Napoli, i danni del turismo di massa e la resistenza degli abitanti

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“Qui cambierà tutto. I Quartieri Spagnoli saranno trasformati, diventeranno la Montmartre di Napoli con locali e artisti”. Era l’estate del 2011. Il sindaco Luigi de Magistris, da poco eletto, passeggiava per i vicoli dei Quartieri fermandosi a dialogare con gli abitanti. In quel periodo, un’affermazione del genere suonava ancora come una delle tante “sparate” propagandistiche del sindaco, piuttosto che come prospettiva concreta. Nel giro di pochi anni invece l’impatto del turismo di massa ha stravolto non solo il vecchio quartiere sorto nel Cinquecento per ospitare le truppe del viceré spagnolo, ma l’intero centro storico della città, il più esteso d’Europa.

L’apertura di nuove rotte aeree, il potenziamento dell’alta velocità su ferro e del traffico passeggeri marittimo, la diminuzione dei flussi verso il Nordafrica e il Medio Oriente dovuta al timore di attentati, la connessione istantanea tra domanda e offerta resa possibile dalle nuove piattaforme digitali, ma anche la popolarità di libri, film e serie tv che hanno la città come sfondo (si pensi al successo internazionale dell’Amica geniale), sono tra le cause principali di questo travolgente aumento dei flussi turistici.

Il numero dei visitatori in città raddoppia nel giro di tre anni, passando da circa un milione e mezzo di arrivi nel 2010, ai circa tre milioni registrati nel 2013. Una tendenza che si conferma negli anni successivi, fino ai 3,7 milioni di presenze rilevate dall’Istat nel 2018. Dopo la pandemia, i numeri ricominciano a crescere e alla fine del 2022, nei quindici giorni delle festività natalizie, solo a Napoli si registrano 300 mila ospiti di alberghi e b&b e 415 mila passeggeri in transito all’aeroporto di Capodichino, con una flessione di appena il 4% rispetto al periodo pre-Covid.

L’impatto del turismo si concentra nel centro storico, dove la densità abitativa è più alta che nel resto della città, la fatiscenza degli immobili più diffusa e molti residenti si trovano in condizioni abitative e lavorative precarie; un’area in cui la maggioranza degli inquilini sono affittuari, non di rado senza contratto, e dove si registra una forte concentrazione della proprietà immobiliare. Tutti fattori che hanno contribuito all’impennata degli affitti a breve termine per uso turistico, il fenomeno che sta convertendo il centro storico napoletano in una sorta di “albergo diffuso”, con forti aumenti dei canoni d’affitto e del valore al metro quadro delle case. In circa cinque anni gli alloggi Airbnb a Napoli sono aumentati del 500%, passando da poco più di mille annunci nel 2015 agli oltre ottomila di inizio 2020. E la pandemia non ha invertito la rotta.

L’innalzamento del costo della vita, il cambio di destinazione d’uso degli immobili, l’erosione degli spazi pubblici, sembrerebbero, secondo un discorso in voga, quasi un prezzo accettabile da pagare di fronte all’improvvisa crescita delle occasioni di impiego nei settori direttamente al servizio dell’esperienza turistica, in particolare l’ospitalità e la ristorazione.

La nascita di nuovi esercizi, in effetti, ha moltiplicato le possibilità di occupazione, ma è dubbio che abbia messo in moto un reale meccanismo di redistribuzione della ricchezza. È evidente che le nuove attività stanno dando lavoro a tanti camerieri, baristi, receptionist, inservienti o commessi, manodopera instabile e scarsamente qualificata composta da proletari italiani e stranieri, ma anche studenti e studentesse in cerca di impieghi temporanei. Si può ipotizzare che all’interno di questi ambiti ci sia un’ampia fetta di lavoro nero, grigio, irregolare, e in definitiva molta precarietà, ma non esistono ancora ricerche approfondite in grado di determinarne la reale entità.

Al centro di queste dinamiche, in ogni caso, non sono (ancora) gli investimenti del grande capitale finanziario, e nemmeno i piani di riqualificazione incentrati sulla collaborazione pubblico-privato, come in tanti altri casi di riconversione turistica dei centri storici nelle grandi città europee. Sebbene si registri la tendenza a una progressiva concentrazione degli operatori economici, il profilo dei nuovi imprenditori coincide in molti casi con quello degli abitanti, sia storici che di recente provenienza, i quali agiscono in assenza di supervisione pubblica, con investimenti relativamente contenuti e in una prospettiva imprenditoriale all’insegna del “cogliere l’attimo”.

L’intervento municipale nelle trasformazioni urbane ha invece segnato il passo da tempo, condizionato da limiti strutturali – la mancanza di risorse, la riduzione dell’organico comunale – ma anche dalla priorità sempre più spesso accordata alla dimensione immateriale e simbolica delle politiche. Accade così che ampi margini di manovra vengano lasciati ai principali attori economici di questi processi, i quali sono guidati innanzitutto dal soddisfacimento delle proprie esigenze e dall’obiettivo del profitto. Un tipo di “laissez-faire” che sta generando esiti controversi in un contesto storicamente segnato da diseguaglianze e fragilità di vario genere.

Ad affiancare l’iniziativa diffusa e parcellizzata, si registra così da un lato il progressivo consolidarsi di agenzie di intermediazione private (locali e nazionali), dall’altro il ruolo attivo di istituzioni come la Chiesa, le università locali, i grossi enti del terzo settore, strutturalmente dotati di ampie risorse (mobiliari e immobiliari), di forti capacità di influenza sui livelli istituzionali e di un’ottima reputazione nei confronti dei media.

Sulle conseguenze che questo comporta, per la vita degli abitanti e per la forma stessa della città, cominciano a comparire le prime analisi documentate, per esempio sul settore dell’abitare, mentre altri ambiti, come quello del lavoro, scontano la difficoltà nel reperimento dei dati e restano ancora inesplorati. Anche per questo, la percezione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica è sostanzialmente superficiale, affidata quasi esclusivamente a cronisti locali e opinionisti che si limitano a ricalcare il punto di vista dei maggiori attori in gioco, siano essi pubblici o privati, imprenditoriali o istituzionali. Sempre più urgente quindi diventa lo sviluppo di punti di vista critici e documentati in grado da un lato di sollecitare un articolato intervento pubblico, dall’altro di stimolare iniziative capaci di porre un argine al dominio del profitto e delle narrazioni addomesticate, mantenendo vive le domande sul futuro del centro storico e dell’intera città.

Napoli Monitor per La Città invisibile

Le reti sociali per il diritto all’abitare di Napoli hanno lanciato l’assemblea “Restiamo abitanti della nostra città” che avrà luogo mercoledi 10 maggio alle 18 presso il Cortile di Santa Chiara in piazza del Gesù. Qui l’evento Facebook facebook.com/SetNapoli/photos/2725677474241526

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Napoli Monitor è stato un mensile cartaceo, in edicola dal 2006 al 2014. A partire dal 2010 è un sito di informazione e approfondimento. Dal 2015 pubblica anche libri e dal marzo 2018 la rivista “Lo stato delle città”.

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