PERCHE’ RECLAIM THE TECH
Sul grande schermo appaiono le immagini di tre persone: “Daniel vive in Kenya, Isabel in Irlanda, Maria nelle Filippine: di lavoro fanno i moderatori, ovvero ripuliscono le piattaforme social mainstream da materiali proibiti. Per farlo sono costretti a visionare per ore e ore – con pause contingentate e turni di notte – stupri, torture su persone e animali, violenze indicibili su bambini, contenuti dai quali devono tutelarci. A causa dello stress vivono condizioni di insonnia, ansia e depressione”.
Siamo a Bologna, al centro sociale TPO. A parlare dal palco è Lilia Giugni, docente universitaria, femminista e attivista. La platea è silenziosa, le espressioni sono smarrite, disgustate, preoccupate. “Tolleriamo che esistano persone costrette a visionare per ore e ore materiali pedopornografici, violenze inaudite e stupri per poter consentire a noi di navigare in rete protetti?”. Lilia ci lascia appena il tempo di incassare il colpo poi mostra un’altra foto: due bambine con la pelle nera sono sedute accanto a un negozio, all’aperto, sul cordolo di un’aiuola, con i loro telefonini. Due vigilantes le stanno osservando e sembrano indecisi sul da farsi: “Qui siamo a Salinas, California – riprende Lilia – a pochi chilometri dalla Silicon Valley, dove hanno sede le grandi multinazionali del tech dai profitti milionari. Durante il periodo pandemico le due ragazzine vengono fotografate mentre cercano di scroccare il wi-fi di un fast food per seguire la didattica a distanza e non perdere la scuola. La loro mamma è una donna messicana, single, migrante con tre figli, due lavori, zero tempo e pochissimi soldi: vivono in un’unica stanza in affitto e non hanno il wi-fi perché nessuno nel loro quartiere ce l’ha. Quello che ci chiediamo è: quali sono le ingiustizie che la tecnologia, e il modo in cui la tecnologia è prodotta e distribuita, producono su donne, persone non bianche, povere, immigrate, disabili e minori?”. Lilia Giugni ha studiato a Cambridge dove oggi insegna, e ha scritto in italiano e in inglese il libro La rete non ci salverà (Longanesi), sulle mancate promesse della rivoluzione digitale e su come questa al contrario stia rinforzando forme di sfruttamento, abuso e marginalizzazione di milioni di persone, in particolare donne. Lilia Giugni è anche tra le organizzatrici di “Reclaim the Tech” il festival che si è svolto dal 4 al 7 maggio scorsi a Bologna, un’officina di saperi e pratiche per la giustizia digitale sociale e di genere, nata con l’obiettivo di scambiarsi idee e costruire percorsi che rimettano le tecnologie digitali al loro posto, ossia al servizio di persone e comunità.
Nel suo libro e nella sua introduzione al convegno, Lilia condivide storie che sono anche denunce, e che giustificano il crescente disagio degli utenti più consapevoli. L’inquietudine riguardo al potere della rete è in aumento perché non capiamo dove ci sta portando l’intelligenza artificiale, quale sia l’impatto degli algoritmi sulle nostre vite, dove finiscano tutti i dati che stiamo regalando a destra e a manca, e quanto un sistema così sfuggente impatti sulle nostre democrazie, contribuendo a concentrare il potere in poche mani e facilitando derive politiche autoritarie. In questo scenario, tuttavia, continua Lilia Giugni, “non abbiamo alcuna tentazione luddista, perché le tecnologie digitali potrebbero migliorare la vita e garantire diritti a milioni di persone, ma ci sono alcune condizioni imprescindibili perché questo sia vero, condizioni attualmente disattese”.
HA FATTO ANCHE COSE BUONE
Per avere un esempio della rivoluzionaria utilità sociale della rete, occorre risalire al gennaio 1994, quando gli indigeni del Chiapas messicano consegnarono a internet il loro primo comunicato: “La prima dichiarazione della Selva Lacandona”. Fu una novità epocale: gli zapatisti si rivolsero al resto del mondo senza mediazioni, e da una zona considerata periferica e remota scoccò la scintilla di un movimento che divenne mondiale, denunciò l’esproprio di beni comuni in corso a livello globale, incendiò le piazze e fu in grado di bloccare alcuni pericolosi trattati internazionali di stampo neoliberista. Per la prima volta, quel giorno, i grandi gruppi editoriali padroni dell’informazione capirono che i loro sforzi propagandistici potevano essere elusi da uno strumento aperto, capillare, democratico, evoluto, e si sono messi al lavoro per cavalcare quella forza. Da allora sono trascorsi trent’anni, durante i quali la rete è diventata il simbolo della rapacità neoliberista: un campo totalmente deregolamentato dove i vantaggi tecnologici e di saperi, quelli economici e quelli politici si sovrappongono, sommandosi, moltiplicandosi, creando profitti inimmaginabili a chi sa approfittare di questo nuovo far west. Se questa crescita tumultuosa ha avuto da sempre voci contestatarie che ne hanno segnalato i rischi e che hanno proposto alternative su basi opposte, come ad esempio il barbutissimo guru del software libero Richard Stallman, inventore del sistema operativo Linux, oggi la contestazione arriva anche dal mondo istituzionale: lo scorso mese di aprile il Garante della Privacy è arrivato a bloccare Gpt4, chatbot di Intelligenza Artificiale (IA) sviluppata dall’azienda statunitense OpenAI., per la mancanza di una chiara informativa sulla privacy rivolta agli utenti.
INTERSEZIONALITA’, SEDIE VUOTE E CAMPAGNE
Il popolo che affolla il convegno Reclaim the Tech è (finalmente) davvero intersezionale: accanto al misterioso e notturno popolo dei cosiddetti smanettoni, ci sono altre individualità e gruppi organizzati: realtà queer, persone disabili, mamme, attiviste femministe, mediattiviste, unite da un comune intento, quello di non demonizzare la rete e di voler agire per restituirle un ruolo pubblico, sociale e democratico. Nella sua policy il festival RTT si è dichiarato luogo intersezionale e rispettoso delle molteplicità, consapevolmente “DENTRO, CONTRO e OLTRE”: dentro il limite personale e soggettivo, riconoscendo i bisogni degli individui al di là dell’attivismo; contro le regole imposte dalle multinazionali del tech; oltre le prescrizioni, perché nessuno può venire a dirci come ci dobbiamo comportare.
“Sono tante le sedie piene in questa sala oggi, ma non possiamo tacere il fatto che qui abbiamo ancora troppe sedie vuote”. Lilia fa una pausa, dietro di lei appare un volto femminile i cui occhi bistrati ci hanno tormentato per giorni e giorni dalle cronache: è Tiziana Cantone, la cui vicenda è un’altra storia che grida vendetta: “Tiziana è stata uccisa dal capitalismo digitale”, dice Lilia. Per comprendere la storia di Tiziana bisogna fare una digressione e capire come funziona oggi la rete e cosa sono i clickbait (gli acchiappaclic), quei contenuti sensazionalistici e stuzzicanti progettati per raccogliere clic immediati e generare traffico. Le multinazionali del tech hanno come primo obiettivo quello di trattenere le persone online il più a lungo possibile: più tempo si trascorre su internet e più aumenta l’efficacia delle inserzioni pubblicitarie, più si compra, si spende, si cade in occasioni di acquisto spesso improvvide, si consegnano insomma i nostri gusti e orientamenti al “grande profilatore”, dandogli l’opportunità di proporci acquisti sempre più irresistibili. Tiziana Cantone nel 2015 era diventata un clickbait quando alcuni suoi video intimi, espliciti, erano stati diffusi con tanto di nome e cognome diventando virali nel pornsharing, su Facebook, nelle chat, ovunque, dando vita in rete a una catena di insulti e dileggi, diventando un meme, gettando la donna in una centrifuga mediatica e legale senza ritorno. “Ma attenzione a non farsi abbindolare – ammonisce Giugni dal palco – perché non si tratta di fenomeni naturali o di operazioni casuali: la violenza viene selezionata e moltiplicata. Quel soffiare sul fuoco non è episodico: è un sistema, un business model.” Dopo i linciaggi, le umiliazioni, dopo i “se l’è cercata”, dopo che la sua vita era stata distrutta, dopo aver lasciato il lavoro e la città per la vergogna, dopo enormi spese legali, una sentenza ha sancito che il diritto all’oblio le era negato perché ormai i suoi video erano stati visualizzati centinaia di migliaia di volte e nel frattempo erano state sicuramente realizzate copie che sarebbero rimaste in circolazione: Tiziana si è suicidata il 13 settembre 2016. È una storia che fa male, sotto tanti, troppi aspetti. Fa male alle donne, fa male alla rete, fa male alla dignità collettiva. Lo stato d’animo in sala impone un cambio di passo e Giugni passa dalle denunce alle proposte, a quello che occorre fare perché la storia di Tiziana non si ripeta all’infinito. “Nothing about us, without us deve essere il faro che ci guida, cioè niente che ci riguardi può accadere senza di noi”: quindi sì al coinvolgimento perché la rete ci riguarda. Sì ad algoritmi diversi, trasparenti, a un design tecnologico inclusivo e partecipato, sì al rifiuto di quell’approccio che consente a pochi privilegiati di avere più servizi sfruttando spietatamente chi è dall’altra parte dello schermo. E anche dall’altra parte del mondo, perché la produzione del tech implica oggi un intenso estrattivismo nel sud del pianeta e uno sfrenato utilizzo del lavoro minorile. L’impatto ambientale del capitalismo digitale è uno dei temi ai quali saranno dedicati specifici panel di approfondimento nel corso della tre giorni. Esistono alternative? Sì che esistono, come ad esempio Fairphone, gli smartphone olandesi che vengono prodotti in condizioni di equità.
Nei tre giorni del festival bolognese, un ricco programma di seminari e workshop ha esplorato urgenze e vertenze molto diverse: dal digital divide all’utilizzo della rete su tematiche di genere, dalla progettazione del dissenso all’autodifesa digitale. Si è parlato del furto di dati personali, dell’utilizzo delle tecnologie digitali nella repressione, nelle carceri, lungo i confini europei e nei territori palestinesi occupati. Si è parlato dei rischi del riconoscimento facciale e Amnesty Italia ha rilanciato la sua campagna internazionale “Ban the Scan” per arrivare a un radicale divieto della progettazione, commercializzazione e utilizzo di sistemi di riconoscimento facciale, che violano sistematicamente il diritto alla privacy e che – secondo i risultati di molti studi – accentuano il razzismo sistemico, amplificando le discriminazioni verso comunità già ampiamente marginalizzate, commettendo per giunta moltissimi errori.
ESSERE IL CAMBIAMENTO
La domanda che forse dovresti porti non è “cosa mi importa se tanto non ho nulla da nascondere?” ma “perché dovrei condividere con una macchina cose che, se sommate, non direi neanche alla persona più cara?”. È la dichiarazione iniziale di un fantastico percorso chiarificatore da leggere tutto d’un fiato, pubblicato da Etica Digitale, che spiega in modo finalmente chiaro e semplice perché è importante proteggere la propria privacy: https://privasi.eticadigitale.org/percorso/l0-0___intro/. Se Etica Digitale ha già spiegato tutto al meglio, da parte nostra possiamo aggiungere un elemento di riflessione. Lo stesso vocabolario Treccani ha integrato il lemma “googlare: fare una ricerca attraverso la rete”, dal momento che ormai cercare su Google è diventato sinonimo di cercare su Internet. Ma Google non è la rete, Google è un’azienda privata con precise e aggressive politiche commerciali, spesso ammonita per la sua spigliata gestione dei dati che raccoglie. Il Garante della Privacy italiano e altre autorità per la privacy europee hanno affermato che gli Stati Uniti sono un Paese privo di un adeguato livello di protezione di dati degli utenti. È tempo di porre un argine a questa intrusione, e se la risposta alle grandi ingiustizie non può che essere collettiva e politica, non vanno trascurate le alternative concrete che la rete mette a disposizione di ciascun* per navigare in sicurezza e in equità: non è la rivoluzione ma è almeno una non-adesione, un “not in my name”, la forma di coerenza che ci è consentito esprimere all’interno di un sistema così ingiusto. Perché non è vero che non ci sono alternative (There is no alternative, T.I.N.A.) se con intelligenza, impegno e generosità sono stati sviluppati sistemi che stanno nel presente, consentono tutti i più moderni utilizzi della rete e al contempo sono open-source, dunque liberi, aperti, trasparenti, sicuri. Un browser alternativo a Google Chrome per pc desktop? C’è Firefox, meglio se con appropriate estensioni tipo cookieautodelete e canvasfingerprintdefender; un browser per smartphone è Brave; uno store alternativo a Play Store è F-Droid, archivio di app gratuite e open-source all’interno del quale tutti i prodotti che si trovano sono affidabili e sicuri. Come motore di ricerca è possibile iniziare a impratichirsi installando la APP Duckduckgo o Startpage. Come alternativa a Twitter c’è il social network Mastodon, il più grande social network decentralizzato che fa parte del Fediverso, una comunità internazionale senza proprietario, open source, senza pubblicità, che non raccoglie i dati degli iscritti. E se è difficile astenersi dall’utilizzo di Youtube, si può almeno provare ad accedervi senza tracciamenti e pubblicità, utilizzando Free Tube per pc desktop o New Pipe per lo smartphone. È possibile anche accedere a Facebook impedendogli di raccogliere informazioni su di noi e le nostre abitudini installando Facebook Container per pc desktop o Slim Social per lo smartphone. Per videoconferenze libere e open-source ci sono Jitsi e BigBlueBottom che consentono di abbandonare Zoom, Google Meet, Microsoft Teams e Skype. Questo breve almanacco non esaurisce il campo del possibile (e disponibile), ma si possono consultare eticadigitale.org e lealternative.net, blog specializzati nella proposta di alternative etiche alle solite big-tech, dunque sistemi che rispettino il più possibile la privacy, che siano possibilmente open source e che abbiano un background il più possibile etico. I limiti ovviamente ci sono, e in questi stessi portali viene dichiarato che si tratta di giusti compromessi, non di alternative perfette, dopodiché ognuno è libero di scegliere come, quanto e a chi “regalare” i propri dati.
Le scelte individuali non risolvono l’impegno che ci è richiesto: in quanto cittadini globali a noi spetta il compito di avviare e moltiplicare percorsi di educazione, advocacy, dissenso e conflitto: tutto quello che può creare pressione sui decisori, privati e pubblici.
NURTURE RADICAL IMAGINATION
La tre giorni bolognese Reclaim The Tech ha nutrito la conoscenza e acceso la coscienza, accompagnando i partecipanti in un percorso, dolce, di autocritica che è sfociato in modo naturale nell’impegno a cambiare per prima cosa alcune radicate abitudini. Ma non è stato solo questo. Ha creato l’occasione per stringere insieme comunità diversissime, consegnando loro un vocabolario comune con cui comunicare da ora in poi. Ma c’è di più: il cuore del festival è stato l’invito iniziale ad allenare l’organo dell’immaginazione politica, il muscolo dell’utopia, e a non smettere mai di cercare modi più giusti, rapporti più equi e una dimensione dell’impegno che non deve mai compromettere il benessere della persona. Coerentemente con queste premesse, l’organizzazione ha predisposto uno spazio DETOX, pensato per le persone nello spettro autistico, statisticamente più numerose tra chi si occupa di tech, ma a disposizione di chiunque desiderasse appartarsi e rilassarsi: in questi dettagli è stato espresso un livello alto di cura, di rispetto verso la comunità e verso un benessere personale che partecipi a quel “bene comune” per il quale eravamo convocati. Perché siamo corpi sensuali e vulnerabili, non macchine, e se domani l’intelligenza artificiale potrà superare i trecento trilioni di connessioni del cervello umano, ci resterà sempre un primato fondamentale: la capacità di sognare e il desiderio, tutto umano, di incontrarci per confrontare i nostri sogni e organizzarci per realizzarli insieme.
Breve elenco di testi per approfondire alcuni dei contenuti di RTT
“Inferno digitale” di Guillaume Pitron, Luiss University Press 2022
“Invisibili” di Caroline Criado Perez, Einaudi 2022
“Il potere delle donne” di Denis Mukwege, Mondadori 2022
“Capitalismo digitale” di Nick Srnicek, Luiss 2017
“Dentro l’algoritmo” di Donata Columbro, Effequ 2022
“#Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole” di Federico Faloppa, Utet 2020
“Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio” di Claudia Bianchi, Laterza 2021
Camilla Lattanzi
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