Per una rifondazione delle pratiche sociali

Apriamo lo speciale su Felix Guattari nel trentennale dalla morte con questo suo ultimo saggio tradotto per la prima volta in italiano.

Per una rifondazione delle pratiche sociali[1]

FELIX GUATTARI [2]

Poche settimane prima della sua morte improvvisa, avvenuta il 29 agosto 1992, Félix Guattari ci aveva inviato questo testo. Con il peso conferitole dalla tragica morte del suo autore, questa riflessione ambiziosa e totalizzante assume il carattere di un testamento filosofico. L’autore descrive il grande malessere della nostra civiltà e offre nuovi modi per ristrutturare le pratiche sociali. Con un respiro non privo di poesia, immagina un “nuovo rinascimento” un “grande risveglio” che strapperebbe le nostre società dalla loro attuale passività.
(Le Monde diplomatique, ottobre 1992)

 

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Le routine della vita quotidiana, la banalità del mondo rappresentato dai media, ci avvolgono in un’atmosfera rassicurante dove nulla conta più davvero. Veliamo i nostri occhi; ci vietiamo di pensare al volo vorticoso del nostro tempo, che proietta all’indietro, molto lontano, molto velocemente, il nostro passato più familiare, che cancella modi di essere e di vivere ancora freschi nella nostra memoria e che intonaca il nostro futuro su un orizzonte opaco, carico di nuvole e miasmi. Siamo tanto più ansiosi di assicurarci che nulla è assicurato. I due “Grandi” di ieri, a lungo contrapposti l’uno all’altro, vengono destabilizzati dal crollo di uno di loro. I Paesi dell’ex Unione Sovietica e quelli dell’Europa dell’Est sono impantanati in tragedie senza esito apparente. Gli Stati Uniti, da parte loro, non sono immuni da violenti sconvolgimenti di civiltà, come abbiamo visto a Los Angeles. I paesi del Terzo Mondo non stanno uscendo dalla stasi; L’Africa, in particolare, sta sprofondando in un’atroce impasse. I disastri ecologici, la carestia, la disoccupazione, l’ascesa del razzismo e della xenofobia infestano, come tante minacce, la fine di questo millennio. D’altra parte, la scienza e la tecnologia si evolvono a una velocità estrema, consegnando virtualmente all’uomo tutte le chiavi necessarie per risolvere i suoi problemi materiali. Ma l’umanità non riesce a coglierlo; rimane stordita, impotente di fronte alle sfide che deve affrontare. Assiste passivamente allo sviluppo dell’inquinamento dell’acqua e dell’aria, alla distruzione delle foreste, alla perturbazione dei climi, alla scomparsa di una moltitudine di specie viventi, all’impoverimento del capitale genetico della biosfera, al degrado dei paesaggi naturali, al soffocamento delle sue città e al progressivo abbandono dei valori culturali e dei riferimenti morali relativi alla solidarietà umana e alla fraternità… L’umanità sembra perdere la testa, o meglio, la sua testa non funziona più con il suo corpo. Come potrebbe trovare una bussola per orientarsi all’interno di una modernità la cui complessità la condiziona da tutte le parti?

Pensare alla complessità, rinunciando, in particolare, all’approccio riduttivo dello scientismo quando si tratta di mettere in discussione i suoi pregiudizi e i suoi interessi a breve termine: essendo la prospettiva quella di entrare in un’era che ho definito post-mediale, perché tutti i grandi sconvolgimenti contemporanei, positivi o negativi che siano, sono oggi giudicati con il metro delle informazioni filtrate dall’industria dei media, che conserva solo l’aspetto dei piccoli eventi delle cose e che non problematizza mai le questioni in gioco nella loro vera ampiezza.

È vero che è difficile far uscire le persone da sé stesse, liberarsi dalle preoccupazioni immediate e riflettere sul presente e sul futuro del mondo. Mancano gli incentivi collettivi per farlo. Tuttavia, la maggior parte delle vecchie istanze di comunicazione, riflessione e consultazione si sono dissolte a favore di un individualismo e di una solitudine spesso sinonimo di ansia e nevrosi. È in questo senso che sostengo – sotto l’egida di un inedito tipo di articolazione tra ecologia ambientale, ecologia sociale ed ecologia mentale – l’invenzione di nuovi assetti collettivi di enunciazione, riguardanti la coppia, la famiglia, la scuola, il quartiere, ecc.

Il funzionamento degli attuali mass media, in particolare della televisione, va contro tale prospettiva. Lo spettatore rimane passivo davanti al suo schermo, prigioniero di una relazione quasi ipnotica, tagliato fuori dall’altro, sollevato dalle responsabilità.

Tuttavia, questa situazione non è fatta per durare all’infinito. L’evoluzione delle tecnologie introdurrà nuove possibilità di interazione tra il mezzo e il suo utilizzatore, e tra gli utenti stessi. La giunzione tra lo schermo audiovisivo, lo schermo telematico e lo schermo del computer potrebbe portare a una vera e propria riattivazione della sensibilità e dell’intelligenza collettive. L’attuale equazione (media = passività) forse scomparirà molto più velocemente di quanto immaginiamo. Ovviamente, non possiamo aspettarci miracoli da queste tecnologie: tutto dipenderà, alla fine, dalla capacità dei gruppi umani di impadronirsene e di conferire loro finalità adeguate.

La costituzione di grandi mercati economici e di aree politiche omogenee, come tende a diventare l’Europa occidentale, influirà anche sulla nostra visione del mondo. Ma queste vanno in direzioni opposte, cosicché il loro esito dipenderà dall’evoluzione dei rapporti di forza tra i gruppi sociali, i cui contorni, peraltro, devono essere riconosciuti come ancora vaghi. Gli antagonismi industriali ed economici tra Stati Uniti, Giappone ed Europa sempre più accentuati, la riduzione dei costi di produzione, lo sviluppo della produttività, la conquista di “quote di mercato”, diventeranno temi sempre più centrali, aumentando la disoccupazione strutturale e portando a una “dualizzazione” sociale sempre più marcata all’interno delle cittadelle capitaliste. Per non parlare della loro frattura con il Terzo Mondo, che prenderà una piega sempre più conflittuale e drammatica a causa dell’inflazione demografica.

D’altra parte, il rafforzamento di questi grandi poli di potere contribuirà indubbiamente all’instaurazione di una regolamentazione – se non di un “ordine planetario” – di natura geopolitica ed ecologica. Favorendo una significativa concentrazione di risorse su obiettivi di ricerca o su programmi ecologici e umanitari, l’esistenza di questi centri potrebbe giocare un ruolo decisivo per il futuro dell’umanità. Ma sarebbe sia immorale che irrealistico accettare che l’attuale dualità, quasi manichea, tra ricchi e poveri, forti e deboli, si accentui all’infinito. Purtroppo è in questa prospettiva che i firmatari del cosiddetto appello di Heidelberg, presentato alla conferenza di Rio, hanno aderito, loro malgrado, suggerendo che le scelte fondamentali dell’umanità nel campo dell’ecologia siano lasciate all’iniziativa dell’élite scientifiche (vedi, su Le Monde diplomatique, l’editoriale di Ignacio Ramonet, luglio 1992, e l’articolo di Jean-Marc Lévy- Leblond, agosto 1992). Ciò deriva da una miopia scientifica piuttosto incredibile. Come non vedere, infatti, che una parte essenziale delle questioni ecologiche del pianeta deriva da questa rottura della soggettività collettiva tra ricchi e poveri? Gli scienziati devono trovare il loro posto in una nuova democrazia internazionale, che essi stessi devono contribuire a promuovere. E non è per mantenere il mito della loro onnipotenza che li farà avanzare su questa via!

Come riconnettere il corpo con la testa, come articolare la scienza e la tecnologia con i valori umani? Come concordare progetti comuni rispettando l’unicità della posizione di ciascuno? Come innescare, nell’attuale clima di passività, un grande risveglio, una nuova rinascita? La paura della catastrofe sarà una forza trainante sufficiente in questo settore? Gli incidenti ecologici, come Chernobyl, hanno certamente portato a un risveglio dell’opinione pubblica. Ma non si tratta solo di agitare minacce, occorre passare alle realizzazioni pratiche. Va anche ricordato che il pericolo può esercitare un vero e proprio potere di fascino. Il presentimento della catastrofe può innescare un inconscio desiderio di catastrofe, un’aspirazione al nulla, una spinta all’abolizione. È così che le masse tedesche, al tempo del nazismo, vivevano sotto l’impero di una fantasia di fine del mondo associata a una mitica redenzione dell’umanità. Occorre soprattutto porre l’accento sulla ricomposizione della consultazione collettiva in grado di portare a pratiche innovative. Senza un cambiamento di mentalità, senza entrare in un’era post-mediale, non ci sarà presa duratura sull’ambiente. Ma, senza modificazione dell’ambiente materiale e sociale, non ci sarà alcun cambiamento di mentalità. Ci troviamo qui in presenza di un circolo vizioso che mi porta a postulare la necessità di fondare una “ecosofia” articolando l’ecologia ambientale con l’ecologia sociale e l’ecologia mentale.

Chi gestisce il caos capitalista?

Con questa prospettiva ecosofica, non si tratta di ricostituire un’ideologia egemonica come lo sono state le grandi religioni o il marxismo. È assurdo, ad esempio, che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale sostengano la generalizzazione di un unico modello di crescita nel Terzo Mondo. L’Africa, l’America Latina e l’Asia dovrebbero poter intraprendere specifici percorsi di sviluppo sociale e culturale.

Il mercato mondiale non deve guidare la produzione di ogni gruppo umano in nome di un concetto universale di crescita. La crescita capitalistica rimane puramente quantitativa, mentre uno sviluppo complesso riguarda essenzialmente il qualitativo. Non è né la preminenza dello Stato (nello stile del socialismo burocratico) né quella del mercato mondiale (sotto l’egida delle ideologie neoliberiste) che devono governare il futuro delle attività umane e le loro finalità essenziali. Sarebbe quindi necessario istituire una consultazione planetaria e promuovere una nuova etica della differenza, sostituendo i poteri dell’attuale capitalismo con una politica dei desideri delle persone. Ma una tale prospettiva non rischia di portare al caos? A questo risponderei che la trascendenza del potere porta comunque al caos, come dimostra la crisi attuale. Ma il caos democratico, tutto sommato, è meglio del caos che deriva dall’autoritarismo!

L’individuo e il gruppo non possono evitare un certo sprofondamento esistenziale nel caos. Questo è già quello che facciamo ogni notte abbandonandoci all’universo dei sogni. L’intera domanda è cosa portiamo via da questa immersione: un senso di disastro o la rivelazione di nuove linee di possibilità? Chi gestisce oggi il caos capitalista? Borse, multinazionali e (sempre meno) poteri statali! In definitiva, per la maggior parte, organismi senza cervello. L’esistenza di un mercato mondiale è certamente essenziale per la strutturazione delle relazioni economiche internazionali. Ma non possiamo aspettarci che questo mercato regoli miracolosamente gli scambi umani sul pianeta. Il mercato immobiliare contribuisce al disordine delle nostre megalopoli. Il mercato dell’arte perverte la creazione estetica. È quindi essenziale che accanto al mercato capitalista appaiano i mercati territorializzati, appoggiandosi a formazioni sociali coerenti, affermandone le modalità di valorizzazione. Dal caos capitalista devono emergere quelli che chiamerò “attrattori di valore”: valori diversi, eterogenei, dissidenti.

Nelle nostre società prolifera un microfascismo

I marxisti facevano derivare il movimento della storia da una necessaria progressione dialettica della lotta di classe. Gli economisti liberali si fidano ciecamente del libero gioco del mercato per risolvere tensioni, disparità e per dare vita al meglio di entrambi i mondi. Ma i fatti confermano, se necessario, che il progresso non è meccanicamente o dialetticamente legato alle lotte di classe, allo sviluppo della scienza e della tecnologia, alla crescita economica, al libero gioco del mercato… Crescita non è sinonimo di progresso, come la rinascita della barbarie degli scontri sociali e urbani, dei conflitti interetnici, delle tensioni economiche globali rivela crudelmente.

Il progresso sociale e morale è inseparabile dalle pratiche collettive e individuali che lo promuovono. Il nazismo e il fascismo non furono malattie transitorie, “incidenti storici” ormai superati. Costituiscono potenzialità sempre presenti; continuano ad abitare i nostri universi di virtualità; lo stalinismo del Gulag, il dispotismo maoista, può rinascere, domani, in nuovi contesti. In varie forme, il microfascismo prolifera nei pori delle nostre società, manifestandosi attraverso il razzismo, la xenofobia, l’ascesa dei fondamentalismi religiosi, il militarismo e l’oppressione delle donne. La storia non garantisce alcun superamento irreversibile di “soglie progressiste”. Solo le pratiche umane, il volontarismo collettivo possono proteggerci dal ricadere nelle peggiori barbarie. A questo proposito, sarebbe del tutto illusorio fare affidamento sugli imperativi formali della difesa dei “diritti umani” o dei “diritti dei popoli”. I diritti non sono garantiti dall’autorità divina; poggiano sulla vitalità delle istituzioni e delle formazioni di potere che sostengono la loro esistenza.

Una condizione essenziale per raggiungere la promozione di una nuova coscienza planetaria risiederà quindi nella nostra capacità collettiva di far riemergere sistemi di valori che sfuggono alla loro riduzione morale, psicologica e sociale rispetto ai quali la valorizzazione capitalista si è concentrata esclusivamente sui proventi del profitto economico. La gioia di vivere, la solidarietà, la compassione per gli altri devono essere considerati come sentimenti in via di estinzione e che vanno protetti, rinvigoriti, riiniziati in nuove direzioni. I valori etici ed estetici non dipendono da imperativi e codici trascendenti. Richiedono una partecipazione esistenziale da un’immanenza costantemente da riconquistare. Come forgiare, dare espansione a tali universi di valori? Non certo dispensando lezioni morali.

Il potere suggestivo della teoria dell’informazione ha contribuito a mascherare l’importanza delle dimensioni enunciative della comunicazione. Ha portato spesso a dimenticare che è solo se viene ricevuto che un messaggio assume il suo significato, e non semplicemente perché viene trasmesso. L’informazione non può essere ridotta alle sue manifestazioni oggettive; è, essenzialmente, la produzione di soggettività, la consistenza di universi incorporei. E questi ultimi aspetti non possono essere ridotti ad un’analisi in termini di probabilità e calcolati sulla base di scelte binarie. La verità dell’informazione rimanda sempre ad un evento esistenziale in chi la riceve. Il suo registro non è quello dell’esattezza dei fatti, ma quello della rilevanza di un problema, della consistenza di un universo di valori. L’attuale crisi dei media e la linea di apertura verso un’era post-media sono sintomi di una crisi molto più profonda.

Ciò che intendo sottolineare è il carattere fondamentalmente pluralistico, multicentrico, eterogeneo della soggettività contemporanea, nonostante l’omogeneizzazione cui è soggetta a causa della sua copertura massmediatica. A questo proposito, un individuo è già un “collettivo” di componenti eterogenee. Un fatto soggettivo rimanda a territori personali – il corpo, l’io – ma, al tempo stesso, a territori collettivi – la famiglia, il gruppo, l’etnia. E a questo si aggiungono tutti i procedimenti di soggettivazione che si incarnano nella parola, nella scrittura, nei computer, nelle macchine tecnologiche.

Nelle società precedenti al capitalismo, l’iniziazione alle cose della vita e ai misteri del mondo passava attraverso il canale dei rapporti familiari, dei rapporti di classe d’età, dei rapporti di clan, delle corporazioni, dei rituali, ecc. Questo tipo di scambio diretto tra individui tende a diventare raro. È attraverso molteplici mediazioni che si forgia la soggettività, mentre si distendono le relazioni individuali tra generazioni, sessi, gruppi di prossimità. Ad esempio, molto spesso, viene a mancare la funzione dei nonni come supporto di una memoria intergenerazionale per i figli. Il bambino si sviluppa in un contesto ossessionato dalla televisione, dai videogiochi, dalle comunicazioni telematiche, dai fumetti… Nasce una nuova solitudine meccanica, non certo priva di qualità, ma che merita di essere rielaborata in modo permanente affinché possa integrarsi con rinnovate forme di socialità. Più che relazioni di opposizione, si tratta di forgiare abbracci polifonici tra l’individuo e il sociale. Resta dunque da inventare tutta una musica soggettiva.

La nuova coscienza planetaria dovrà ripensare il macchinismo. È frequente che continuiamo ad opporre la macchina all’anima umana. Alcune filosofie ritengono che la tecnologia moderna abbia velato il nostro accesso ai nostri fondamenti ontologici, all’Essere primordiale. E se, al contrario, da una nuova alleanza con la macchina ci si potesse aspettare un rinnovamento dell’anima e dei valori umani?

I biologi attualmente associano la vita a un nuovo approccio al macchinismo in riferimento alla cellula, agli organi e al corpo vivente. Lo stesso i linguisti, I matematici, I sociologi, che esplorano altre forme di macchinismo. Ampliando così il concetto di macchina, ci portano a sottolinearne alcuni aspetti fino ad oggi non sufficientemente esplorati. Le macchine non sono totalmente chiuse in sé stesse. Mantengono determinate relazioni con un’esteriorità spazio-temporale, così come con universi di segni e campi di virtualità. Il rapporto tra il dentro e il fuori di un sistema macchina non è solo il fatto che essa consuma energia e produce oggetti: si incarna anche attraverso i phyla[3] genetici. Una macchina emerge nel presente come la fine di una stirpe passata ed è il punto di rilancio, o il punto di rottura, da cui si svilupperà una stirpe evolutiva nel futuro. L’emergere di queste genealogie e di questi campi di alterità è complesso. È costantemente lavorato da tutte le forze creative delle scienze, delle arti, delle innovazioni sociali, che si intrecciano e costituiscono una meccanosfera che avvolge la nostra biosfera. E questo non come una camicia di forza costrittiva o un’armatura esterna, ma come un’astratta efflorescenza macchinica, che esplora il divenire umano.

La vita umana è impegnata, ad esempio, in una corsa con il retrovirus dell’AIDS. Le scienze biologiche e le tecniche mediche vinceranno la lotta contro questa malattia o, col tempo, la specie umana sarà eliminata. Allo stesso modo, l’intelligenza e la sensibilità stanno subendo un vero e proprio cambiamento a causa delle nuove macchine informatiche che si insinuano sempre più nelle sorgenti della sensibilità, del gesto e dell’intelligenza. Attualmente stiamo assistendo a un cambiamento nella soggettività che è forse anche più importante dell’invenzione della scrittura o della stampa.

L’umanità dovrà sposare ragione e sentimenti con i molteplici rami della macchina, altrimenti rischia di sprofondare nel caos. Un rinnovamento della democrazia potrebbe avere come obiettivo una gestione pluralista di tutte le sue componenti macchiniche. Giuridico e legislativo saranno così portati a stringere imprevisti legami con il mondo della tecnologia e della ricerca (è già il caso delle commissioni etiche relative ai problemi della biologia e della medicina contemporanee; ma dovrebbe anche progettare rapidamente commissioni per l’etica dei media, etica urbanistica, etica educativa). Si tratta, insomma, di ridisegnare le reali entità esistenziali del nostro tempo, che non corrispondono più a quelle di qualche decennio fa. L’individuo, il sociale, il macchinico si sovrappongono; lo stesso fanno il legale, l’etico, l’estetico e il politico. È in atto una grande deriva di obiettivi: i valori della risingolarizzazione dell’esistenza, della responsabilità ecologica, della creatività macchinica, sono chiamati a imporsi come fulcro di una nuova polarità progressista al posto della vecchia dicotomia destra-sinistra.

Promuovere l’ecologia, preservare l’ambiente

Le macchine di produzione che sono alla base dell’economia mondiale si concentrano solo sulle cosiddette industrie ad alta tecnologia. Non tengono conto dei settori lasciati indietro perché non generano profitti capitalisti. La democrazia macchinica dovrà portare a un riequilibrio degli attuali sistemi di valorizzazione. Sviluppare una città pulita, vivibile, allegra e ricca di interazioni sociali; sviluppare una medicina umana ed efficace, un’educazione arricchente, sono questi obiettivi altrettanto validi quanto la produzione in serie di automobili o apparecchiature elettroniche ad alte prestazioni.

Le attuali macchine tecniche, scientifiche e sociali sono potenzialmente in grado di nutrire, vestire, trasportare ed educare tutti gli esseri umani: i mezzi ci sono, a portata di mano, per sostenere dieci miliardi di abitanti su questo pianeta. Sono i sistemi di incentivazione per produrre beni e distribuirli adeguatamente che non sono adeguati. Lavorare per sviluppare il benessere materiale e morale, l’ecologia sociale e mentale, dovrebbe essere valorizzato tanto quanto lavorare in settori di punta o nella speculazione finanziaria.

È il lavoro stesso che ha mutato natura, per il prevalere sempre maggiore, nella sua composizione, degli aspetti immateriali del sapere, del desiderio, del gusto estetico, delle preoccupazioni ecologiche. L’attività fisica e mentale dell’uomo è sempre più adiacente ai dispositivi tecnici, informatici e di comunicazione. Di conseguenza, le vecchie concezioni fordiste o tayloriste dell’organizzazione dei siti industriali e dell’ergonomia sono superate. In futuro, sarà necessario fare sempre più spesso ricorso all’iniziativa individuale e collettiva, in tutte le fasi della produzione e della distribuzione (e anche del consumo). La costituzione di un nuovo panorama di accordi collettivi di lavoro – dovuto, in particolare, al ruolo preponderante che vi giocheranno la telematica, l’informatica e la robotica – rimetterà profondamente in discussione i vecchi assetti gerarchici, con, a corollario, una revisione delle retribuzioni standard attualmente in vigore.

Consideriamo la crisi dell’agricoltura nei paesi sviluppati. È legittimo che i mercati agricoli si aprano ai paesi del Terzo Mondo, le cui condizioni climatiche e di redditività sono spesso molto più favorevoli alla produzione rispetto a quelle dei paesi più a nord. Questo significa che i contadini europei, americani e giapponesi dovranno lasciare le campagne e migrare verso le città? Al contrario, si tratta di ridefinire l’agricoltura e l’allevamento di questi paesi, in modo da valorizzarne adeguatamente gli aspetti ecologici e preservare l’ambiente. Foreste, montagne, fiumi, spiagge, costituiscono un capitale non capitalista, un “investimento” qualitativo, che dovrebbe essere reso redditizio, costantemente rivalutato, il che implica, in particolare, ripensare in modo audace lo status di agricoltore, allevatore e pescatore.

Lo stesso vale per il lavoro domestico: diventerà necessario per le donne e gli uomini che si occupano dell’educazione dei figli – compito che diventa sempre più complesso – che siano adeguatamente remunerati. In generale, molte attività “private” sono così chiamate a trovare il loro posto in un nuovo sistema di valutazione economica che tenga conto della diversità, dell’eterogeneità delle attività umane socialmente, o esteticamente, o eticamente utili.

Tempo libero per cosa?

Per consentire un’espansione del lavoro salariato alla moltitudine di attività sociali che meritano di essere valorizzate, gli economisti dovranno forse immaginare un rinnovamento dei sistemi monetari e degli attuali sistemi salariali. La coesistenza, ad esempio, di monete forti, in balia della competizione economica globale, con monete protette, non convertibili, territorializzate in un dato spazio sociale, permetterebbe di alleviare la miseria più vistosa, distribuendo merci che rientrano solo nel mercato interno e proliferando tutto un campo di attività sociali che perderebbero, allo stesso tempo, il loro carattere di apparente marginalità.

Una tale revisione della divisione e valutazione del lavoro non implica necessariamente che la sua durata settimanale debba essere ridotta indefinitamente, che l’età pensionabile debba essere anticipata. Certo, le macchine tenderanno a liberare sempre più “tempo libero”. Ma gratis per cosa? Per dedicarsi a hobby prefabbricati? Restare con il naso incollato alla TV? Quanti pensionati sprofondano, dopo pochi mesi dalla loro nuova situazione, nella disperazione e nella depressione a causa dell’ozio. Paradossalmente, una ridefinizione ecosofica del lavoro potrebbe andare di pari passo con un prolungamento della durata del rapporto di lavoro. Ciò implicherebbe un’abile scomposizione tra l’orario di lavoro assegnato all’economia di mercato e l’orario di lavoro relativo all’economia dei valori sociali e mentali. Si potrebbero immaginare, ad esempio, pensioni modulate che consentano ai lavoratori, impiegati, dirigenti che lo desiderino, di non essere tagliati fuori dalle attività della propria azienda, soprattutto quelle che hanno risvolti sociali e culturali. Non è assurdo, infatti, che proprio nel momento in cui conoscono al meglio il loro settore di attività, in cui potrebbero rendere i maggiori servizi nel campo della formazione e della ricerca, vengano brutalmente respinti? La prospettiva di una tale ricomposizione sociale e culturale del lavoro porterebbe del tutto naturalmente alla promozione di una nuova trasversalità tra gli assetti produttivi e il resto della città.

Alcune esperienze sindacali si stanno già muovendo in questa direzione. In Cile, per esempio, ci sono nuove forme di pratica sindacale che sono organicamente legate al loro ambiente sociale. Gli attivisti del “sindacalismo territoriale” non si preoccupano più solo della difesa dei lavoratori sindacalizzati, ma anche delle difficoltà incontrate dai disoccupati, dalle donne e dai bambini del quartiere in cui si trova la loro azienda. Partecipano all’organizzazione di programmi educativi e culturali, si occupano di salute, igiene, ecologia e urbanistica. (Un tale allargamento del campo di competenza d’azione dei lavoratori è lungi dall’essere visto di buon occhio dalle autorità gerarchiche dell’apparato sindacale). In questo Paese gruppi di “ecologia della terza età” si dedicano all’organizzazione relazionale e culturale degli anziani.

Difficile, ma comunque indispensabile, voltare pagina nei confronti dei vecchi sistemi di riferimento basati su una netta contrapposizione sinistra-destra, socialismo-capitalismo, economia di mercato-pianificazione statale… Non si tratta di forgiare un polo “centrista”, equidistante dagli altri due, ma di allontanarsi da questo tipo di sistema basato sull’adesione totale, su una presunta base scientifica, o su dati giuridici ed etici trascendenti. L’opinione pubblica, prima delle stesse classi politiche, è diventata allergica al discorso programmatico, ai dogmi intolleranti nei confronti della diversità dei punti di vista. Ma fintanto che il dibattito pubblico e i mezzi di consultazione non hanno acquisito forme rinnovate di espressione, è grande il rischio che si allontanino sempre più dall’esercizio della democrazia, per affidarsi o alla passività dell’astensione, o all’attivismo di fazioni reazionarie. Quello che conta, in una campagna politica, non è tanto conquistare l’adesione massiccia del pubblico a un’idea quanto vedere questa opinione pubblica strutturarsi in molteplici segmenti sociali viventi. La realtà non è più una e indivisibile. È molteplice, lavorata da linee di possibilità che la prassi umana può cogliere al volo. Accanto all’energia, all’informazione e ai nuovi materiali, la volontà di scegliere e di assumersi un rischio si stabilisce al centro di nuove avventure macchiniche, siano esse tecnologiche, sociali, teoriche o estetiche.

Le “mappe ecosofiche”, che dovrebbero essere istituite, avranno questa particolarità di assumere non solo le dimensioni del presente, ma anche quelle del futuro. Si preoccuperanno di come sarà la vita umana sulla Terra tra trent’anni quanto di come sarà il trasporto urbano tra tre anni. Implicano una scelta di responsabilità per le generazioni future, quella che il filosofo Hans Jonas chiama «etica della responsabilità»[4]. È inevitabile che le scelte a lungo termine si scontrino con le scelte di interesse a breve termine. I gruppi sociali interessati da tali questioni devono essere portati a deliberare, a modificare le proprie abitudini e le proprie coordinate mentali, ad adottare nuovi universi di valori e a postulare un significato umano per le future trasformazioni tecnologiche. In una parola, arbitrare il presente in nome del futuro.

Non si tratta, tuttavia, di ricadere in visioni totalitarie e autoritarie della storia, messianismi che, in nome delle “città future” o dell’equilibrio ecologico, pretenderebbero di governare la vita di tutti. Ogni “cartografia” rappresenta una particolare visione del mondo, che, anche se adottata da un gran numero di individui, nasconde sempre al suo interno un nocciolo di incertezza. È questo, in verità, il suo bene più prezioso. È da esso che si può costituire un autentico ascolto dell’altro. Ascoltare la disparità, la singolarità, la marginalità, persino la follia, non è solo una questione di tolleranza e fraternità. Costituisce una propedeutica essenziale, un richiamo permanente a questo ordine di incertezza, una messa a nudo dei poteri del caos che da sempre infestano le strutture dominanti, pregne di sé stesse, autosufficienti. Può invertire queste strutture o ridare loro significato, ricaricandole di potenzialità, dispiegando da esse nuove linee di fuga creative.

All’interno di ogni stato di cose va individuato un punto di fuga del senso, nonostante l’impazienza che l’altro non adotti il mio punto di vista, nonostante la riluttanza della realtà a piegarsi ai miei desideri. Questa avversità, non solo devo accettarla, ma amarla per sé stessa; Devo cercarla, dialogare con essa, scavarci dentro, approfondirla. È lei che mi farà uscire dal mio narcisismo, dalla mia cecità burocratica, che mi restituirà un senso di finitezza, che tutta l’infantilizzante soggettività massmediale sta cercando di velare. La democrazia ecosofica non si arresterà alla facilità dell’accordo consensuale: investirà nella metamodellazione dissensuale. Con essa la responsabilità lascia il sé per passare all’altro.

Senza la promozione di una tale soggettività della differenza, dell’atipico, dell’utopia, la nostra epoca potrebbe precipitare in atroci conflitti di identità, come quelli subiti dai popoli dell’ex Jugoslavia. Rimarrà vano appellarsi alla moralità e al rispetto dei diritti. La soggettività si impantana nel vuoto delle questioni del profitto e del potere. La negazione dello status dei media attuali, associata alla ricerca di nuove interattività sociali, di una creatività istituzionale e di un arricchimento dell’universo dei valori, costituirebbero già una tappa importante nel cammino verso una rifondazione delle pratiche sociali.

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  1. Le Monde diplomatique, ottobre 1992, pag. 26;27
  2. Félix Guattari è nato il 30 aprile 1930 a Colombes. Fondatore, con Jean Oury, della clinica psichiatrica di La Borde (Loir-et-Cher), è autore di cinque libri scritti con il filosofo Gilles Deleuze e pubblicati da Editions de Minuit: l’Anti-OEdipe (1972), Kafka, pour une littérature mineure (1975), Rhizome (1976), Mille-Plateaux (1979) et Qu’est-ce que la philosophie? (1991). Inoltre, ha scritto singolarmente la Révolution moléculaire (1977) et l’Inconscient machinique (Recherches, Paris, 1979), et les Trois Écologies (Galilée, Paris, 1989)
  3. N.d.R.: il phylum è il ceppo primitivo da cui deriva una serie genealogica
  4. Hans Jonas, le Principe Responsabilité. Une éthique pour la civilisation technologique, Editions du Cerf, Paris, 1990. Trad. it. di Paola Rinaudo, idem, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2009
*Traduzione di Gilberto Pierazzuoli