La città in svendita

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Le recenti stagioni dell’urbanistica fiorentina, dal secondo mandato del sindaco Leonardo Domenici al primo della coppia Renzi-Nardella, corrispondenti alla presenza in Consiglio comunale del gruppo perUnaltracittà, offrono, ad uno sguardo complessivo, uno scenario desolante, fra mediocrità e malaffare.

Nonostante il trionfalismo renziano nell’affermare il principio dei “volumi zero” nel nuovo Piano strutturale (che poi non erano affatto pari a zero, quei volumi), i tratti distintivi di quel periodo sono stati fondamentalmente due: da un lato, l’affermarsi di pratiche al limite della legalità – e anche oltre – da parte una cricca di professionisti e politici ben introdotti negli ambienti che contavano del potere locale; dall’altro, uno spregiudicato ricorso ai meccanismi delle alienazioni del patrimonio pubblico come rimedio contingente per far quadrare i bilanci di gestioni fallimentari.

Il secondo mandato di Leonardo Domenici esordisce con la firma, nel 2005, della convenzione per l’intervento nell’area di Castello: una celebre fotografia ritrae l’allora sindaco al tavolo con Salvatore Ligresti, intenti ad apporre le firme. L’area di Castello, interessata da un faraonico e contestatissimo progetto di cementificazione, sarà poi sequestrata nel 2008 nel corso di una indagine per corruzione. Ne parla in questo libro Antonio Fiorentino.

Risale al 2008 anche il sequestro del cantiere di Novoli, dove si stava costruendo il complesso del Multiplex, ancora una volta per pesanti irregolarità amministrative e abusi edilizi, denunciati da Puc.

Nel 2009 è il momento dello scandalo Quadra, società di progettazione fondata dal capogruppo Pd in Consiglio comunale e dal presidente dell’Ordine degli architetti, scandalo già approfondito nel contributo di Maurizio Da Re. Nella vicenda Quadra, specchio della gestione urbanistica del periodo, emerge un vero e proprio sistema per cui i progetti firmati dalla società avevano un iter assicurato negli uffici, aggirando le norme vigenti, ma anche intervenendo direttamente per riscriverle in modo da assicurare i massimi profitti per i partecipanti al sodalizio. Un intreccio fra politici di peso, professionisti, imprenditori, che si era impadronito dell’attività edilizia cittadina, che si poneva come interlocutore privilegiato per chiunque volesse portare a buon fine un intervento, incurante degli interessi generali e delle esigenze della città. Famigerata in questo senso la “densificazione urbana”, che sulla base di norme appositamente scritte per mano di Quadra e adottate dal Comune, permise interventi di assurda saturazione di cortili, spazi interni agli isolati, corti.

Al di là dei singoli coinvolti direttamente nella vicenda, era chiaro che tutto questo non sarebbe potuto accadere senza una sotterranea collusione o copertura, anche solo implicita, da parte del potere politico amministrativo che aveva in mano la città.

Molti casi di ordinaria illegalità e abusivismo sono emersi in quel periodo, anche grazie all’azione di ricerca e denuncia di organizzazioni e comitati, come anche di singoli cittadini, ma quello che più impressionava era il carattere sistematico delle violazioni e l’arroganza di un potere che pretendeva l’intangibilità. E di fronte al deflagrare del caso Quadra, la neonata amministrazione Renzi a fine 2009 si oppose alla richiesta di istituire una commissione speciale per far luce sugli aspetti che più coinvolgevano la macchina politico amministrativa comunale[1].

Un altro grande capitolo di gravi irregolarità, abusi e corruzione è costituito dalla vicenda del progetto di tunnel ferroviario sotto Firenze per l’Alta Velocità: nonostante le ripetute e documentate critiche che da anni i comitati avanzano, anche sull’assurdo spreco di risorse pubbliche, e nonostante sia emerso con l’inchiesta del 2013 e con gli arresti di Ercole Incalza del 2015 un impressionante quadro di corruzione e malaffare, tutte le amministrazioni sia comunali che regionali si sono sempre schierate per il proseguimento dei lavori.

Nel 2009, a fine del mandato di Leonardo Domenici, viene predisposto il primo “piano dei beni alienabili”, un elenco di immobili di proprietà pubblica da vendere ai privati, peraltro senza alcuna indicazione di destinazione d’uso, lasciando quindi ai calcoli e alle logiche del mercato e degli investitori decidere le funzioni cui destinare importanti nodi cittadini. Fra gli immobili messi in vendita c’è il Teatro Comunale, palazzo Vivarelli Colonna, la villa di Rusciano, e molti altri: messi a disposizione degli appetiti dei privati, con un irreversibile depauperamento del patrimonio pubblico. Questa tendenza è confermata e rafforzata dalle amministrazioni Renzi e Nardella, che anzi si fa “agente immobiliare” per vendere il patrimonio pubblico nelle varie fiere internazionali[2].

Sul fronte delle trasformazioni reali della città il quadro non è meno sconfortante, tuttavia alcuno sforzo sistematico viene prodotto dalle amministrazioni che si succedono.

L’accesso a una abitazione da problema diventa emergenza sociale. Non solo restano oltre quattromila le famiglie in graduatoria per una casa popolare, che in buona parte non vedranno mai, ma si aggrava costantemente anche la situazione di tanti che non hanno i requisiti per l’accesso all’Erp ma che, a causa della crisi perdurante, scivolano velocemente verso la soglia di povertà, con un mercato delle locazioni che continua a procedere con valori insostenibili dei canoni, come testimonia la crescita esponenziale dei provvedimenti di sfratto, ormai una mattanza quotidiana.

Si accentua il divario fra centro e periferie: il primo con crescenti caratteristiche di attrazione turistica, investimenti anche cospicui per interventi di imbellettamento estetico, svolge ormai una funzione di vetrina scintillante, con conseguente espulsione dei vecchi abitanti per far posto a funzioni ricettive variamente declinate, ma sempre rivolte a utenza di alto livello economico, seconde case per ricchi stranieri, funzioni commerciali, come si conviene a un gigantesco parco divertimenti. Fuori dal centro la situazione è andata rapidamente peggiorando in termini di qualità della vita: infrastrutture insufficienti, sempre meno servizi, spazi collettivi e attrezzature pubbliche, luoghi e occasioni di socialità cancellati. La rottura dei legami sociali e di solidarietà, che pure caratterizzavano i quartieri periferici delle città fino agli anni ’70-’80, per procedere verso una individualizzazione e una polverizzazione delle comunità, è perfettamente simboleggiata dal diffondersi di centri commerciali e luoghi del consumo di massa, dove ognuno è solo, consumatore avulso da ogni rapporto spaziale e sociale. Una situazione peraltro molto funzionale alle classi dominanti per evitare movimenti di massa, per passare all’individualizzazione dei conflitti e alla «guerra civile molecolare come fenomenologia del conflitto sociale contemporaneo, fondato sull’individuo e non sulla classe»[3], estremamente più semplici da controllare.

Una città insomma che diventa rapidamente luogo sempre meno vivibile da chi la abita, a meno di non appartenere alle élites sempre più esclusive, con privilegi che si rafforzano e si esibiscono, anche simbolicamente: cento sfratti in un mese, ma si chiude Ponte Vecchio per una cena esclusiva con tanto di Ferrari rosse fiammanti. Si chiudono piazze cittadine per matrimoni di magnati stranieri, si fa il prezzario per l’affitto di spazi museali per aperitivi di lusso, mentre si allunga la coda per un pasto alle mense popolari. Non si privatizzano solo parti del patrimonio pubblico, si privatizza l’idea stessa di città.

Quello che colpisce inizialmente guardando le politiche urbane dell’ultimo decennio è una sorta di casualità, un vivacchiare giorno per giorno fra privilegi piccoli o grandi, leciti o meno, trucchetti di bilancio, insomma un galleggiare senza scontentare i grandi interessi, ma senza una idea di città da perseguire, da proporre. Ma questa apparente assenza di una idea forte è del tutto funzionale alla affermazione della città neoliberista, che ha natura, forme e meccanismi ben precisi.

Siamo abituati a definire la città in vari modi, luogo delle reazioni, organismo urbano che vive e muta. Il sociologo Robert Park scrisse che la città è «il tentativo più coerente e nel complesso più riuscito da parte dell’uomo di plasmare il mondo in cui vive in funzione dei propri desideri»[4]. Sappiamo che c’è la città dell’esclusione, e c’è la città insorgente. Ma spesso si tendono a rimuovere le dimensioni economiche del fenomeno urbano. Nel 2009 si è oltrepassata la quota del 50% di popolazione mondiale che risiede in aree urbane. Agli inizi dell’800 era il 3%, nel 1955 il 30%. Nei paesi a capitalismo “avanzato” l’esposizione per mutui immobiliari è pari circa al 40% del Pil. La crisi in cui tuttora ci troviamo ha avuto inizio con la nota vicenda del mutui subprime statunitensi, meccanismi creati per tenere artificialmente alto il mercato immobiliare. Ma anche molte delle crisi precedenti sono esplose in concomitanza con crisi immobiliari, compresa quella del ‘73, dovuta sì al mercato delle risorse energetiche, ma che ha avuto origine da un crollo globale del mercato immobiliare che ha spinto al fallimento diverse banche, e che ha poi determinato la crisi fiscale della città di New York.

Insomma, la città è – anche – un gigantesco “teatro economico”, in cui le leggi del mercato e dello sviluppo capitalista trovano un luogo privilegiato di azione, di importanza strategica, e non solo di occasionale investimento.

In particolare, sostiene David Harvey, «l’urbanizzazione svolge un ruolo particolarmente attivo (insieme ad altri fenomeni, come la spesa militare) nell’assorbire l’eccedenza prodotta dalla continua ricerca di plusvalore»[5].

Le grandi operazioni di trasformazione urbana, a partire dalla Parigi di Haussmann, hanno avuto – anche – questo significato: creare scenari che garantiscano la produzione e l’assorbimento del surplus di capitale. La riconfigurazione della capitale francese ad opera di Haussmann assorbì enormi quantità di manodopera e di capitale, e furono creati appositamente nuovi istituti e strumenti finanziari (Crédit Mobilier e Crédit Immobilier), che finanziarono l’operazione attraverso l’emissione di debiti, fino a che, quindici anni più tardi, il sistema crollò per lo stress speculativo dando vita a una delle prime crisi immobiliari.

Le grandi trasformazioni delle città statunitensi del secondo dopoguerra, a partire da New York, hanno alcune caratteristiche simili. Finito lo sforzo bellico, un ingente investimento in primo luogo in campo infrastrutturale ha cambiato il volto delle città, e garantito un gigantesco sbocco per capitale eccedente e manodopera da impiegare. Attraverso la suburbanizzazione del territorio intorno alle città si sono create grandi distese di quartieri residenziali in cui la classe media era invitata a trasferirsi, abbandonando di fatto il centro delle città, senza alcun investimento o cura, in cui rimasero le classi povere e le minoranze, per lo più di colore, impossibilitate a seguire il “sogno americano” della vita agiata nei nuovi suburbs, aprendo così la strada ai moti di ribellione urbana degli anni ‘60. In questo caso la riconfigurazione urbana è anche stato un modo per trasformare lo stile di vita della middle class americana, stimolando peraltro a dismisura i consumi individuali, a partire dai trasporti, che vuol dire industria automobilistica e petrolio, case unifamiliari e “nuovi bisogni”, garantendo così ulteriore terreno di sviluppo dei mercati. Poi, quando i terreni dei centri degradati hanno perso valore, sono diventati appetibili per ulteriori processi di investimento e creazione di profitto, attraverso la gentrificazione. Naturalmente a spese delle classi più povere, ancora una volta espulse ed espropriate di tutto, secondo una logica già individuata da Friedrich Engels ne La questione delle abitazioni (1872), quando mette in relazione la rendita fondiaria delle aree urbane centrali, la demolizione dei vecchi edifici, la ricostruzione di nuovi. «Questo succede prima di tutto con le abitazioni operaie situate al centro […]. Si abbattono queste case, si innalzano al loro posto botteghe, magazzini, edifici pubblici».

Con la svolta neoliberista degli anni ’80 l’attacco alla qualità della vita e alle condizioni materiali degli abitanti delle città è diventato selvaggio. L’esasperazione della concorrenza individuale come nuovo mantra nella scala dei valori, la ricerca estrema della massimizzazione del profitto, la divaricazione crescente della forbice sociale con una elevatissima polarizzazione nella distribuzione della ricchezza: la città è divenuta il luogo di caccia ideale per i predatori del mercato globale. Nessuno spazio, nessun tempo della vita urbana è salvaguardato dai meccanismi di estrazione di profitto. L’affermazione del valore di scambio a danno del valore d’uso è totale.

Dalla macroscala della Parigi haussmanniana o della New York di Robert Moses alla scala più ridotta delle trasformazioni urbane della Firenze di questi anni, i caratteri principali non cambiano. Dietro alla retorica della “valorizzazione” di un’area o di un quartiere, della “riqualificazione”, della “rivitalizzazione”, si celano gli stessi meccanismi economici e gli stessi interessi. Così diviene perfettamente logico e comprensibile il proliferare di centri commerciali e la cronica mancanza di alloggi sociali, l’ipertrofia infrastrutturale delle grandi opere – in cui con un dissennato project financing si può dare carta bianca ai meccanismi di accumulazione del capitale, e l’ormai inesistente manutenzione del territorio, la crescente privatizzazione dei servizi e la guerra contro ogni spazio o occasione di socialità. Si fa non quello che serve per la qualità della vita degli/delle abitanti della città, ma quello che richiedono le ferree leggi del neoliberismo.

E la città si conforma secondo la logica del dominio di classe. La vendita del vecchio Teatro Comunale, e la realizzazione al suo posto di decine di appartamenti di superlusso, con tanto di soddisfatto annuncio dell’assessore fiorentino[6], è paradigmatica e porta in sé anche una valenza simbolica, portando un pezzo di città chiusa, ipervigilata, inaccessibile se non per l’élite cui è destinata, nel luogo che fu pubblico per vocazione, “comunale”, appunto. Nelle zone centrali, appetibili, nella città vetrina è uno scenario che si ripete. Gli alberghi a cinque stelle si sono moltiplicati, palazzi storici sono stati e saranno riservati ad una utenza scelta. I vecchi abitanti delle zone popolari del centro sono stati nella quasi totalità allontanati. Un centro, del resto, sempre meno adatto alla vita residente e sempre più fatto per l’ostentazione e il consumo. In una città, comunque, sempre meno costruita per essere usata: come in tutte le religioni, anche nel capitalismo del dio mercato (per dirla con Walter Benjamin) la consacrazione significa separazione, sottrarre qualcosa all’uso dell’uomo. Così avviene per la città consacrata al capitalismo. Afferma Giorgio Agamben: «Se, com’è stato suggerito, chiamiamo spettacolo la fase estrema del capitalismo che stiamo vivendo, in cui ogni cosa è esibita nella sua separazione da sé, allora spettacolo e consumo sono le due facce di un’unica impossibilità di usare. Ciò che non può essere usato viene, come tale, consegnato al consumo o all’esibizione spettacolare»[7].

Nessuno spazio, quindi, per il valore d’uso, per i bisogni, per la vita fuori dalle logiche del mercato. E tolleranza zero per ogni pratica che contraddice questi assunti. Perché la città è anche il luogo della resistenza possibile, delle pratiche alternative, delle autorganizzazioni, della costruzione di spazi eterotopici, come affermava Henri Lefebvre. «Alcune di queste pratiche trasformatrici sono illegali. Si tratta di forme di vita e sperimentazioni organizzative che sono potenzialmente capaci di produrre “progetti di territorio” anche al di fuori di una cornice istituzionalmente riconosciuta: tattiche materiali e simboliche di appropriazione/significazione dello spazio che sfidano la sfera normativa: un fascio di scritture, plurali e molecolarmente diffuse, che trasgrediscono il testo della città pianificata»[8].

È la città dei movimenti che si riappropriano di spazi abbandonati, per farne luoghi liberati di socialità e condivisione, di progettualità e iniziative dal basso; la città delle occupazioni a scopo abitativo sempre più frequenti a fronte di una situazione drammatica del diritto negato all’abitare. Ci sono a Firenze anche esperienze di terreni agricoli abbandonati, e rimessi in attività da comunità locali che condividono lavoro, gestione e distribuzione dei prodotti.

Sono tutte pratiche, per riprendere Agamben, di profanazione della sacralità del profitto e del mercato, e come tali continuamente combattute e represse, in nome della concezione dominante di legalità, in cui il diritto alla proprietà privata e la ricerca del profitto prevalgono su ogni altro possibile diritto. E abbiamo assistito, a Firenze come altrove, a una serie infinita di interventi delle “forze dell’ordine” per sgomberare spazi che erano abbandonati e tornano ad esserlo, come via dei Conciatori, o che sono restituiti alla speculazione non appena questa lo richiede, come l’ex-collegio La Querce, i centri sociali Cpa e Next Emerson, e mille altri.

Ma sono le pratiche che possono indicare una direzione, per rivendicare, con Lefebvre, il diritto alla città, dalla parte degli espropriati, rivendicare il potere di dar forma ai processi di urbanizzazione, ai modi in cui le nostre città vengono costruite e ricostruite: «Le forme spazio-temporali saranno inventate e proposte alla prassi. L’immaginazione deve manifestarsi; non l’immaginario che permette la fuga e l’evasione, che trasporta ideologie, ma l’immaginario che si investe nell’appropriazione – del tempo, dello spazio, della vita fisiologica, del desiderio»[9].

Ma, ci ricorda David Harvey, tutto ciò non potrà accadere se non esisterà un forte movimento anticapitalista.

* Maurizio De Zordo

[Il testo è apparso nel libro Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014, a cura di Ilaria Agostini, Aión, Firenze, 2016, pp. 69-77; del libro, abbiamo già pubblicato i capitoli: Un’altra idea di città, della curatrice; Firenze 2004-2014. Un caso nazionale, di Paolo Berdini; Dal Palazzo al città, e ritorno di Ornella de Zordo; L’urbanistica in consiglio comunale di Maurizio Da Re; Comunicare il pensiero critico di Cristiano Lucchi; Piani neoliberisti, Ilaria Agostini]

Note al testo

[1] Anche su questi aspetti si veda, supra, l’approfondimento di Maurizio Da Re.

[2] Per l’occasione il Comune di Firenze redige una «brochure» che illustra i 59 edifici – 12 pubblici e 47 privati – che il sindaco Nardella promuove presso le fiere internazionali dell’immobiliare: cfr. Maurizio De Zordo, Firenze Real Estate, le nuove frontiere della giunta Nardella, “La Città invisibile”, 13 ottobre 2014; Ilaria Agostini, Firenze svenduta da Nardella, ecco svelato il meccanismo perverso, “La Città invisibile”, 10 novembre 2014. Cfr. anche, supra, il cap. Un’altra idea di città.

[3] Hans Magnus Enzensberger, Prospettive sulla guerra civile, Einaudi, Torino, 1994.

[4] Robert Ezra Park et al., La città (1925), Edizioni di Comunità, Milano, 1967, cit. in David Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, il Saggiatore, Milano, 2013, p. 22.

[5] Harvey, Città ribelli cit., p. 25.

[6] Cfr. ad esempio Ernesto Ferrara, Il “Rinascimento” urbanistico trainato dai capitali stranieri, “la Repubblica Firenze”, 16 settembre 2015.

[7] Giorgio Agamben, Profanazioni, nottetempo, Roma, 2005, p. 93.

[8] Giovanni Attili, Urbanistica: un sapere fragile tra mercato e politica, in Id., Enzo Scandurra (a cura di), Il pianeta degli urbanisti e dintorni, DeriveApprodi, Roma, 2013, pp. 24-25. Sul «progetto di territorio» cui è fatto cenno nella citazione, cfr. Alberto Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

[9] Henri Lefebvre, Il diritto alla città (1968), Marsilio, Venezia, 1970, p. 130.

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Maurizio De Zordo

Maurizio De Zordo, architetto, attivo da anni nei movimenti fiorentini e nelle realtà dell'antifascismo militante partecipa anche al laboratorio politico perUnaltracittà ​dove si impegna in particolare, oltre che sulle tematiche legate alla repressione, sui temi della città, dell'urbanistica e del diritto alla casa.

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