senza diritti. E per questo utilissimi, nel lavoro nero, illegale, gestito dalle mafie e da imprenditori senza scrupoli. Ma anche l’inconsapevole volano di una nuova economia, quella paternalistica dell’accoglienza.

Sia chiaro, non si vuole mettere in discussione il diritto di richiedere protezione internazionale, e neanche quello di potersi muovere liberamente. Qui si prova a riflettere su chi e come gestisce questo denaro, proprio affinché tale diritto venga garantito.

Partiamo dal denaro. Di che cifre parliamo? Come si legge nel Rapporto del Viminale, nel 2014 sono stati spesi 139 milioni di euro per i centri governativi di accoglienza, 277 milioni per le strutture temporanee, 197 milioni per i centri Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), per un totale di 603 milioni. Per il 2015 il Viminale fissava «in 918,5 milioni le spese relative alle strutture governative e temporanee e in 242,5 milioni le spese relative ai centri Sprar, per un totale quindi di 1.162 milioni». Nel 2016, con 186 mila arrivi, la spesa si è attestata intorno ai 3,3 miliardi di euro. Nei primi due mesi e mezzo del 2017, si sono registrati il 36% in più di sbarchi rispetto allo scorso anno, ossia 16.206 persone, che si traducono in una necessità crescente di risorse economiche.

Il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, nella sua comunicazione ai commissari UE, scrive che le spese per le operazioni di salvataggio dei migranti, prima assistenza e cure sanitarie, centri di accoglienza, protezione ed educazione per oltre 20mila minori non accompagnati sono stimate in 3,8 miliardi per il 2017. Se il flusso di arrivi dovesse crescere, si potrebbe arrivare a 4,2 miliardi di euro.

Gli stati cuscinetto

Gran parte di questi soldi, in assenza di corridoi umanitari viene speso nel soccorso emergenziale in mare: ben 881 milioni nel 2016 in operazioni di soccorso e trasporto dei migranti. Andare “a caso” nel Mediterraneo meridionale con mezzi navali e aerei costa, e spesso è anche poco efficace. Ma c’è un’altra voce importante: i costi degli accordi con Paesi Terzi. Paesi chiamati a fare da cuscinetto ai flussi migratori verso l’Europa con ogni mezzo, lecito o illecito che sia: un lavoro sporco che questi governi, spesso assai poco democratici, si intestano in cambio di denaro.

Si tratta di accordi stipulati dall’Unione Europea cui ciascuno Stato Membro deve farsi corrispondere una quota: ad esempio, nel 2016 l’Italia ha dato alla Turchia 66 milioni di euro, che nel 2017 saranno 100; oppure di accordi bilaterali come quello con la Libia del Primo Ministro Fayez Al Serraj, che a metà marzo ha consegnato a Gentiloni la lista di ciò che serve per rendere operativo l’accordo siglato il 2 febbraio con l’appoggio di tutti gli altri Stati Membri: forniture di navi, elicotteri, fuoristrada, macchine, ambulanze, sale operative, apparecchiature elettroniche, decine di chilometri di reti e fili spinati, per circa 800 milioni. Alcuni di questi materiali, ad esempio elicotteri e sistemi radar, richiedono il visto ONU per via dell’embargo. Per alleggerire la pressione sulla Libia, si prevede di stipulare accordi con l’intero nord Africa ed alcuni Paesi Subsahariani, mentre altri campi di “accoglienza” nasceranno in Tunisia e Algeria.

Resta oscuro l’accordo con il Sudan, il cui presidente, Omar Hassan Al Bashir, è ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio in relazione alle stragi nella regione del Darfur, ma a cui proprio gli Stati Europei potrebbero rimandare indietro i darfuriani: come dare una gazzella in pasto ad un leone comodamente seduto. Accordi che significano denaro, produzione di merci e materiali, armi comprese.

Il terzo settore

Veniamo alla spesa interna, quella per l’accoglienza. Lo Stato ha in qualche modo abdicato alla sua funzione essenziale di fare da garante dei diritti fondamentali demandando a un’area di soggetti privati, di associazioni no-profit, ONLUS, cooperative sociali, organizzazioni non governative, la funzione di protezione e accoglienza. Lo ha fatto – e lo sta facendo – in maniera così netta che nel nuovo decreto del Ministro dell’Interno Minniti, appena passato alla Camera dei Deputati, agli “operatori sociali” viene dato il ruolo di pubblici ufficiali.

Questa miriade di soggetti privati viene chiamata “terzo settore”. Si tratta di circa 300mila organizzazioni in Italia, con 64 miliardi di entrate e circa 6 milioni di persone coinvolte (Istat 2011). Nato per essere una terza via tra pubblico e privato con l’ambizione di cercare risposte a nuovi bisogni sociali, il terzo settore ha acquisito un rilievo crescente in seguito al progressivo smantellamento dello stato sociale: col passare del tempo ha assunto il compito di fornire quei servizi che il settore pubblico non poteva (o non voleva) più offrire, ma che preferiva finanziare e delegare a soggetti terzi. Insomma, il terzo settore è diventato una specie di ossimoro socio-economico.

Ma torniamo al denaro. Per accogliere, servono in primis strutture fisiche, centri di accoglienza, alberghi, appartamenti, camping, ostelli. Per queste strutture nel 2015 è stato speso circa 1 miliardo di euro, nel 2016 si è speso il 60% in più.

Poi ci sono i costi della cosiddetta “integrazione sociale”, come ad esempio i 250 milioni di spese sanitarie e 90 milioni in stipendi del personale. Tuttavia, come scrive la Banca d’Italia nella sua ultima relazione annuale, le spese maggiori sono dovute ai «lunghi tempi di permanenza nelle strutture di accoglienza per l’adempimento delle procedure di riconoscimento dello status di rifugiato», che è di competenza del Ministero dell’Interno attraverso le Commissioni Territoriali.

Nel suo Rapporto sull’Accoglienza dei Migranti il Ministero dell’Interno dichiara che «i costi della gestione ordinaria dell’accoglienza si attestano nel rango di 35-40 euro per gli adulti e 45 euro per i minori accolti dai comuni». Questi importi giornalieri a persona non finiscono in tasca ai migranti, ma vengono invece dati agli enti gestori dei centri e servono a coprire le spese di gestione, mensa, pulizie, corsi d’italiano e a pagare lo stipendio degli operatori. Solo 2,5 euro – il cosiddetto “pocket money” – vengono dati ai rifugiati per le piccole spese giornaliere.

Un paesaggio opaco e frammentato

Nel 90% dei casi questi enti privati sono cooperative sociali raggruppate ormai in grandi consorzi territoriali, a loro volta appartenenti a consorzi nazionali. Ognuno di questi ha referenti politici precisi in grado di fare lobbying. Anche qui il legame spesso opaco con la politica è forte, ed il caso romano di “Mafia Capitale” non è il solo fare scuola.

Il primo risultato di queste “pressioni” fu la legge 381/1991 che trasformava il settore da una gestione di tipo artigianale volontaristico a un funzionamento imprenditoriale. Apriva, di fatto, un nuovo settore imprenditoriale a queste entità – solo teoricamente no-profit – con un legame “collaborativo” con la pubblica amministrazione, la quale nel tempo delegava e appaltava sempre più pezzi di sua competenza, perdendo le esperienze accumulate negli anni e anche la capacità di controllo e verifica.

Il caso dell’immigrazione è eclatante, essendo il fenomeno esploso in un periodo in cui la cessione di sovranità delle amministrazioni pubbliche al terzo settore era già in una fase avanzatissima. Oggi le amministrazioni pubbliche non hanno alcuna cultura del fenomeno, né addetti specializzati tra i loro ranghi, quindi una scarsissima capacità di controllo, verifica e monitoraggio qualitativo del lavoro degli enti gestori. Le competenze sono frammentate e ambigue, così quando le cose vanno male pubblico e privato si scaricano le responsabilità a vicenda. La verifica e il controllo sono un tema caldo, perché possono determinare l’emersione di reati anche penali da parte degli enti gestori. E qui siamo sostanzialmente di fronte a un vuoto del quale si è accorta anche l’Europa.

Nel caso dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), che assorbono nella fase iniziale il flusso di richiedenti asilo, le competenze sono delle Prefetture, quindi del Ministero dell’Interno. Ognuna ha però procedure diverse, ma una caratteristica comune ce l’hanno: i CAS sono impenetrabili, tanto che neanche i consiglieri regionali o comunali possono visitarli. In questo contesto, la cattiva gestione delle strutture può emergere solo quando gli stessi ospiti denunciano con coraggio le condizioni fatiscenti degli alloggi, la mancanza di strutture a norma, il cibo avariato, le mancanza delle più elementari dotazioni di sicurezza, il sovraffollamento.

Alcune proposte

Prima si citava l’Europa: mentre la discussione sullo scandalo Roma Capitale era assai calda, Milena Gabanelli in una puntata di Report “La via d’uscita”, lanciò l’idea di rompere “il sistema” della gestione dei migranti da parte della miriade di cooperative ed associazioni che si sostituiscono allo Stato per questo, ma anche per altri bisogni. La proposta era di farne una gestione pubblica. La domanda fu girata subito a Domenico Manzione, Sottosegretario all’immigrazione, che così rispose: «Può essere un’idea. Secondo me richiederebbe una quantità di risorse che allo stato attuale non siamo in grado, diciamo così, di mettere in campo. Potrebbe essere tranquillamente un progetto alternativo, quello in cui lo Stato si assume in proprio tutta la gestione dell’accoglienza e quindi ci mette strutture proprie, personale proprio…». Gabanelli proponeva di ristrutturare il patrimonio abitativo dismesso, beni confiscati alle mafie, caserme, ecc. Ipotizzava che l’accoglienza di circa 200 mila persone l’anno avesse bisogno di 400 luoghi con un costo approssimativo per la messa in abitabilità di circa 2 miliardi di euro. Forniva altre specifiche e idee, sulle quali si potrebbe discutere, a partire ovviamente da un tipo di accoglienza che non sarebbe stata più diffusa, ma non per questo per forza di scarsa qualità.

Ciò detto, ecco la reazione di Dimitris Avramopoulos, Commissario Europeo immigrazione, al quale è stata sottoposta la stessa proposta: «Se l’Italia mettesse in piedi un piano nazionale complessivo e il Governo lo facesse suo, presentandolo ufficialmente agli organi europei competenti, sarebbe senz’altro recepito positivamente. Se sono necessari più soldi ne discutiamo nel dettaglio, i soldi ci sono».

Anche uno Stato poco affidabile come il nostro appare più credibile di un sistema gigantesco di scatole cinesi incontrollabili: un sistema piramidale dove chi sta sopra guadagna su chi sta sotto, un sistema dove è difficilissimo rintracciare responsabilità, dove all’appalto si aggiunge il sub appalto, dove i lavoratori delle cooperative sono contrattualizzati su progetti di breve durata, precari e con contratti da fame.

È chiaro che dei migranti serve tutto. La loro terra di origine ricca di risorse, la loro fuga che alimenta il commercio dei trafficanti di esseri umani e, arrivati nel Vecchio Continente, il loro corpo come strumento di molteplici economie. Pochi di loro sono consapevoli di tutto questo. La maggior parte si guardano in giro spaesati, hanno appena fatto colazione con pochi biscotti scadenti e mezza tazza di latte. Se solo sapessero quanto denaro si muove e quanto poco produce per loro, forse ne resterebbero stupiti.

*Jacopo Landi, tratto da WOTS, Walking on the South http://wots.eu

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