Si moltiplicano in questi giorni gli studi sulle correlazioni assai probabili tra la pandemia in atto e i disastri legati alla crisi ambientale: l’incremento di entropia in atmosfera, dovuto agli inquinamenti prodotti dalle attività umane, comporta ulteriori accelerazioni dei fenomeni degenerativi in atto.
Si richiamano gli scenari previsti, da almeno un quarantennio, da filoni di ricercatori, come gli studiosi allora riuniti attorno a Giulio Maccaccaro, il fondatore di “Medicina democratica” , sulle interazioni tra gravi crisi epidemiologiche e grandi alterazioni inquinanti: smog che ammorba per mesi interi grandi regioni, cementificazione con consumo abnorme di suolo e distruzione degli ecosistemi urbani, deforestazioni con perdita di ecosistemi sempre più grandi; impedimenti e costrizioni alla zoocenosi, perdita di biodiversità, fino alla “morte dell’organismo territorio”, che tende a perdere la sua parte biotica.
Alla fine della prima Repubblica, una trentina d’anni fa, con la crisi del modello economico urbano-industriale italiano degli anni sessanta e settanta, il buon senso – prima che la politica di piano – reclamava drastiche riconversioni ecologiche, basate innanzitutto sulle regole ambientali dei territori.
Viceversa si è puntato ancora su programmi ad alto impatto ambientale e paesaggistico: se l’industria implodeva, si realizzavano nuove cascate di cemento per attrezzature, servizi, residenze. Si rilanciava – invece di bloccare e riqualificare – la “città diffusa”.
Con la denuncia di “una carenza di infrastrutture che blocca il Paese” (stessi slogan dell’immediato dopoguerra), ecco i nuovi progetti, con liste enormi di opere, fuori da ogni pianificazione: quegli anni venivano allegramente marcati dagli ormai inutili “Piani Autostrade” e per altri tipi di megastrutture; e finalmente l’Alta Velocità ferroviaria. Che sanciva tra l’altro la politica delle “Grandi Opere”, con la Legge Obiettivo del 2001 del governo di destra guidato da Silvio Berlusconi. Di recente definita “criminogena”: l’apoteosi della degenerazione finanziario-speculativa di economia, politica e informazione.
Tale programma straordinario di grandi lavori ha costituito in realtà una formidabile fonte di spesa e sprechi, diventando un enorme strumento di trasferimento di risorse pubbliche al capitale privato. Il regime di “emergenza e straordinarietà” affidava di fatto le scelte di fase esecutiva al blocco “concessionario – contraente generale (imprese)” che coglieva che era possibile convogliare presto sul progetto grandi flussi di risorse.
Si trascuravano sovente istanze tecniche fondamentali: molti progetti non avevano nemmeno fattibilità certa, la valutazione ambientale era un problema e si taroccava o si ometteva, qualsiasi razionalità economico-programmatica era ridicolizzata.
Ma, allorché si doveva effettivamente realizzare l’opera, i problemi tecnici occultati riemergevano e si trasformavano in blocchi, spesso stop definitivi. I flussi di denaro ingenti si interrompevano, le imprese spesso fallivano. Il meccanismo era tale per cui le finanze private venivano sempre garantite prima delle condizioni di crisi; dal pubblico che pagava per tutto questo.
Molte inchieste giudiziarie hanno illustrato questo sistema. Che ha disseminando sul territorio nazionale centinaia di cantieri sospesi o addirittura mai avviati, con ulteriore distruzione di ecosistemi, degrado ambientale e consumo di suolo. Appare chiaro che il meccanismo si inceppava per la ferma intenzione di massimizzare i flussi finanziari, a scapito della risoluzione reale dei problemi; invece si attribuiscono blocchi e fallimenti “agli ambientalisti, ai comitati, all’odiosa burocrazia”.
Oggi l’urgenza è rappresentata dalla chiusura definitiva di tutto questo; per una svolta ambientale autentica. Reali inversioni di tendenza possono scaturire da un radicale cambio di registro decisionale: sostegni forti agli accordi globali di contenimento dei grandi inquinamenti, e riconversione tecnologica ed ecologica di filiere e produzioni.
Basate sulle caratteristiche ambientali e culturali dei contesti del Belpaese, con applicazioni dei piani paesaggistici non solo in funzione di tutela, ma per la riqualificazione dei territori; e quindi sugli “statuti dei luoghi” e sulle “regole ambientali” locali.
Si sono già avviati anche nel nostro Paese migliaia di progetti di riqualificazione paesistica ed economia verde che muovono dal “basso”, dagli abitanti e produttori locali organizzati. Scienza e ricerca guardano molto a tali innovazioni: per esempio, la “Società dei Territorialisti”, urbanisti e studiosi assai attenti ai valori dei luoghi, organizza periodicamente incontri in cui si offre spazio, voce e supporto scientifico ad azioni di questo tipo; che si battono per bloccare il degrado e formulare visioni di sostenibilità sociale e ambientale dei contesti, investendo e rifertilizzando in tale logica anche la politica istituzionale.
Alberto Ziparo
(Articolo apparso sul Fatto Quotidiano del 18 maggio 2020)