La crisi ambientale incombe ma non è all’ordine del giorno. Quando si affronta il problema ci si accorge che origini ed effetti si dipanano su più piani, su innumerevoli ambiti. Quando si affronta il problema esso diviene pervasivo, ma se non è all’ordine del giorno, non se ne parla, facciamo tutti finta che non esiste. Pensiamo ad altro, continuiamo il tran tran quotidiano. L’assurdo è che anche quando facciamo delle analisi, spesso le facciamo senza tenerne conto. La crisi ambientale incombe, ma non è presente. Qualcuno la evoca, ma ci pare un atteggiamento apocalittico; ci pare che faccia del catastrofismo. Che illustri la sceneggiatura di un film sulla fine del mondo che catarticamente ci risparmia la sua presenza al di fuori del cinema. Forse perché sinistra e destra erano sinonimi reciprocamente di progresso e conservazione. Ma come non vedere quanto il concetto di progresso e di crescita siano consustanziali al capitale? Progresso e modernizzazione – divenuti sinonimi – sono stati indiscutibili per gran parte di una sinistra storica tanto da sbandare sempre di più nell’accettazione di forme sempre più radicali di liberismo.
Si direbbe che dopo il Latour di Tracciare la rotta un altro autore marxista se la prenda con i termini ormai svuotati di senso di destra e sinistra. Michéa ha in testa degli esempi francesi, ma anche, se non in modo particolare, in Italia, è possibile ben vedere il fenomeno di una sinistra parlamentare e di governo che ha sposato il progresso e le libertà del mercato non avendo niente più a che fare con il blocco sociale e le masse popolari. Michéa ricorda una frase di Lasch: «come si spiega che delle persone serie continuino ancora a credere al Progresso quando l’evidenza dei fatti avrebbe dovuto, una volta e per tutte, portarli ad abbandonare una simile idea?» (Jean-Claude Michéa, Prefazione all’edizione francese di The Culture of Narcissism, Christopher Lasch, Climats, 2000). O quando cita John Zerzan a proposito del Progresso Industriale e la sua «idolatria assassina dell’avvenire che annienta le specie viventi, abolisce le lingue, soffoca le diverse culture e rischia perfino di distruggere il mondo naturale tutto intero” (Ibidem).
Se poi, alla fine, dipaniamo il testo nell’imitazione narrativa di un giallo, potremmo dire che nel libro di Michéa l’assassino è il capitale: «ciò che minaccia di distruggere la natura e l’umanità stessa, un domani nemmeno tanto lontano, è innanzitutto il continuo e dissennato perseguimento del tornaconto capitalistico» (p. 14). E la scoperta avviene subito, nella seconda pagina dell’introduzione. Ma, se vogliamo, è palese a partire dal titolo originario che spiega che “il nostro comune nemico” è il capitale: «Notre ennemi, le capital».
La struttura, non nuova per l’autore, è in forma di intervista, Michéa risponde a quattro domande così ampie e articolate che semplicemente riportarle occuperebbe metà dello spazio da dedicare a questa recensione, mentre lo spazio che occupano le risposte è soltanto una piccola parte, da pag. 17 a pag. 66. Il resto sono approfondimenti in forma di annotazioni messi a seguire in una sequenza tale che è possibile leggere il libro trascurando i rimandi e comportandosi come se questa struttura non ci fosse. Dall’inizio alla fine, pagina per pagina. Anzi, se la lettura è più concentrata all’inizio, si svolge veloce nella seconda parte e via via che certi concetti ci diventano più chiari.
Prima domanda, sulla società dei consumi, citando Pasolini quando dice che l’anima del popolo è stata distrutta, l’interlocutore chiede se si può ancora parlare di popolo. La risposta reinserisce la società dei consumi nell’alveo della critica dell’economia politica, denunciando la tendenza di quel tipo di società a inseguire all’infinito il processo di valorizzazione del capitale. Fin qui niente di nuovo, ma subito dopo Michéa fa emergere i contorni di un dispositivo che trasforma il naturale senso di solidarietà in una guerra di tutti contro tutti. Ecco che l’egoismo diventa il motore comportamentale con il quale ci vorrebbero far confrontare. Pensando invece quanto occorra oggi riferirsi a quei valori tradizionali di aiuto reciproco e ai modi della socialità ad essi connessi che erano anche diventati il terreno di studio dell’ultimo Marx. La risposta più articolata di Michéa a questa stessa domanda si troverà più avanti negli scoli A, B, C, D. Nello scolio A, l’autore smonta il mito borghese e la sua teorizzazione da parte di Milton Friedman per il quale la libera concorrenza sia l’unico modo per far esprimere e dare ordine a quello spirito che guarda soltanto al proprio interesse e la trova in alcune considerazioni di Orwell che smentisce l’autoregolazione del mercato che porta soltanto a un vincitore e spesso anche a un monopolio. In questo mondo dove ai privilegi di pochi corrisponde un peggioramento della considerazione verso tante minoranze come ci ricorda Michéa citando Robert Moore per il quale «prima della comparsa del moderno stato centralizzato – a partire dall’XI secolo – la maggior parte delle “minoranze”, a cominciare dagli ebrei, dagli eretici e dai lebbrosi, godeva di uno statuto molto più protettivo e di molta più tolleranza» (p. 92).
Ed ecco che nell’articolazione del ragionamento nascono le note a margine dalla a alla f, questa volta minuscole. In queste si ritroveranno riferimenti alla vita politica francese, ma che – con piccoli – aggiustamenti sono applicabili anche alla situazione italiana e probabilmente europea. Con riflessioni indispensabili quale quella sui contenuti e sui reali e prioritari bisogni delle classi popolari. Un esempio. Michéa dice che il 22 gennaio del 1893 il Partito operaio francese (attraverso Jules Guesde e Paul Lafargue) faceva appello ai lavoratori delle città e delle campagne – ormai tutti salariati – fino alla piccola borghesia, per formare un grande partito di liberazione per coloro che vedono il loro futuro sempre più danneggiato dai tracolli finanziari con il loro strascico la miseria e l’insicurezza per tutti. Appello che si concludeva con l’invito a scacciare i ladri di destra e di sinistra. Deducendo poi che un discorso di questo genere è più capace di fare presa di quella promessa immancabilmente «più “moderna” di depenalizzare l’uso delle droghe, di abolire gli ultimi confini protezionistici ancora esistenti o di formalizzare il genere femminile nell’ortografia» (p. 132). Non tanto per il recupero populista del senso comune, ma per disdegnare il comportamento dell’intellettuale ideologico del XX secolo le cui manifestazioni consistevano principalmente sulla preliminare squalifica del senso comune in quanto tale.
Lasciamo il discorso sulla struttura del libro per concentrarsi invece su alcuni concetti. Contro il transumanesimo e cioè di quel regno del genere umano fatto di individui atomizzati che sta nel
nocciolo del capitalismo. Realtà (?) che poi si scontra anche con il buon senso. Come concepire un mondo abitato da miliardi di esseri più che umani, semi immortali che si riproducono, si moltiplicano esponenzialmente e che estraggono da un pianeta finito infinite risorse e materie prime per alimentare il flusso alimentare e quello delle protesi. Se questa possibilità esiste avrebbe un’altra dimensione quotidiana quella proposta non a caso da film come “Gattaca” e “In Time” che vede come certe tecnologie sarebbero esclusive di una piccola fetta di umanità con l’altra costretta a vivere una vita forse peggiore delle peggiori situazioni che si riscontrano oggi sul pianeta. Siamo di nuovo alle “gated society”, questa volta popolate da cyborg con fuori dalle mura un’umanità di zombie.
Dall’altra parte l’ipotesi contro anche ogni affermazione e analisi dogmatica che una società socialista «potrebbe – fosse anche solo per ragioni ecologiste o di qualità del valore d’uso – avere da mantenere e incoraggiare certe forme di piccola agricoltura contadina» (p. 139) non colpisce i nostri soloni di un qualche marxismo, come invece avrebbe colpito Marx durante le ultime analisi a lui attribuite, dove smentisce una sua probabile tendenza a propendere per un socialismo dall’alto, ovvero gestito da una forte classe dirigente. Il capitalismo è un sistema automatico (Robert Kurz) che ha il solo scopo di massimizzazione dei profitti questo avviene perché se lo sfruttamento originario verteva sulla capacità del capitale di aggiudicarsi il prodotto del plus lavoro, questo avveniva nei termini di una coercizione diretta e non economica, adesso si manifesta innanzitutto sotto forma di imperativi economici. Ne deriva che il capitalismo attuale ha meno bisogno di apparati di coercizione di quelli che un latifondista aveva nei confronti dei contadini che altrimenti avrebbero avuto libero accesso alle terre. Oggi i lavoratori salariati sono costretti a vendere la loro forza lavoro perché è l’unico modo che hanno per poter accedere ai mezzi necessari per la propria sussistenza.
Michéa usa molto spesso Marx contro i marxisti. Ma non disdegna di recuperare alcuni rivali di Marx quali i rappresentati del socialismo originario e dell’anarchismo quali Proudhon e Orwell e di quest’ultimo ama in particolare la sua attenzione per le culture popolari che la “modernità” (capitalista) ha travolto: «Rinunciate a usare le vostre mani e avrete perduto di colpo gran parte della vostra personalità» (Orwell in Storia di Wigan Pier) Oppure quello usato nel risvolto di copertina nel quale il “vecchio mondo” «non era fatto soltanto di guerra, nazionalismo e religione, ma anche di professori di greco, poeti e cavalli».
È contro la metodica critica di quella pseudo sinistra individuabile nella classe politica del socialismo delle buone maniere, con i piedi per terra che pondera e media con le “esigenze” del mercato, che Michéa si scaglia, evidenziando come di fronte alla prossima crisi finanziaria, e non occorre essere un indovino per pensare che possa avvenire, si avrà che rispetto all’equilibrato sostegno che questi avranno manifestato nella moneta unica europea, «le regioni del pianeta che avranno già saputo appoggiarsi su un sistema di monete locali complementari ( con tutto ciò che tale scelta presuppone come strutture di aiuto reciproco e di solidarietà) saranno per forza di cose molto più in grado di limitare i fenomeni di reazione a catena e di attenuare quindi alcuni degli effetti più devastanti della crisi» (p. 177).
Jean-Claude Michéa, Il nostro comune nemico – Considerazioni sulla fine dei giorni tranquilli, Neri Pozza, Vicenza 2018, pagine 256, € 18.00
*Gilberto Pierazzuoli
* Il titolo di questo articolo è la traduzione letterale dell’originale francese
Gilberto Pierazzuoli
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