Pensare in tempo di sventura – Introduzione

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Con il gentile permesso della casa editrice pubblichiamo l’introduzione al libro di Viola Garofano, Pensare in tempo di sventura. Saggio sulla filosofia di Simone Weil, Orthotes, Napoli-Salerno, 2021, pp. 166, € 17.00

Ogni crisi profonda, di primo acchito, ci paralizza. Dinanzi all’odierna crisi ambientale, della cui gravità avvertiamo sempre più e sempre più spesso i segnali, non possiamo che riflettere, maledire l’ottusità di una gestione predatoria e incosciente delle risorse naturali, disperarci della nostra incapacità di prevedere l’irreversibilità della nostra azione collettiva e la portata delle sue conseguenze. Siamo messi di fronte alla cecità di un’irrazionale fiducia in un progresso illimitato, all’infrangersi dell’illusione che i processi che abbiamo innescato avrebbero dovuto autoregolarsi e armonizzarsi tra loro e con l’ambiente. Similmente la trasformazione della sfera del lavoro in ambito della mera produzione, in campo dell’alienazione assoluta e dello sfruttamento illimitato – in cui non è garantita alcuna sopravvivenza, né materiale né esistenziale –, rischia di annichilirci, di negarci il bisogno, propriamente umano, di appropriarci col pensiero dei luoghi e degli oggetti fra i quali passiamo la vita. Immaginare il lavoro come realizzazione piena dell’umano, come condivisione delle risorse comuni – «non […] poiché è un mezzo per acquisire ricchezza […], ma […] perché consente di condividere il sapere nel suo evolversi e il know-how di una società» – sembra, oggi più che mai, una chimera. Le nuove forme della guerra, del conflitto e dell’esclusione mettono radicalmente in discussione la possibilità del riconoscimento, a causa di un processo di deumanizzazione che «produce l’effetto» di trasformare l’altro in nemico e «il nemico in una moltitudine subumana […], che può essere soltanto distrutta».

Nella sua riflessione Weil anticipa e analizza queste crisi: davanti alla crisi del pensiero, del lavoro, del rapporto col mondo, con la natura, con l’altro – divenuto estraneo, nemico o, forse peggio, invisibile –, non resta e non può restare, suggerisce l’autrice, solo quel residuo dell’umano prodotto dalla potenza annichilente della forza. È necessario trasformare la passività, il rimpianto, la sensazione che ormai tutto sia perduto, in volontà trasformativa e attivante. Ad ostacolare questa trasformazione è l’illusione, quel che resta di un delirio che ci voleva onnipotenti, signori del mondo e della natura. Arginare la forza – e limitare la condizione di oppressione e annichilimento che essa determina – non consiste nel cercare di aggirare, di ignorare, attraverso sterili fantasie, le resistenze che il mondo ci offre, ma nel penetrarle, nel sentire fino in fondo il limite, la fatica di trasformare il mondo, significa rinunciare consapevolmente al centro, all’illusione dell’onnipotenza. Abbandonata quest’illusione, accolta la sventura nella sua pienezza, senza consolazioni, nella sua chiara verità, il limite perde il suo carattere opprimente, diviene contatto: «quando siamo toccati da ciò che vediamo, ciò che sentiamo o ciò che capiamo, siamo sempre trasportati altrove, a un altro stadio, o in un mondo sociale nel quale non si è più il centro». In questo stadio è possibile scoprire l’altra faccia del confine che non è più solo ciò che ci resiste, ma il punto che segna il passaggio da ciò di cui disponiamo a ciò che è altro, che è, appartiene, all’altro. Questo esterno non è necessariamente estraneo: è il fondo dell’umano, è ciò che è indisponibile, o meglio ciò che, a dispetto di ogni ragion di Stato o ritmo della produttività, deve essere reso indisponibile.

L’attualità e la potenza della riflessione di Simone Weil stanno proprio in questo: nella capacità di ripensare l’esperienza del limite, di risignificare la caduta.

È certamente illuminante la sua analisi del percorso che ha portato alla crisi del moderno, l’indagine sulle ragioni dello sradicamento e del processo di disumanizzazione: raramente ci è stato offerto un ritratto più spietato e più vero di cosa l’essere umano è diventato, di ciò che ha potuto fare all’altro e, di conseguenza, a se stesso. Ma Weil non si limita a fotografare la sua epoca, ad osservare passivamente e malinconicamente la catastrofe, ci invita a ragionare sulla fatica e sull’urgenza di pensare in tempo di sventura, di rispondere alla crisi, di operare una scelta.

Il pensiero, pure se praticato in solitudine, non è distacco, ma apre alla possibilità di comprensione della sofferenza altrui e della relazione: aggirare la trappola dell’opinione, la tentazione dell’essere assorbiti dalla massa indistinta, la seduzione del conformismo e dell’idolatria non significa isolarsi, allontanarsi, ma ricongiungersi autenticamente all’altro. A Londra, ormai in fin di vita, Weil chiederà a uno dei suoi amici: «Quanto tempo al giorno dedichi a pensare?»: solo nell’esercizio quotidiano del pensiero, di un pensiero che non sia pura speculazione, ma movimento rivolto alla trasformazione concreta del mondo, alla salvezza dell’essere umano, ormai quasi del tutto despiritualizzato e trasformato in automa, è possibile provare a trovare una via d’uscita dai mali che affliggono il suo tempo, praticare una forma di resistenza attiva.

Quello di Weil è un tempo tragico: segnato dalle guerre, dai totalitarismi, è un tempo in cui emerge con una chiarezza nuova l’orrore dello sfruttamento in fabbrica, dell’oppressione coloniale, della perdita di relazione con l’altro e dell’abbandono degli ultimi. Eppure, tutto questo dolore, la disfatta, la sventura, sono presentati come una grande, irripetibile e ultima occasione. La modernità non è stata che un’accelerazione continua, un precipitare dell’essere umano nella vertigine della potenza. Questo desiderio e quest’illusione di essere al centro del mondo, di poter progredire e avanzare inarrestabilmente, non si manifesta solo nell’immagine di Hitler che arringa le folle, nelle parate, nella propaganda di regime.

Se Weil fosse vissuta abbastanza da vedere il crollo del nazionalsocialismo e la fine della Seconda Guerra Mondiale, certamente avrebbe messo in guardia i suoi contemporanei: l’aquila imperiale non è che un segno, uno dei segni dell’annichilimento dell’umanità, del suo cedere alla corruzione della forza. I totalitarismi, le guerre, le deportazioni e gli stermini di massa sono solo lo schianto alla fine di una lunga corsa. Sono il segnale più potente della caduta, del “peccato” dell’essere umano che ha dimenticato il suo essere creatura e ha voluto farsi Dio.

Weil, ricostruendo l’albero genealogico della modernità, mostra come, nel susseguirsi delle generazioni, si sia fatto sempre più forte il desiderio di onnipotenza e come questo si sia accompagnato ad un processo di sradicamento: più i rami cercavano di arrivare in alto, di toccare il cielo, più le radici sembravano ritirarsi dalle profondità del suolo e il fusto diveniva instabile. L’attitudine predatoria che ha determinato la sopraffazione del più debole – in fabbrica come nel campo di battaglia –, che lo ha reso trasparente, invisibile agli occhi di chi aveva la facoltà di deliberarne la morte, non è che la risposta al senso di oppressione e di impotenza che l’essere umano sente per tutta la durata della sua corsa verso l’accrescimento, la ricerca di potenza, di affermazione e gloria.

Nel percepire il limite di ciò che è possibile e lecito – limite che non di rado si configura concretamente come la pelle, il corpo stesso dell’altro – l’essere umano si è interrogato solo sulle strategie per tentare di superarlo e aggirarlo. Così la necessità naturale, quel limite fisiologico e morale che serve a segnare un giusto confine, a mantenersi in una posizione di moderazione ed equilibrio, una volta misconosciuta, si è trasformata in forza soffocante, si è cibata del desiderio di onnipotenza dell’essere umano rovesciandoglielo contro in tutta la sua potenza. E più forte è stato il desiderio, più violento si è rivelato il suo ritorcersi, più rovinosa è stata la caduta.

Questa fame, questa voglia di appropriarsi e sopraffare, che rende impossibile la relazione con il prossimo e con la natura – nel senso profondo di tutto ciò che è altro –, diviene più impellente e insaziabile quanto più siamo impotenti. Tanto più siamo isolati, deprivati, sradicati, tanto più rischiamo di essere attratti dal fascino della forza: in questo consiste l’idolatria, nel trasferire in un feticcio – che può assumere le sembianze della Religione, della Nazione, del Partito – quel potere illimitato da cui siamo attratti e di cui non possiamo disporre. Essere parte di queste entità collettive ci dà l’impressione di poter attenuare quel senso di oppressione e sconfitta che sembra determinarsi a partire dal non possesso pieno della forza, dalla frustrazione dell’incontro con il limite. Ma è proprio l’illusione del suo possesso che ci allontana dal mondo, che lo rende estraneo e invivibile. «La nostra anima è separata da ogni realtà da una pellicola di egoismo, […] di illusione»: l’illusione del moderno che ha separato l’essere umano dal reale, dall’altro, da se stesso, è costituita da questo delirio che lo vuole padrone di tutto e lo annienta tramite la forza del suo stesso appetito.

Questo peso che preme sull’essere umano può divenire così gravoso da schiacciarlo, da trasformarlo in cosa, in oggetto tra gli oggetti, da renderlo schiavo dei suoi deliri e dei suoi stessi prodotti – degli strumenti del lavoro in fabbrica, delle armi sul fronte di guerra.

Nella faglia prodotta da questa crisi, Weil riconosce il tempo in cui, svuotato di ogni capacità creativa e trasformativa, l’essere umano rischia di perdere la facoltà di pensiero e, con essa, di azione. Ma riconosce anche, al contempo, la possibilità di superare l’impasse in cui il vecchio muore e il nuovo ancora non può nascere. Questa crisi, l’impatto tragico e doloroso con l’ostacolo, è rivelazione dell’insensatezza, della tragica pericolosità della visione antropocentrica che ha caratterizzato il Moderno.

Circondati dalle macerie della civiltà europea, dinanzi alle disfatte del Secolo Breve – alla tragedia totalitaria, alla delusione per la rivoluzione non realizzata –, rialzarsi non significa dunque, nuovamente, affidarsi alla volontà di potenza, ma spogliarsene, decentrarsi. Spogliarsi per rivestire chi è stato spogliato, per rendere nuovamente visibili gli ultimi, i più deboli, coloro i quali sono stati travolti dalla violenza e dall’ingiustizia, che sono rimasti incompresi e inascoltati nel loro dolore.

Questo decentramento non è soltanto una postura altruistica, ma il fondamento stesso della sopravvivenza comune: nel processo di sradicamento e di disumanizzazione moderno nessuno può dirsi veramente in salvo. Il destino dei vincitori e dei vinti è intimamente e indissolubilmente collegato perché il riconoscimento, che ci fa restare umani, non può che essere reciproco; «il nostro peccato consiste nel volere essere, e il nostro castigo è credere di essere. L’espiazione sta nel non voler più essere; e la salvezza per noi consiste nel vedere che non siamo».

Nell’educarsi all’accettazione del limite – alla sconfitta della patria, alla debolezza e agli errori, alla sofferenza del proprio corpo spossato dal lavoro e sempre esposto al pericolo e alla malattia – sta la sfida e la fatica del pensiero. Weil raccoglie questa sfida nell’abbandono dell’illusione, guardando in faccia la condizione umana, nuda e cruda, nella sua imperfezione e fragilità.

VIOLA CAROFALO

Viola Carofalo è ricercatrice in Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e attivista. È stata portavoce nazionale di Potere al Popolo. Si occupa dei temi dell’etica, del riconoscimento, della costruzione dell’identità nei contesti interculturali. Ha scritto sul pensiero di Frantz Fanon (Un pensiero dannato. Frantz Fanon e la politica del riconoscimento, Milano-Udine 2013), sul rapporto tra filosofia, letteratura e alterità in J.M. Coetzee (Dai più lontani margini. J.M. Coetzee e la scrittura dell’Altro, Milano-Udine 2016), sulla riflessione filosofica di Barthes, Brecht, Cassirer, Devereux, Fraser.

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