Uccisione di Duccio Dini: responsabilità individuali e non responsabilità etniche

Quanto avvenuto in via Canova nel quartiere dell’Isolotto fa rabbia, per la sua assurdità: è morto un ragazzo di 29 anni mentre andava al lavoro, di domenica, giorno in cui non avrebbe dovuto lavorare, coinvolto in un folle inseguimento in cui non aveva niente a che fare. Non possiamo che esprimere la nostra solidarietà alla famiglia, agli amici e a chi lo conosceva. E chi ha commesso il fatto dovrà essere punito secondo la legge.

Mentre tutta la città era scossa dalla notizia, la destra cittadina ne ha approfittato immediatamente, sciacallando sull’accaduto: per questa gente se Duccio Dini è morto non è colpa dei diretti responsabili, ma di tutta la comunità rom che abita al campo rom del Poderaccio.

È come se, invece di arrestare un criminale, si invochi l’arresto di tutto il condominio in cui abita. Certo, in un condominio povero è più facile che più inquilini si affidino a soluzioni extralegali per campare. Ed è qui il vero problema del Poderaccio: la miseria, che genera insicurezza sociale. E l’insicurezza sociale non si risolve con la polizia, come pure tutti, dalla destra a Nardella, invocano, percorrendo i soliti luoghi comuni.

Di fronte alle frottole degli sciacalli, è dunque necessario fare chiarezza:
1. Non è vero che i rom vogliono vivere nei campi. I rom e i sinta che vivono in condizioni di emergenza abitativa, divisi tra campi istituzionali e non, sono circa 26.000, su una popolazione totale residente in Italia che varia tra i 120.000 e i 180.000, una delle percentuali più basse in Europa. Quella dei campi nomadi è una realtà tutta italiana, originata dalle scelte passate delle amministrazioni comunali che hanno sempre pensato di gestire la fuga di decine di decine di migliaia di individui da condizioni economiche disastrose e dalle guerre dell’ex Jugoslsavia, sgomberando gli insediamenti spontanei e relegando le comunità lontano dalla vista, sotto il tappeto, in zone estremamente marginali come il Poderaccio.

2. Non è vero che i rom non vogliono lavorare, andare a scuola etc. Qualsiasi studio condotto sul problema ha dimostrato che i tassi di occupazione e di scolarizzazione sono inversamente proporzionali all’isolamento e alla precarietà abitativa subite. Vuol dire che se sei povero, relegato in zone marginali della città, con scarsi servizi igienici etc., vivendo costantemente nell’emergenza, difficilmente riuscirai a frequentare scuola come gli altri, fare i compiti come gli altri, e avrai meno possibilità di trovare lavoro. Il primo, più urgente problema da risolvere è quello dell’emergenza abitativa.

3. Nessuno indica le soluzioni, che pure ci sono. Il mantra è “sgomberiamo il campo”, ma nessuno di coloro che strepitano e invocano le ruspe ha proposto né realizzato nulla di alternativo – giova ricordarlo, visto che si tratta di partiti che governano a tutti i livelli da decenni. Esiste dal 2012 una Strategia nazionale di inclusione – in attuazione di una direttiva europea – che nella maggior parte dei casi è rimasta sulla carta. Eppure ci sono casi virtuosi. Nella stessa Firenze, per ovviare alla sistemazione delle famiglie apolidi provenienti dalla ex Jugoslavia, negli anni ’90 sono stati realizzati degli edifici in via del Guarlone, dove le condizioni sono nettamente migliori rispetto a quelle dei campi. A Messina, l’amministrazione comunale ha avviato un riuscitissimo progetto, mettendo a disposizione edifici dismessi in diverse zone della città, che sono stati restaurati da gruppi di lavoratori rom appositamente formati presso la scuola edile e abitati dalle rispettive famiglie. Il tutto a bassissimo costo.

4. Le case ci sono, per tutti/e. A dispetto di quanto afferma Nardella, per eliminare i ghetti bisogna risolvere il problema abitativo. Il progetto di Messina dimostra che l’emergenza abitativa, che affligge tanto gli stranieri quanto gli italiani, si può risolvere mettendo a disposizione gli edifici dismessi, requisendoli a quelle società che li tengono vuoti a fini speculativi e tassando l’invenduto. Si possono realizzare così soluzioni immediate, efficaci e a basso costo.

Noi non ci faremo assoldare nella guerra al povero, che sfrutta una tragedia per tradurre responsabilità individuali in responsabilità etniche.

Noi siamo pronti invece, in qualsiasi momento, a combattere la guerra alla povertà, che si combatte non solo nelle sacche di marginalità della nostra città, ma nei quartieri popolari dove avvengono i 130 sfratti al mese di Firenze, nei posti di lavoro dove i contratti sono sempre più miseri e precari, nella perdita di salute e di diritti a cui ormai anche la popolazione toscana non è indenne.

*Potere al popolo – Firenze