I quarant’anni della fondazione Michelucci sono l’occasione, nell’ambito del primo giorno del Festival della Nuova Città, che prende il titolo della rivista voluta da Giovanni Michelucci, per partire da uno dei temi più sottovalutati dalla politica eppure più gravi e forieri di instabilità sociale del momento, vale a dire il tema abitativo e dell’accesso alla casa.
Introdotto dal direttore della fondazione Andrea Aleardi, il ruolo di coordinatore è affidato a Massimo Colombo, Fondazione Michelucci. Che legge una piccola parte di intervista rilasciata nell’’86 da Michelucci in cui, purtroppo verrebbe da dire, i temi che riguardano la città continuano ad essere sempre attuali. “In primo luogo tutti, non solo l’architetto, devono pensare agli emarginati, i poveri, i pazzi, i malati, i prigionieri, che ora sono chiusi in ambienti predisposti alla segregazione, ospedale, manicomio, carcere, muri, inferriate, case dormitorio e le non-case. O c’è posto per tutti, o la città consumista diventerà invivibile per tutti e i ghetti museo, i ghetti dei ricchi, genereranno solo violenza. Di questo si deve parlare e non di arte, perché l’arte è bene, ma parlarne troppo non ha più senso e muore. L’architettura può essere un’opera d’arte, ma è meglio che non lo sia, e che porti un contributo alla vita della gente piuttosto che il contrario”.
I temi fondamentali della Fondazione ci sono tutti, dai carceri alla scuola, ma, dice Colombo, “dall’ 82 la trasformazione della città, in base ai suoi nuovi abitanti e alle sue nuove problematiche, le “genti urbane”, ci hanno portato a focalizzare nel nostro lavoro di ricerca come uno dei temi più importanti il diritto all’abitare. Ma più che il concetto di abitare, che è molto esteso, il tema riguarda il superamento di quella sofferenza che la città offre a chi non ha casa. Tutto ciò ha condotto la fondazione ad occuparsi della sofferenza di quelle nuove genti urbane che, in particolare a partire dagli anni ’90 con la legge Martelli sull’immigrazione, non hanno casa e quelle “vecchie” genti urbane che la casa l’avevano e l’hanno persa o hanno dovuto affrontare sofferenze e disagi ed esclusione”. Non marginale anche il tema delle popolazioni rom e sinti che in questi 40 anni, come sottolinea Colombo, in Toscana e non , hanno affrontato un’involuzione, anche se ad ora si ritiene il problema superato.
Per sgombrare il campo da fraintendimenti, continua Colombo, “oggi non parliamo di fascia grigia, social housing, co-housing. Il tema di oggi vorrebbe affrontare quella fascia di popolazione che non arriva nemmeno all’Erp, lasciando però aperta una porta dal momento che, di fatto, l’edilizia residenziale pubblica rimane l’ultima chance per queste situazioni. Si sta parlando perciò di senza fissa dimora, delle modalità di azione nei confronti delle popolazioni rom e sinti, attuata mettendo in atto uno dei più radicali esperimenti di cambiamento di modalità dell’abitare trasportandoli dai campi nelle case, così, come se fosse quasi stata una di quelle sperimentazioni o strategie che ricordano quelle rivolte agli indiani d’America”.
Il tema è dunque questa mancanza di pragmatismo nell’approccio alla realtà da parte delle politiche abitative sociali, che si sintetizza in un titolo, Le case dei poveri, tratto a sua volta dall’ultimo volume, prima della scomparsa, di un altro protagonista, il professor Antonio Tosi. Dopo la pandemia, contemporaneamente alla guerra europea, ricomincia ad emergere questo tema. A valle di tutte le contraddizioni che offre: dopo il piano Casa Fanfani degli anni ’60, non c’è più stata una presa in carico così generale e importante da un lato, dall’altro, pur con le difficoltà enormi dell’accesso alla casa, le abitazioni sono con ogni probabilità in numero maggiore degli abitanti la città.
Interventi interessanti e approfonditi da parte di tutti i relatori, che sono Marcello Canovaro, Presidente Casalp Livorno; Marco Guerzoni, direttore del Settore Politiche Abitative del Comune di Bologna; Agostino Petrillo, professore associato Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano; Enrico Puccini, Osservatorio Casa Roma; Marzio Mori, consigliere della fio.PSD Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora; Carlo Stasolla, fondatore Associazione 21 Luglio Onlus e Ashoka fellow;
Serena Spinelli, Regione Toscana, Assessora alle Politiche sociali, abitative e cooperazione internazionale. Ma è l’analisi del professor Agostino Petrillo, che mette in riga una lucida concomitanza di fattori e dati, storici e di questi tempi, a mettere nero su bianco la vera natura sociale, economica, politica del tema casa.
In realtà, come spiega Petrillo, parlare di una nuova questione della casa non è corretto, “in quanto c’è una sorta di eterno ritorno del vulnus abitativo che non è stato mai risolto in Europa”. Un problema che dall’800 in poi non è mai stato eliminato è quello dell’oscillazione fra casa come diritto e casa come bene commerciale. “E’ una sorta di malattia endemica, in cui il focolaio ribolle anche laddove la questione sembra essere stata risolta. La pandemia ha fatto emergere una questione già calda”. Tuttavia, un profilo allarmante emerge, ed è anche una delle maggiori novità: non si tratta più di fasce o settori marginali, dice Petrillo, ma il problema ha assunto una dimensione di massa, in tutta Europa, “ma in particolare in quei paesi che si illudevano di averla risolta, a cui apparteniamo anche noi, che pensavamo di aver risolto la questione con la proprietà privata della casa, creando una monocultura della proprietà. Un passaggio che si è verificato all’inizio degli anni ’90, quando gli italiani sono stati trasformati in un popolo di proprietari. Basti pensare che subito nel secondo dopo guerra, i proprietari di casa erano fermi al 45%, crescendo poi lentamente fino al 70-80%, mentre ora stanno arretrando lentamente a causa dei pignoramenti bancari che mano a mano aumentano all’aumento di persone hanno difficoltà a pagare i mutui. Tutto ciò ricorda da vicino la bolla immobiliare spagnola, che dopo il 2008 che ha dato vita al movimento degli Indignados e di seguito a Podemos”.
L’accelerazione impressa dalla pandemia a questi processi rischia di diventare particolarmente gravosa dal punto di vista politico, dal momento che, nonostante le diversità di scelte circa le politiche abitative, i paesi più ricchi hanno la percentuale più bassa di proprietari, “con tassi di affitto pari al 60-70%, fino all’80% in alcuni quartieri di Berlino”. Le nostre città più statiche hanno numeri rovesciati. Nonostante questo, c’è un trend di fondo comune in Europa. Quale? I report lo dicono: si tratta dell’aumento generalizzato europeo dei prezzi di immobili di vendita e affitti (circa il 16%).
“La possibilità di comprare una casa per un ceto medio o medio basso, composto per lo più di lavoratori, è andata ridimensionandosi. Negli anni d’oro del welfare europeo ci si poteva immaginare di poter comprare casa con 4 anni di salario da operaio qualificato. Ora ci vogliono dai 15 ai 20 anni”. Un’enorme fascia in continua crescita su cui vanno a scaricarsi tutte le contraddizioni e le difficoltà del sistema. Una fascia che corre: Istat conta circa 15milioni di poveri in crescita. Nel prossimo autunno la fetta sarà ancora maggiore, si stimano circa 20 milioni di italiani in difficoltà. Cos’è cambiato?
Al di là delle differenze europee, spiega Interillo, ci sono stati alcuni grandi spartiacque, tra cui la crisi del 2008. “Sono esplose le bolle immobiliari locali che hanno reso meno trasparente il mercato spezzando l’illusione dei ceti medio bassi di potere arrivare alla casa in proprietà in modo normale, attraverso ai mutui. L’altro grande fattore di svolta è stata la fine dell’edilizia popolare pubblica in quasi tutti i paesi europei. In Italia, la produzione di Erp si è fermata a partire dagli anni ’90”. Non solo, con le cartolarizzazioni il fenomeno è diventato inverso, nel senso che lo Stato ha venduto buona parte delle sue proprietà immobiliari, fra cui abitazioni. “Altri Paesi hanno conservato una quota di pil da destinare all’Erp, come la Francia e la Germania, circa un 3% del prodotto interno lordo da dedicare alla costruzione di case nuove”. Un Paese che era stato battistrada dell’edilizia popolare pubblica e sociale, la Gran Bretagna, ha cessato quasi completamente di costruire salvo ricredersi negli ultimi tempi di fronte agli aumenti spropositati dei canoni.
Aumenti mai visti che sono legati, spiega Interillo, “alla finanziarizzazione e commercializzazione del bene casa, una delle caratteristiche degli ultimi decenni di gestione neoliberista della città. Cosa significa n soldoni la finanziarizzazione del bene casa? In poche parole, che la casa diventa interessante non solo come bene primario oppure per produrre reddito, ma anche come investimento di medio-lungo periodo. Non si tratta di acquistare per esempio una bella torre o un edificio a più piani nel centro di Milano con lo scopo di ricavare immediatamente un profitto, ma si tratta unicamente di cristallizzare sulla città del denaro che non si sa altrimenti come impiegare. Le grandi immobiliari multinazionali che si stanno comprando il centro di Londra, lasciano vuoti gli edifici che comprano, si tratta di comprare per depositare, quasi moneta contante, il profitto realizzato. Non è neppure gentrification, siamo oltre. Le torri rimangono vuote, sono denaro depositato sul terreno della città e basta. Ciò provoca lo sconvolgimento completo della città con fenomeni giganteschi di esclusione e respingimento nelle periferie di masse di popolazione, di cui i primi a farne le spese sono i giovani, dal momento che l’accesso all’alloggio viene sbarrato o enormemente ritardato”. Con la precarizzazione del lavoro e la disoccupazione di lungo periodo, la tempesta perfetta.
“Qualche governante meno miope dei nostri ha cercato in Europa di introdurre dei correttivi. A Berlino era stato introdotto una misura di protezione degli affittuari in una situazione di una città dove l’affitto è una parte importantissima, calmierando i canoni, ma la Suprema Corte tedesca ha congelato il provvedimento per qualche mese, facendo così esplodere la bomba del referendum dell’espropriazione della grande proprietà immobiliare, rivolta che ha smosso la politica”.
Che fare? “Esistono alcune ricette consolidate. Primo: ripresa di un’energica politica della casa popolare in Italia e in Europa. Sotto questo punto di vista, il Pnrr è stata un’occasione perduta. 2) Sviluppo verso l’interno, ovvero rigenerazione urbana. Meccanismi che possono rimettere in pista borghi che vanno verso la desertificazione, con il ricucimento dei rapporti fra città e campagna. Al di là di questi meccanismi, sono convinto – conclude – che la questione casa verrà affrontata in modo sensato quando ci saranno movimenti capaci di proporla e imporla. Una voce che si farà sentire presto. La nuova questione della casa è la nuova questione sociale in Italia e in Europa”.
Stefania Valbonesi
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