I lampioni nei parchi sono un bene da tutelare.
Molti sono centenari, di ghisa, adorni di volute, foglie d’acanto, bacche e grifi, con lampade a lanterna o a globo. Altri, semplicemente funzionali, ben riusciti se passano inosservati: non si dovrebbe vedere il palo, ma solo la luce.
Quando si gira nei parchi, l’unico segno visibile di umana presenza a un occhio distratto sono lampioni e panchine, tutto il resto (alberi arbusti pietre sentieri) finge di essere naturale.
I lumi vengono posizionati a distanze regolari tra alberi posti a distanze ugualmente calibrate, oppure addossati al margine di un laghetto o di un canale, a specchiarcisi dentro.
Ci sono due filosofie da seguire, antitetiche: quella che vuole il lampione al servizio del paesaggio e quello che lo considera un sistema di controllo.
E’ al servizio del paesaggio quando è un po’ fioco, esalta la rifrazione cerea del fogliame senza sovrapporre la sua luce a quella del sole morente o della luna; è strumento di controllo quando piove sulle panchine e sui viottoli come la lampada del commissario.
Certamente anche i vecchi lampioni, meno invadenti, avevano una funzione di regolazione e controllo: il flaneur si sentiva libero ma doveva seguire il percorso tracciato dai lumi, nessun dandy era tanto autodistruttivo da allontanarsi da quelle molliche di luce nelle sue passeggiate, poteva al massimo andare contromano…
Gli ultimi lampioni però hanno una luce diversa, da faro che insegue l’evaso, perfettamente in linea con la gendarmizzazione del mondo, il famoso reset di cui tutti parlano.
Tesi e antitesi
In attesa di una sintesi originale, segnalo i lumini rasoterra che illuminano i parchi delle ville private. Certamente la luce che sale dal basso ha un aspetto sinistro (i nazisti la amavano e nel cinema si associa alle potenze infernali), ma è un’alternativa alla luce che piove dall’alto come se fosse l’occhio che tutto vede e da cui non mi interessa essere spiato.
*Massimo De Micco
Massimo De Micco
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