Caso Magherini, storia di una diffida inaccettabile

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Riceviamo da uno Studio legale di Roma, per conto di due carabinieri coinvolti nel caso di Riccardo Magherini, una diffida a rimuovere due articoli pubblicati sulla nostra Rivista a firma di Luca Benci.

Nel primo di questi articoli: Processo Magherini: quale giustizia senza il reato di tortura, pubblicato il 9 febbraio 2015, commentavamo il rinvio a giudizio e l’imminente celebrazione del processo di primo grado lamentando le difficoltà di istruire un processo per omicidio colposo: e i fatti ci hanno dato ragione.

Andrea Magherini mostra un’immagine del fratello Riccardo, ucciso durante il controllo dei Carabinieri

Auspicavamo l’introduzione, anche in Italia, del reato di tortura – approvato due anni e mezzo dopo con l’articolo 613 bis del codice penale – che, sin da allora, avrebbe consentito di sanzionare alcuni comportamenti delittuosi (i calci in faccia a persona immobilizzata e privata della libertà personale) indipendentemente dalla consapevolezza degli agenti delle conseguenze dannose che essi possono provocare ed hanno provocato (cioè l’elemento psicologico del reato ed il nesso causale).

Il Tribunale, prima e la Corte di Appello di Firenze, dopo, hanno comunque condannato per omicidio colposo i carabinieri, riconoscendo che il loro comportamento – la trascuranza delle conseguenze della protrazione dell’immobilizzazione di Riccardo Magherini – è stato una delle concause della sua morte.

La Corte di Cassazione, invece, ha assolto i carabinieri, ritenendo che fosse mancato l’elemento psicologico del reato. Ma, al contrario di quanto viene affermato nella diffida dello Studio legale di Roma, la Cassazione non ha “escluso la responsabilità degli Agenti”, visto che ha precisato che la sentenza di condanna della Corte di Appello di Firenze non presentava “vizi di legittimità in relazione al percorso motivazionale relativo alla sussistenza del nesso di causalità tra il protrarsi della posizione supina in cui il Magherini è stato tenuto e l’evento successivamente realizzato (la morte ndr), quanto meno in termini di accresciuta difficoltà di un successivo intervento terapeutico salvifico” (pag. 51).

Quello che la Cassazione ha invece accertato è che sarebbe mancato “l’elemento psicologico del reato”, cioè la colpa (tecnicamente: la negligenza, l’imperizia e l’imprudenza ovvero l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline) sul presupposto che i carabinieri non avrebbero potuto essere in grado di valutare che la protrazione della immobilizzazione da loro operata (a-tecnicamente: continuare a tenere in posizione prona una persona ammanettata) potesse portare alla morte nonostante quella persona avesse smesso di urlare e agitarsi già da qualche minuto.

Più semplicemente: i giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto che i carabinieri avessero la competenza per accorgersi di quanto stava accadendo (cioè che Riccardo Magherini stesse morendo); i giudici di legittimità invece no. Hanno ritenuto, cioè, che solo all’esito di uno specifico corso di formazione (che è stato introdotto nei mesi successivi) avrebbero potuto avere contezza delle possibili conseguenze del loro operato.

Noi abbiamo dato conto di questo percorso motivazionale criticandolo, come nostro diritto, in quanto riteniamo che la professionalità delle forze dell’ordine – a cui lo Stato demanda l’uso legittimo della forza fisica – doverosamente impedisca loro di utilizzare la forza in danno ai cittadini fino a essere causa – e, in questo caso, concausa – della morte.

Ecco allora il nostro titolo: Magherini è morto nel mese sbagliato del 3 dicembre 2018.

Perché, a seguire il ragionamento della Cassazione, dopo aver frequentato il corso di formazione di “postuma” introduzione, ai carabinieri sarebbe stata contestata la sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

L’unico elemento che abbiamo stigmatizzato – e lo ribadiamo – è la nostra preoccupazione su certa “cultura” che talvolta è presente nelle forze dell’ordine. Sui social, uno dei carabinieri coinvolti, si presentava come “pistolero”, pubblicando foto inneggianti a Mussolini e rilanciando post del movimento neofascista di Forza Nuova (immagini a tutt’oggi reperibili in Rete).

Riteniamo che chi giura – come i carabinieri – di “essere fedele alla Repubblica italiana, di osservarne la Costituzione e le leggi e di adempiere con disciplina e onore” il proprio servizio debba impegnarsi coerentemente.

Il nostro richiamo ai valori della Costituzione repubblicana e all’antifascismo non può che essere rinnovato.

Lo Studio legale di Roma, per conto di due dei carabinieri coinvolti, ci chiede di rettificare e/o rimuovere i due articoli che hanno, a loro dire, contenuto diffamatorio senza però indicare quali siano i contenuti stessi. Ci diffidano inoltre dal “proseguire” nell’attività diffamatoria, anche in questo caso senza specificare altro. Qui trovate la loro diffida, fatevi una vostra opinione leggendola.

Abbiamo dato conto dei fatti e non abbiamo nei nostri articoli diffamato alcuno.

Per questo riteniamo inaccettabile un intervento un intervento censorio nei confronti della nostra Rivista che non possiamo che respingere.

La Città invisibile

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