Il titolo originale è: “Où atterir?” che tradotto letteralmente sarebbe: dove atterrare? Tutto questo perché Latour propone un paradigma totalmente nuovo attraverso il quale orientarsi e prendere posizione politica, o anche, semplicemente, “tracciare la rotta” per darsi una visione che renda conto di tutta una serie di fenomeni economici, biologici, fisici e sociologici per divenire quindi terrestri (o forse ritornare a esserlo), abitanti consapevoli su un pianeta pacificato. In quarta di copertina viene usata l’immagine di chi si sente mancare la terra sotto i piedi e che desidera allora atterrare. E questo disorientamento, questa angoscia da perdita, ruota intorno a tutte quelle tematiche ambientali che testimoniano una crisi la cui soluzione non è più procrastinabile e che fa dire all’autore che siamo entrati in un Nuovo Regime Climatico accompagnato dalla crescita delle diseguaglianze e da una crisi migratoria globale. Questa operazione questa nuova cartografia sostituisce secondo Latour diverse vecchie coordinate tra le quali ad esempio quella di destra e quella di sinistra, mettendone in discussione altre come il concetto di progresso (inteso come un vettore unidirezionale che ne misura la crescita) legato a doppio filo a quello della modernità che sarebbe poi l’epoca nella quale, per mezzo del progresso, l’umanità tutta starebbe migliorando continuamente la qualità della propria vita. Mito questo, che aveva fatto presa anche negli ambienti di sinistra. Tutto ciò deriva dall’atteggiamento che le forze più attente alle questioni sociali avevano con la natura, vista come un fattore esterno, senza accorgersi che anche gli esseri non umani partecipino in qualche modo alla vita biologica e sociale. Una miopia che consisteva nel non prendere atto della crisi climatica e degli aspetti connessi.
In questa nuova cartografia, che cercherò di semplificare, ci sono alcuni nodi di tendenza che Latour chiama attrattori. Abbiamo così il globale e il locale che intersecano il vettore che illustra la tendenza di un punto di vista esterno che viene adesso attratto verso terra. Ma si capirà meglio più tardi. L’idea di una globalizzazione che veniva intesa anche come crescita senza limiti che avrebbe portato, anche se non nell’immediato, benessere per tutti, viene inficiata dall’irruzione delle problematiche ambientali e dall’esaurirsi di alcune risorse, provocando una sterzata dell’asse del tempo che non andrà più dal locale al globale, ma dal locale al terrestre (termine inventato da Latour) facendo crollare anche l’interesse di un punto di vista che osservi dall’esterno il pianeta.
Ma locale e terrestre sono troppo spazialmente vicini anche se semioticamente lontani. Il terrestre era caratterizzato dal fatto che, nel momento in cui affermavo di appartenere a un territorio, poteva significare che in qualche modo occupassi quel territorio, adesso – con l’irruzione della agenzialità della terra – significa che io sono subordinato alla terra e non che io ne sono in possesso. Mentre il localismo corrispondeva alla richiesta di un riparo, da cui il bisogno di dare un senso di protezione senza costruzioni identitarie e difesa delle frontiere, per ritrovare un suolo inappropriabile, al quale si appartiene, ma che non appartiene a nessuno. «È lo sradicamento a essere illegittimo, non l’appartenenza» (p. 71). Secondo Latour il mito del progresso sotteso alla componete politica progressista ha stravolto e classificato al negativo tutte le tensioni legate alla appartenenza facendola diventare poi un contenitore che fa riferimento all’omogeneità etnica, alla patrimonializzazione, alla nostalgia gratuita e all’autenticità, tutte cose che indicano un convergere su se stessi, un chiudersi agli altri, mentre invece vivere semplicemente sulla terra, su una terra, non richiamerebbero. La globalizzazione non dà accesso al globo-mondo, «Il fatto è che il Terrestre dipende dalla terra e dal suolo ma è anche mondiale, nel senso che non si inquadra in alcuna frontiera, che va al di là di ogni identità» (p. 72). Latour sa perfettamente che il disastro ambientale non è attribuibile in egual misura a tutti gli appartenenti alla specie umana, che l’attuale epoca umana è quella caratterizzata da un modo di produzione capitalista al quale addossare anche le colpe ambientali. Latour certamente riconosce che l’epoca attuale non è l’antropocene, ma il capitalocene, ma – proprio per questo – gli attrezzi politici attraverso i quali abbiamo cercato di interpretare le tensioni sociali e storiche, sono da adeguare a questa nuova situazione. Forse non sono sbagliati, ma non sono semplicemente adeguati. Certo affermare che destra e sinistra non ci sono più, non valgono più, sono parole che si ascoltano con una certa attenzione, che fanno rizzare le orecchie. D’altronde tutta la prima parte del saggio è incentrata sull’emergenza di nuove figure negazioniste (rispetto alla crisi ambientale) che si tirano fuori da ogni presa di coscienza sulla salute del pianeta, mettendosi dalla parte di Trump, che dice che l’american way of life non è in nessun modo negoziabile. E non è poi così sbagliato, anche se si usano le vecchie categorie, dire che Trump e il trumpismo sono fenomeni profondamente di destra.
Ma l’inappropriatezza della comunicazione, se non la separatezza stessa, tra l’ambito del sociale e quello ambientale, sono convinzioni di lungo corso. Latour parla di un cliché che così spiega: «non c’è da scegliere tra il salario degli operai e la sorte degli uccellini, ma tra due tipi di mondo in cui ci sono, in entrambi i casi, sia i salari degli operai sia gli uccellini, ma diversamente congiunti» (p. 76). La lotta di classe dipende da una geo-logia, nel senso che una logica geo non manda alle ortiche un secolo e mezzo di analisi marxiste, ma ci obbliga a «riprendere la questione sociale potenziandola» (p. 83) attraverso un’altra scienza che potremmo chiamare geopolitica. La colpa di tutti questi fraintendimenti tra lotte di classe e conflitti geo-sociali dipende dal ruolo che sia la prima che gli ultimi hanno dato alla “natura”. Latour cita uno slogan zadista: «Noi non difendiamo la natura, noi siamo la natura che si difende» (p. 85).
C’è anche, in questo piccolo manuale di orientamento per questi tempi a-moderni, un pensiero ai modi di fare e di agire del comparto scientifico con il riconoscimento di un debito di pensiero per la capacità di decostruzione di verità pressoché rivelate, da parte dei movimenti delle donne, con Isabelle Stengers e Silvia Federici espressamente citate. Per riscoprire il senso di parole occultate, pensieri, trame occultate/i, sepolti sotto una natura universo che ci aveva privato di parole e concetti che non ci facevano vedere la natura processo. Un mondo popolato di oggetti galileiani, ma anche da agenti lovelockiani, esseri viventi che partecipano pienamente ai processi di generazione delle condizioni chimiche e, anche se solo parzialmente, geologiche del pianeta. Per questo occorre un’analisi non soltanto dei sistemi produttivi, ma anche di quelli generativi.
Ed ecco i modi generativi del Terrestre, qualcosa come i cahiers de doléances che il popolo francese riuscì a mettere insieme tra gennaio e maggio del 1789 dove tutti gli strati sociali riuscirono a descrivere con precisione il loro ambiente di vita, una “geo-grafia” delle lamentele dice Latour. Una lagnanza che ricrea un popolo, nel senso che la lagnanza, il sopruso, non generano soltanto rivolte, ma anche prese di coscienza che sono i prodromi delle rivolte, che sono quindi generativi delle lotte.
Bruno Latour, Tracciare la rotta- Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina, Milano 2018, pagine 144, € 13.00.
*Gilberto Pierazzuoli
Gilberto Pierazzuoli
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