Caso Gkn ed economia finanziaria, la parola a un giovane economista

Intervista a Lorenzo Tondi dottorando in economia presso l’Université catholique de Louvain (Belgio), lavora come economista nella PA italiana, è delegato FP CGIL e militante di Potere al Popolo Roma.

La prima domanda che tutti noi, poco esperti di economia, ci poniamo è: che differenza c’è fra economia reale e finanziaria?

L’economia reale è quella parte dell’economia dedita alla produzione di beni e servizi tramite la combinazione dei cosiddetti fattori produttivi: la terra, il capitale e il lavoro. Questi mezzi di produzione vengono utilizzati congiuntamente secondo una determinata “tecnologia di produzione”, che li trasforma in un bene intermedio (che verrà poi usato per produrre altri beni, ad esempio il cemento) o finale (cioè pronto per essere consumato, ad esempio il pane). L’economia finanziaria, invece, è quel settore dell’economia dedicato all’intermediazione e allo scambio del capitale, sotto varie forme: capitale sotto forma di liquidità (il mercato delle valute), capitale prestato a terzi (il mercato delle obbligazioni e dei prestiti bancari), capitale investito (il mercato azionario e dei fondi di investimento) e capitale spostato nel tempo (il mercato assicurativo e previdenziale).

Qual è, se c’è, il trait d’union fra profitto nell’economia “reale” e profitto finanziario?

Per comprendere la relazione tra profitti dell’economia reale e profitti finanziari è utile concentrarci sui rapporti di forza tra l’economia reale e quella finanziaria, che riflettono i rapporti di forza tra capitale e lavoro. La finanziarizzazione dell’economia altro non è che il risultato della controffensiva dei capitalisti che, a partire dagli anni ’70, hanno recuperato gran parte della libertà d’azione persa a partire dal secondo dopoguerra. Questa libertà d’azione consiste, fondamentalmente, nella completa libertà di circolazione del capitale. Dal momento che il capitale può circolare liberamente, è molto più facile spostarlo da un’azienda all’altra, da un settore industriale all’altro, da un Paese all’altro. Teniamo presente che la terra, per ovvie ragioni, non può spostarsi; anche la mobilità del lavoro è molto limitata: un lavoratore non può vendere facilmente la sua forza-lavoro in tutto il mondo, per diversi motivi: vi sono barriere linguistiche, culturali, economiche, legali molto forti. Se invece si garantisce al capitale piena libertà di movimento, questo potrà essere impiegato nel Paese dove le “condizioni produttive” saranno più convenienti, cioè dove i salari saranno più bassi, la terra costerà meno, il diritto del lavoro sarà più permissivo. è come se il capitale si trovasse di fronte tanti piccoli mondi, con livelli dei salari diversi, regolamentazioni diverse, in definitiva sistemi produttivi diversi. Per circa 30 anni le “frontiere economiche” di questi mondi sono state protette, ma dagli anni ’70 gli industriali le hanno progressivamente abbattute ed ora possono spostare i capitali nei mondi che di volta in volta gli convengono di più. Questo ha provocato due fenomeni: il primo è il drastico impoverimento dei lavoratori, che ricevono una fetta sempre più piccola del reddito prodotto nelle aziende, il secondo è il graduale scollamento tra l’ottenimento del profitto e la relativa attività produttiva, cioè i proprietari sono sempre meno interessati alle questioni relative al processo produttivo e sempre più concentrati sulla rincorsa del profitto.

Da qualche tempo, le multinazionali stanno dando la caccia a terreni agricoli di pregio, come possiamo avere in Italia, per aumentare la quotazione sul mercato finanziario. Il rischio concreto è che si disinteressino completamente della coltivazione reale, perdendo così forza lavoro e lasciando nell’abbandono terre preziose. Come fa tutto ciò a diventare profitto?

Il controllo di risorse preziose e limitate diventa profitto proprio in virtù della classica legge della domanda e dell’offerta. L’obbiettivo dei capitalisti, che è la massimizzazione del profitto, viene raggiunto più facilmente in un mercato oligopolistico o monopolistico, cioè un mercato nel quale pochi produttori (o uno solo, nel caso del monopolio) controllano l’offerta di quel bene. Si tratta di una dinamica ben nota e tutt’altro che nuova: nel 1973 la cosiddetta crisi petrolifera fu determinata dalla decisione dell’OPEC (l’organizzazione che rappresenta alcuni Paesi tra i maggiori produttori di petrolio) di diminuire la quantità di petrolio offerta sul mercato. Negli anni più recenti si sta intensificando la caccia alle “terre rare”, cioè ai giacimenti di alcuni metalli rari (ad esempio litio, cobalto, platino) utilizzati in grandi quantità per la produzione di batterie ed altre componenti. In entrambi i casi i capitalisti si impossessano di una risorsa scarsa e molto richiesta sul mercato e ne diminuiscono la disponibilità, di fatto è come se la vendessero “col contagocce”: quando un produttore controlla tutta l’offerta di un bene molto importante per l’economia, ne controlla anche il prezzo; il meccanismo tramite il quale il produttore fa alzare il prezzo è proprio la limitazione della produzione. Ecco dunque che, per massimizzare il profitto, il capitalista che detiene il monopolio di un bene ne limita la produzione e quindi di fatto “crea” miseria, decide coscientemente di limitare la diffusione di quel bene.

Per quanto riguarda l’economia come finora pensata, una delle leggi fondamentali per ricavare profitto da parte dei proprietari dei mezzi di produzione era quello di aumentare la produttività diminuendo nel contempo il costo del lavoro. Tutto ciò rispondeva tutto sommato alla legge della domanda-offerta. Nell’ambito finanziario abbiamo capito che tutto ciò non funziona. Quali sono le nuove leggi che comandano la finanza?

Come abbiamo visto poco fa, nel capitalismo finanziario i capitalisti sono liberi di spostare i capitali nei Paesi dove vi sono le condizioni produttive ad essi più favorevoli. Nel caso di GKN, l’azienda ha giustificato i licenziamenti improvvisi con un calo del fatturato, ma i dati a nostra disposizione ci dicono che nei primi mesi del 2021 fatturato ed utile sono in rapida ripresa rispetto al 2020. La decisione di chiudere lo stabilimento non è quindi dovuta ad alcuna crisi aziendale, casomai è l’obbiettivo stesso dei proprietari: GKN, infatti, dal 2018 è posseduta da Melrose Industries, un fondo finanziario specializzato in sostanza nella compravendita di aziende. Questi fondi sono imprese che comprano altre imprese con l’esclusivo obbiettivo di rivenderle ad un prezzo più alto, senza curarsi del loro destino: molto spesso, dopo aver comprato una determinata azienda, la dividono in tanti pezzetti e li vendono ad altre multinazionali, in modo da massimizzare i guadagni ottenibili. Melrose non è nuova a questo tipo di operazioni: nel 2005 comprò McKechnie, una società di ingegneria, due anni dopo vendette due rami d’azienda e nel 2012 ne vendette un altro. Lo scopo di fondi come Melrose, quindi, non è svolgere un’attività produttiva, ma smembrare aziende esistenti per rivenderne i pezzi ai concorrenti e favorire così la progressiva concentrazione dei settori nelle mani di poche imprese.

Il caso di GKN è eclatante per l’inedita violenza della condotta dell’azienda e perché mette in luce la malafede della politica, che ha voluto l’accordo sui licenziamenti ed ora deve renderne conto ai lavoratori che, come da programma, sono stati effettivamente licenziati. La firma dell’accordo con Confindustria sui licenziamenti a mio avviso è stato un errore dei sindacati e dovrebbe spingerli a capire che la strategia della concertazione non serve a nulla e che è necessario un atteggiamento più conflittuale. Allo stesso tempo, però, è importante avere ben presente che il caso GKN è solo uno dei tanti episodi di crisi aziendali generate dal regime di libera circolazione dei capitali attualmente esistente. Per renderci conto di quanto il mondo di oggi sia diverso dall’economia mista dei 30 anni successivi al secondo dopoguerra è utile ricordare il caso della Pignone. Nell’autunno del 1953, La Pignone di Firenze, che era stata rilevata dalla Snia Viscosa nel 1946, annuncia circa 1800 licenziamenti adducendo problemi di competitività e fatturato in calo. Si trattava di un’azienda molto importante per il tessuto produttivo fiorentino, a maggior ragione in anni molto difficili per la popolazione. La politica reagisce in maniera decisa, in particolare Amintore Fanfani, allora Ministro dell’Interno, convince Enrico Mattei, alla guida dell’Eni, a “salvare” la Pignone costituendo una nuova azienda in compartecipazione con la Snia Viscosa e garantendo così la continuità produttività e il mantenimento dei livelli occupazionali della fabbrica.

La lezione della Pignone è più che mai attuale, perché ci dice due cose: innanzitutto che persino la DC di quei tempi era molto più a sinistra del PD di oggi; in secondo luogo, che il problema delle delocalizzazioni e delle chiusure aziendali improvvise va contrastato attraverso l’imposizione di limiti alla libertà di circolazione dei capitali.