La crisi abitativa nelle nostre città. Intervista a Giovanni Semi

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Stefania Valbonesi ha intervistato Giovanni Semi, docente di Sociologia all’Università di Torino, che si è occupato, tra le altre cose, di trasformazioni urbane. La questione abitativa è uno dei nodi centrali nelle trasformazioni che segnano le nostre città, l’analisi di Semi ci guida attraverso le cause che hanno causato l’attuale emergenza casa e le possibili soluzioni.

La questione abitativa, ovvero la più urgente questione sociale di questi tempi, è correlata al mutamento delle città e della logica che sottende la crescita o la decrescita delle città. Qualcuno parla di stretto legame fra l’aggravarsi della questione casa e la gentrificazione delle città. Secondo lei questo assunto è corretto?

La questione abitativa può essere considerata la questione sociale più urgente, a seconda dei contesti e in maniera molto diversa. Ad esempio, pur ricordando che lo sfratto è una delle esperienze più traumatiche e violente che possano colpire un essere umano, è purtuttavia vero che è diverso se lo si subisce in alcuni Stati degli Stati Uniti d’America, dove diventa esecutivo anche nel giro di 1 giorno, oppure se colpisce una famiglia italiana, dove può essere eseguito a distanza di uno o due anni dai primi provvedimenti. Discorso analogo si potrebbe fare per l’accesso alla casa, sia pubblico sia privato, che rimane però molto differenziato da contesto a contesto. Dopo questa opportuna precisazione, possiamo certamente dire che negli ultimi 30-40 anni, a cambiare è stato il senso della casa, passata da bene principalmente d’uso a bene maggioritariamente di scambio. Insomma, la casa, attraverso i noti processi di finanziarizzazione (si pensi ai mutui per accedervi) e di riduzione progressiva delle locazioni a buon mercato per fasce ampie della popolazione, si è sempre più trasformata in mezzo di accumulazione e trasferimento di ricchezza, perdendo così il proprio valore originario come tutela, protezione, focolare domestico.

Giovanni SemiSe questo processo, in tutte le sue molteplici dimensioni, cresce nel tempo, allora va a incontrare le politiche urbane, quelle di rigenerazione in particolare, e si unisce alla “produzione di urbano per utenti progressivamente più ricchi”, cioè la gentrification. Case più care e oggetto di continua messa in transazione e quartieri sempre più cari e oggetto di costante rigenerazione, sono due facce della stessa medaglia insomma.

Quanto influisce, in particolare nelle città d’arte (ma non solo), l’impiego turistico degli immobili sulla questione abitativa? Lo svuotamento dei centri storici e la sua estensione anche nelle fasce limitrofe al centro indica che le città stanno diventando strumento di esclusione economica e sociale delle classi popolari a favore della rendita? E cosa significa il concetto di finanziarizzazione della casa?

Non possiamo riflettere sul capitalismo delle piattaforme (siano esse quelle abitative come Airbnb o Booking.com o quelle della logistica come Amazon) senza prima riflettere su quando questo capitalismo è emerso e in risposta a cosa. Ormai è abbastanza consolidata la ricerca in questo ambito e possiamo riassumerla così: queste piattaforme emergono dalle ceneri delle crisi economico-finanziarie degli anni Novanta e Duemila in risposta alle suddette crisi e allo strascico di posti di lavoro e reddito bruciati in pochissimo tempo. Le piattaforme spostano su altri livelli e scale, servizi che non sono più redditizi con le modalità precedenti e che le crisi del capitalismo hanno alterato in maniera fondamentale. Se passiamo alle piattaforme turistiche, esse sono frutto di una serie di mutamenti strutturali: la crescita globale del settore del turismo e dei turisti internazionali, la diffusione di stili di vita e di consumo conseguenti, la diminuzione progressiva dei redditi e della redditività del lavoro nei paesi deindustrializzati. Insomma, famiglie che da un lato hanno dei bisogni culturali e di tempo libero molto moderni, ma con redditi sempre più premoderni (intermittenti, deboli). Questa congiuntura ha messo milioni di famiglie proprietarie di casa nella condizione di estrarre valore là dove ne avevano, nel bene di scambio che chiamiamo casa. Lo hanno fatto con la protezione culturale e legittima della piattaforma (che è innovativa, catchy, cosmopolita, cool, e non puzza di affittacamere, sebbene l’attività sia fondamentalmente la stessa). Al tempo stesso non tutti hanno una o più case di proprietà e, soprattutto, non nelle aree dove il valore estraibile è maggiore (città turistiche, centri storici, palazzi e dimore, piani alti, immobili ristrutturati e di pregio, etc..). Il risultato è stato perciò di rinforzo nelle dinamiche di disuguaglianza sociale e spaziale: chi già viveva nelle aree migliori, ha maggiori possibilità di estrarre più valore di chi, mettiamo, ha il monolocale di nonna in periferia da affittare. Questo processo è partito in sordina dal 2013 in poi per diventare impetuoso mano a mano che la crisi economico-finanziaria del 2007-8 diventava sempre più grave nel nostro paese. Non dobbiamo però mettere i proprietari tutti nello stesso calderone, sarebbe un errore. Se c’è una cosa su cui i dati concordano da tempo è che all’interno di questa popolazione di estrattori di rendita accadono due fenomeni: aumentano di molto gli attori professionali che lavorano per conto terzi e gestiscono, in alcuni casi, centinaia di alloggi e, dunque, si polarizza sempre di più questo mondo, con una percentuale ridotta di giganteschi proprietari che estraggono ricchezze imponenti e una miriade di piccoli proprietari che galleggiano con rendite intermittenti.

La gentrificazione, che è un concetto di origine anglosassone, che cosa ha comportato nell’Europa del Sud, fortemente agganciata al concetto di edilizia residenziale pubblica? La svolta degli anni ’90 (ogni italiano proprietario di casa) è dovuta secondo lei al cedimento alla gentrificazione anche da parte della nostra politica abitativa?

Forme di gentrification erano state osservate in Italia già negli anni Sessanta e Settanta, come ovunque nel mondo. In fondo la trasformazione dei centri storici italiani attraverso la fuoriuscita di baraccati e poveri attraverso le politiche pubbliche per la casa (penso alla stagione Gescal più che a quella INA-Casa) è anche una storia di gentrification, solo che all’epoca venne vista come l’accesso dei ceti popolari a delle abitazioni decenti, dopo decenni se non secoli di vita abitativa indegna. Quello che è successo a partire dagli anni Novanta è una fase diversa del processo di gentrification, alimentato questo sì dal boom immobiliare e dalla promessa di rendimenti sempre più elevati dal mondo del mattone. Questa seconda fase è poi fortemente promossa dalle amministrazioni locali, che cercano di rifare il trucco alle proprie aree centrali nella speranza di attrarre investimenti e crescita. Potremmo pensare alla fase delle sindacature civiche degli anni Novanta come una vera e propria ondata gentrificatrice. Certamente questo accade anche nel quadro di un arresto pressoché assoluto degli investimenti pubblici verso casa pubblica e, anzi, con l’inizio della stagione della cessione degli immobili pubblici. Insomma la seconda fase, erroneamente letta come di rinascimento urbano, sarà in realtà una fase di neoliberismo urbano.

In alcuni interessanti interventi di studiosi statunitensi, si rileva l’emersione del principio “housing first” applicato ai senza tetto e alle persone che si trovano appena “fuori dalla porta”. C’è forse un ripensamento circa il prevalere della gentrification, oppure si tratta della consapevolezza che siamo ormai giunti alla fine della classe media, e la casa si avvia ad essere un servizio sociale da concedersi ai meritevoli, invece che un diritto universale?

Sospetto sempre dei grandi affreschi catastrofisti, come quello della “fine del ceto medio”, non perché non siano anche in parte veri, ma perché tendono a romantizzare il passato e a mettere l’accento solo su alcuni gruppi. La letteratura comparativa sulle classi medie, per dire, rileva che sono sempre state dipinte ‘in crisi’, almeno dagli anni ’20. Vero è che assistiamo a una mutazione universale di un’idea, che però è durata davvero poco nella storia dell’umanità, e cioè che lo Stato dovrebbe prendersi cura e proteggere dal mercato i propri cittadini. Questo vale per la maggior parte dei servizi pubblici che conosciamo e, chiaramente, si esprime diversamente a seconda degli Stati e dell’esperienza storica che hanno avuto col welfare. La casa pubblica segue questa logica. In paesi come Austria, Germania, Olanda, Svizzera o Danimarca, dove vi è una tradizione quasi secolare di casa pubblica interclassista, decade lentamente questa idea ma è pur sempre una caduta dall’alto di un patrimonio che in certi casi proteggeva più della metà dei propri abitanti se non di più! Nel nostro paese, le lasciamo da parte le stucchevoli e interessate retoriche sulle case popolari occupate o cose simili, la verità è che la casa pubblica ha protetto sempre e solo una parte largamente minoritaria delle famiglie. Meno del 5% in assoluto, che poteva certamente crescere molto quando guardavamo queste quote nelle grandi città, ma sempre nell’ordine di un 10-20%. Nulla di comparabile con le esperienze europee che citavo poco sopra. Ecco, in questo quadro, dove comunque l’Italia è già ampiamente proprietaria e dove la casa viene da tutti considerata come un bene che ci si deve procacciare per via familiare o individuale, politiche come housing first, forme di social housing innovativo, co-housing o simili, sono sempre e solo ridottissime. Riguardano poche persone in assoluto, o quelle estremamente vulnerabili come i senza fissa dimora, o quelle che possono dimostrare di godere dell’emergenza abitativa, oppure come nel caso delle forme più ‘innovative’, solo popolazioni che hanno diritto temporaneo ad avere casa, come in tantissimo social housing all’italiana. Quello che manca, ma è un lungo portato storico, è l’idea che la casa sia un servizio pubblico e universalistico. Come il servizio sanitario, per intendersi. Una volta che è pensato solo per i più poveri, diventa automaticamente una politica assistenziale e residuale e come tale viene vista dalle maggioranze, che si immaginano case popolari infestate da ratti, abitate da gente immorale o comunque troppo lontana da quell’aura di perbenismo che circola con troppa leggerezza nel nostro dibattito. Un’immagine falsa, chiaramente, ma drammaticamente efficace per stigmatizzare quelle famiglie e quei territori e poter costruire l’immaginario asfissiante e crudele delle Periferie.

 

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Stefania Valbonesi

Nata a Ravenna, età vintage, svolge ttività giornalistica da circa vent'anni, essendo prima passata dall'aspirazione alla carriera universitaria mai concretizzatasi. Laurea in scienze politiche, conquistata nella fu gloriosa Cesare Alfieri. Ha pubblicato due noir, "Lo strano caso del barone Gravina" e "Cronaca ravennate", per i tipi di Romano editore.

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