Le mafie in Toscana: dagli anni ’70 a via dei Georgofili

Il tema delle mafie gode di una particolare attenzione mediatica nel complesso e multiforme dibattito pubblico contemporaneo. Negli ultimi anni si è “ri-scoperta” la presenza di interessi ed esponenti della criminalità organizzata in “aree non tradizionali”, ovvero al di fuori di alcune zone della Calabria, della Campania e della Sicilia.

Anche in Toscana, come in altre regioni del centro-nord, l’attenzione sulle mafie trova spazio nel discorso pubblico attuale, soprattutto in seguito a fatti e provvedimenti giudiziari che, a macchia di leopardo, riguardano diverse aree del territorio.

A fronte dei cicli di notiziabilità del tema, un approfondimento temporale del panorama regionale permette di riflettere sulle presenze mafiose da una prospettiva diversa rispetto a quella contingente spesso proposta, anche per esigenze giornalistiche, dai principali media. Con questa prospettiva, infatti, la mafia non è scoperta o riscoperta solo in occasione di misure cautelari, confische di bar e ristoranti o arresti eclatanti. L’obiettivo per noi, è bene ribadirlo, non è quello di veicolare l’immagine di una mafia onnipresente e onnipotente, muta e mimetica, capace di resistere alle operazioni giudiziarie della magistratura. Al contrario, proponiamo uno sguardo di insieme, di lungo e medio periodo che, ove possibile, scende in profondità sui meccanismi che possono influenzare la diffusione della criminalità organizzata. Lo sguardo necessario, insomma, per poter comprendere i fenomeni sociali.

Nei prossimi appuntamenti l’attenzione sarà dedicata a una scansione temporale delle presenze mafiose in regione, basata non solo sui principali eventi e fatti giudiziari ma anche sulle diverse risposte della società civile, della politica, degli apparati di contrasto. Secondo il materiale raccolto durante la nostra ricerca, come anticipato, le presenze criminali in Toscana possono essere suddivise in due fasi, simbolicamente scandite dalla Strage di via dei Georgofili del 1993.

Concentriamoci sulla prima fase, prima sugli elementi che possono avere influenzato gli spostamenti di criminali in regione e in seguito a sulle attività condotte da questi. In particolare, nel dibattito pubblico e giudiziario sono due gli elementi che avrebbero favorito gli insediamenti mafiosi: il primo è relativo alla normativa sulla mafia e il secondo al contesto socio-economico della regione.

Questa fase copre orientativamente l’arco di tempo che va dalla metà degli anni settanta fino alla strage di Via dei Georgofili, nel 1993, ed è caratterizzata da una forte presenza di mafiosi al soggiorno obbligato, 282 tra il 1961 e il 1974, cifra che colloca la regione al terzo posto dopo Lombardia e Piemonte.

Il soggiorno obbligato è istituito dalla legge n. 1423 del 1956, “Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità” e con la legge 575 del 1965 è specificatamente applicato nei confronti di individui indiziati di appartenere ad associazioni mafiose. La misura prevedeva l’allontanamento da determinati comuni o province di individui dediti a traffici delittuosi e/o che con le loro azioni minavano la sicurezza pubblica. Solo nei casi di particolare pericolosità la legge stabiliva la possibilità di obbligo di residenza in un determinato comune. Negli altri casi, dunque, il Tribunale prescriveva al soggetto di stabilire la propria dimora presso un domicilio, informarne l’autorità di pubblica sicurezza e non allontanarsene se non previa comunicazione all’autorità stessa. Chiaramente, l’obiettivo della legge era allontanare i mafiosi dal contesto di origine limitandone il raggio d’azione e dunque la pericolosità. Al fine di assicurare il pieno controllo da parte degli apparati di polizia, ma anche dalla comunità stessa, la cosiddetta legge Rognoni- La Torre del 1982, modifica la legge e stabilisce che il soggiorno obbligato sia disposto in un comune con non più di 5 mila abitanti ed essere lontano dalle grandi metropoli. Quindi, i soggetti erano comunque di liberi di scegliere un domicilio purché fosse in un luogo dove le loro attività e movimenti fossero “sotto gli occhi di tutti”. Questo articolo viene ri-modificato nel 1988, stabilendo l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale, indipendentemente dalla dimensione del comune, elemento che scomparendo quale discriminante varia anche la ratio precedente. L’istituto è stato infine abolito con il referendum dell’11 luglio 1995.

Nelle varie tesi sulla espansione delle mafie nei territori non tradizionali, la misura del soggiorno obbligato viene vista, spesso, come la causa dell’insediamento di gruppi mafiosi. In particolare, questa misura risponde alla rappresentazione della mafia come “invasore”, un agente esterno che aggredisce un contesto “sano” e privo di “difese”. In effetti, non si può negare che la possibilità di scegliere come luogo di dimora ad esempio, un comune a forte concentrazione di immigrati dalla stessa zona geografica o dove il mafioso potesse far riferimento a reti di relazioni già consolidate, possa essere stato un elemento facilitante l’insediamento di gruppi mafiosi. Tuttavia, studi e ricerche che ricostruiscono i meccanismi di espansione delle mafie nelle cosiddette “aree non tradizionali” mostrano come il solo soggiorno obbligato non può essere ritenuto un elemento sufficiente, piuttosto un fattore che, insieme ad altri, non ultimo le opportunità offerte dal contesto di arrivo, può agevolare la penetrazione mafiosa in nuovi territori.

Così come si legge nella relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 1994, curata dal senatore Carlo Smuraglia, anche in Toscana, tale misura ha contribuito alla scelta di residenza di alcuni mafiosi e delle loro famiglie ma probabilmente la posizione strategica e l’appetibilità economica della regione ha avuto un ruolo maggiore nel richiamare spostamenti criminali. Da alcune interviste a magistrati emerge infatti come, in questo periodo, giovani mafiosi siciliani si sono trasferiti in Toscana per scelte deliberate, intravedendo margini per inserirsi in attività legali o illegali.

Si trova conferma di questo attraverso la ricostruzione dei gruppi e degli esponenti presenti nel territorio regionale e delle principali attività svolte da questi. Per quanto riguarda le presenze, i documenti di quel periodo sottolineano la taratura criminale dei mafiosi presenti in regione, per la maggior parte appartenenti a Cosa nostra riconducibili sia al gruppo vincente della “seconda guerra di mafia” degli anni ottanta, sia a quello perdente.

Unica eccezione alla prevalenza di Cosa nostra si riscontra nella zona del Valdarno, dove sono presenti soggetti vicini alla nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e altri provenienti dall’area casertana. Secondo i magistrati toscani si tratta di presenze di “secondo livello”, prive di collegamenti con la politica, e dedite principalmente ad attività illegali, quali il traffico di stupefacenti e di armi, lo sfruttamento della prostituzione e il gioco d’azzardo, ma anche rapine, estorsioni e truffe.

Marginali, ma non assenti, sono i tentativi di penetrazione nel tessuto economico, attraverso interventi nel mercato immobiliare o l’infiltrazione in strutture produttive. Tali tentativi si registrano soprattutto nell’area pratese, in cui opera un gruppo che i media del periodo battezzano come “mafia del tessile”. A capo della compagine, un criminale di origine palermitana che, attraverso corregionali e “autoctoni” toscani, conduce al fallimento alcune aziende manifatturiere dell’area per ricomprarle a basso costo.

Questo quadro è destinato a modificarsi a partire dal 1993, quando la strage di Via dei Georgofili scuote la Toscana, e soprattutto Firenze, colpendola nel vivo, provocando reazioni e incidendo in qualche modo sulle caratteristiche della seconda fase della presenza mafiosa.

*Graziana Corica e Rosa Di Gioia