Stragi nazifasciste, ecco come si è arrivati a condannare gli autori

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Quando apro il pdf della sentenza in primo grado di Sant’Anna di Stazzema, un po’ trattengo il respiro: ho sempre avuto difficoltà a trovarmi faccia a faccia con la barbarie, con la violenza che non ha pietà, neanche dei bambini.

La sentenza del Tribunale militare di La Spezia porta il numero 45 ed è datata 22 giugno 2004: 71 anni dopo gli eventi si giunge così ad una verità giudiziaria per un episodio che ha visto morire 394 innocenti, in maggior parte donne e bambini rastrellati e uccisi senza nessuna pietà dai nazisti grazie anche alla presenza di fascisti italiani.

La strage di Sant’Anna è solo una tra le più conosciute delle centinaia di stragi che furono commesse dai nazifascisti durante la ‘ritirata aggressiva’ successiva all’Armistizio dell’8 settembre 1943 per il controllo dell’Appennino tosco-emiliano

Nella nostra regione i morti civili furono 4.500, un tributo di sangue altissimo pagato dalla popolazione inerme: Sant’Anna di Stazzema, Civitella Val di Chiana, Monte Sole-Marzabotto, Padule di Fucecchio, San Terenzio, Fivizzano… ma l’elenco è lungo, lunghissimo, sono centinaia i tragici episodi in Toscana con vittime tra la popolazione inerme.

Il perché queste stragi abbiano un percorso giudiziario così recente è da ascrivere all’occultamento di ben 695 fascicoli, che portano un timbro del 1960 con dicitura ‘Archiviazione provvisoria’ e che contengono i nomi di vittime e colpevoli, i luoghi di migliaia di eccidi avvenuti in tutta la penisola e che grazie a quel timbro “illegittimo” hanno dormito per 34 anni a Roma, in un armadio di Palazzo Cesi, sede del Tribunale Militare.

I documenti furono rinvenuti nel 1994, negli stessi mesi del processo ad Erik Priebke. I giornali definirono l’archivio “armadio della vergogna” per la mole di materiali vitali per la ricostruzione della verità di quegli anni.

Dall’impegno del magistrato della Procura militare Marco De Paolis, quei documenti hanno dato vita a 450 procedimenti per crimini di guerra e portato in giudizio oltre 80 imputati e ad oggi sono ben 57 le condanne all’ergastolo in primo grado.

Il suo lavoro di De Paolis – dal 2002 ha diretto le procure militari di La Spezia e Roma – è stato non solo un colossale lavoro giudiziario, ma anche di recupero storico di fatti deliberatamente insabbiati. Per questo è stata fondamentale la collaborazione con lo storico Paolo Pezzino. Con lui De Paolis ha curato anche una collana sulle stragi nazifasciste che la Regione Toscana ha sovvenzionato su proposta dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia.

Il procuratore militare Marco De Paolis

A fine maggio Marco De Paolis ha presentato all’Università di Firenze i primi due libri della collana: La giustizia difficile e Sant’Anna di Stazzema. A margine dell’iniziativa ha rilasciato delle dichiarazioni che sono interessanti per comprendere come si è svolto il lavoro di recupero storico di accadimenti tanto vivi nelle popolazioni colpite e tuttavia difficili da analizzare, per il troppo tempo trascorso.

Sul motivo per cui i documenti abbiano languito per tanti anni nel succitato “armadio della vergogna” ci sono pochi dubbi: la ragion di stato ha prevalso su tutto. A quindici anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e in piena Guerra Fredda più che perseguire i criminali di guerra si preferiva inserire la Germania nell’area di influenza occidentale. Ma c’è di più: come risulta dal carteggio De Martino – Taviani, allora Ministri della Difesa e dell’Interno, non conveniva all’Italia richiedere la consegna dei criminali di guerra, quando altri Stati, soprattutto i Balcani e la Grecia, richiedevano i nostri criminali di guerra fascisti e non si aveva nessuna intenzione di consegnarli alla giustizia di altri paesi.

E così i documenti che avrebbero reso giustizia ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime hanno “dormito” per decine di anni. De Paolis non ha dubbi: “Non si poteva lasciare un dolore vivo e reale senza risposta, quelle carte si vivificavano nelle persone che avevo di fronte a me. Quei crimini commessi su popolazioni inermi non erano prescrittibili e andrebbero perseguiti per diritto di natura”.

Inizia così un lento e scrupoloso lavoro di organizzazione di un processo investigativo su fatti avvenuti cinquant’anni prima: le prove testimoniali sono deboli e diventa fondamentale il lavoro investigativo sui documenti degli archivi tedeschi, per ricostruire i reparti che operarono in quegli anni e risalire alle persone. Nel 2002 inizia una fase di stretta collaborazione con il Procuratore della Repubblica di Monaco di Baviera che offre il suo aiuto a De Paolis. Fondamentale anche l’aiuto degli storici: sempre nel 2002, anno cruciale per la ricerca della verità sulle stragi nazifasciste in Italia, inizia la collaborazione con il Prof. Paolo Pezzino.

Ma è giusto perseguire chi ha solo eseguito degli ordini? Già Hannah Arendt affrontò questo tema, durante il processo Eichmann: molti dei gerarchi nazisti, una volta finita la guerra, sostenevano di non essere i responsabili degli eccidi commessi dal nazismo, ma di essere solo degli esecutori. Ma anche su questo Marco De Paolis ha pochi dubbi: “Io mi sono sempre ancorato all’individuo che ha compiuto la scelta se commettere o meno un crimine. Non tutti hanno fatto quella scelta. C’era sicuramente un condizionamento, ma questo non può giustificare nessuno”.

Sempre nel 2002 il Presidente della Germania Federale andò in visita di stato a Marzabotto. Alla presenza del presidente Carlo Azeglio Ciampi affermò: “Oggi sono qui a commemorare le vittime. Il mattino di quel giorno arrivarono assassini con l’uniforme nera, come iene cancellarono ogni traccia di vita umana. La colpa ricade solo su chi ha commesso quei crimini. Le conseguenze di tale colpa, invece, devono affrontarle anche le generazioni successive.” Eppure, non solo la colpa individuale può spiegare quello che è successo, secondo De Paolis, perchè quelle persone che hanno massacrato non erano in gita turistica, avevano un’uniforme e armi ed ordini dati dal loro governo. Insieme alla bandiera con la croce uncinata, avevano la bandiera tedesca ed erano figli di una cultura che di certo non è quella della Germania di oggi, ma con cui la Germania non può non fare i conti.

Responsabilità individuale e memoria sono i concetti cardine di questa vicenda. E’ proprio nelle carte processuali, nei ricordi dei sopravvissuti, che forse si può cercare di trovare un senso. Ecco ad esempio la testimonianza di Enio Mancini, sopravvissuto che all’epoca dei fatti aveva sei anni e mezzo: “I tedeschi se ne andarono, lasciando solo con loro un soldato giovanissimo, il classico biondino tedesco di 17-18 anni. Quest’ultimo cercava di comunicare ma soltanto con molti sforzi e a gesti fece capire che dovevano stare zitti e andare via, scappare, tornare indietro. Allora si girarono e si diressero verso casa, quando alle loro spalle il soldato sparò una raffica di mitra in aria a simulare la loro uccisione […]’.

Responsabilità personale e memoria. Come ha detto De Paolis, non tutti hanno fatto la stessa scelta e c’è chi, nonostante il forte condizionamento, ha scelto diversamente, rischiando anche la propria vita. Conoscere e ricordare ciò che siamo stati, ciò che è stato ci permette di acquisire valori e contenuti che danno il senso alla nostra essenza e alla nostra storia di oggi.

*Erica Massa

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