Alla fine è arrivato il “giorno X”: il 9 ottobre il presidente turco Erdogan ha ordinato l’attacco militare contro il kurdistan siriano. In poche ore sono stati bombardati circa 180 obiettivi nelle città di confine. Bombardamenti che non hanno risparmiato i civili.
Poco dopo sono iniziate le operazioni via terra, con le forze del Free Syrian Army (l’autoproclamato Esercito libero siriano, appoggiato dalla Turchia) fatte passare dal territorio turco e mandate in prima linea contro le forze filo-curde delle SDF. Queste milizie filo-turche sono note per avere tra le proprie fila combattenti (o interi gruppi) jihadisti, in precedenza appartenenti allo Stato Islamico e simili.
In una gran confusione le truppe americane si sono ritirate, seguite a stretto giro dalle forze speciali inglesi.
In pochi giorni, nonostante una durissima resistenza, le milizie filo-turche hanno conquistato decine di villaggi e anche alcune città importanti come Girê Spî (nota come Tell Abyad in arabo) e Suluk. Anche la città di Sari Kani (Ras al Ayn) è stata occupata ma poi riconquistata dai curdi.
L’obiettivo Turco è quello di conquistare una striscia di circa 30 chilometri lungo tutto il confine ed in parte è stato raggiunto: in più punti le forze filo-turche hanno raggiunto la strada M4 che collega la città di Qamislo (Al-Qāmishlī) alla città di Manbij e che rappresenta più o meno la linea dei 30 chilometri (al momento i turchi controllano circa 50 chilometri di questa strada). Proprio sulla M4 è stata fermata e barbaramente uccisa Hevrin Khalaf, attivista curda e segretaria del Partito per il futuro della Siria, insieme agli uomini della scorta.
In più occasioni inoltre le operazioni turche hanno preso di mira i campi di prigionia dove i curdi tengono gli ex combattenti dello Stato Islamico, facilitando la fuga di centinaia di miliziani (solo da uno di questi campi sono fuggite quasi 800 persone). Non è un caso: esistono numerose prove del sostegno della Turchia allo Stato Islamico (armi, soldi, addestramento, protezione nei propri confini). Ed infatti quasi simultaneamente all’attacco turco, molte cellule dormienti dello Stato Islamico hanno lanciato attacchi nelle città amministrate dai curdi (soprattutto a Raqqa, l’ex capitale dello Stato Islamico, ci sono stati pesanti scontri).
Importante sottolineare come tutto il dissenso interno alla Turchia sia stato messo a tacere con decine di arresti che non hanno risparmiato neanche i sindaci nelle province di Hakkari, Yuksekova, Ercis e Nusaybin. Molti degli arrestati erano “colpevoli” di aver criticato la guerra con un post su Facebook.
Decine di migliaia di civili si sono messi in fuga con qualsiasi mezzo a disposizione, portando con sé il minimo indispensabile, per fuggire ai combattimenti e cercare la salvezza. Alcune stime parlano di 130 mila persone, dato ancora più allarmante se si pensa che in Siria ci sono già 5,6 milioni di rifugiati e 6,2 milioni di sfollati secondo i dati delle Nazioni Unite.
In questa situazione l’amministrazione del Rojava è dovuta scendere a patti con il presidente siriano Bashar al-Assad ed i russi: «Se dobbiamo scegliere tra il genocidio della nostra gente e il compromesso, scegliamo la vita della nostra gente» ha dichiarato il comandante curdo Mazloum Abdi.
E così in poche ore migliaia di soldati arabi dell’esercito siriano sono stati lasciati passare ed hanno preso il controllo di lunghi tratti di confine, oltre che mandare rinforzi in diverse città (Manbij,Tall Rifat, Qamislo, Al Hasakah). In particolare nella zona di Manbij l’esercito di Assad si è già scontrato con le milizie filo-turche.
È evidente come questa mossa indebolisca la posizione dell’amministrazione autonoma del Rojava che d’ora in poi, se dovrà trattare con il governo di Assad, lo dovrà fare con i suoi soldati in casa. Ma di fronte all’invasione turca e alla vergognosa ritirata statunitense non si capisce quali fossero le alternative.
Contro la guerra della Turchia la reazione in giro per il mondo è stata immediata e spontanea: in centinaia di città sono stati organizzati presidii, manifestazioni, blocchi del traffico e in alcune città anche aeroporti (in Italia per esempio è accaduto a Napoli). A Firenze, tra il 9 ottobre e il 13 ci sono state tre manifestazioni molto partecipate e un gruppo di studenti ha bloccato provvisoriamente gli ingressi degli Uffizi.
Di fronte a questo inaspettata risposta di piazza, molti governi europei hanno dichiarato il blocco immediato alla vendita di armi alla Turchia. Parliamo di paesi importanti come la Francia e la Germania, oltre che Olanda, Norvegia e Finlandia. L’Italia, uno dei principali fornitori di armi alla Turchia, ha temporeggiato a lungo, con Di Maio che rilasciava dichiarazioni (“chiederemo all’UE di bloccare la vendita di armi”) mentre gli altri già avevano provveduto per conto proprio. Notizia di ieri però farebbe credere che infine anche il nostro governo abbia ceduto a una delle principali richieste delle piazze.
Da parte loro, gli USA hanno piuttosto puntato su sanzioni economiche (gli USA sono il principale fornitore di armi della Turchia che, non dimentichiamocelo, è il secondo esercito più grande della NATO).
Con l’ingresso in campo di al Assad (e quindi della Russia sua alleata) lo scenario torna improvvisamente incerto. Magari si riuscirà a fermare o addirittura respingere l’avanzata turca ma i curdi ne usciranno probabilmente indeboliti e con un nuovo esercito in casa. Per questo molti ritengono fondamentale continuare a sostenere i curdi in questo momento, coloro che hanno sconfitto lo Stato Islamico: abbandonarli sarebbe un tradimento imperdonabile. Sono già previste numerose altre date, come il corteo regionale toscano di questo sabato (19 ottobre) o i cortei di respiro nazionale a Milano (26 ottobre) e Roma (1 novembre).
Thomas Maerten