Il soffio che manca alle AI (Intelligenze Artificiali)

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L’incontro con l’altrə è amore, odio, apprensione, timore, vergogna, angoscia e piacere. Sottoposti ai processi di in-dividuazione messi in atto dai dispostivi digitali come per esempio i social, si è persa l’occasione dell’incontro. Siamo all’apice di una strategia di in-dividuazione e di silenziamento dei caratteri dialogici dei rapporti e delle relazioni, sia intra-specie sia tra specie diverse. Una tendenza già in atto che si basa sulle tecnologie relazionali (di contrasto alla relazionalità stessa) come la scrittura prima e l’infosfera dopo. Tecnologie che creano forme di differimento attraverso le quali ci si relaziona al di fuori della presenza.

C’è tutta una storia dell’affermarsi della tecnica della scrittura. Della ricerca di una sua indipendenza dalla voce, della capacità di soppiantarla mettendo così a tacere le culture orali. Ma ci sono state sacche di resistenza.

Anche quando i Greci hanno introdotto i segni per la ‘e’ aperta e per la ‘o’ lunga avvicinandosi ad un sistema fonetico che riuscisse cioè a rappresentare il totale dei suoni in uso nella lingua, questa operazione non è stata completata: il segno dell’eta usato precedentemente per i suoni aspirati, diviene infatti il segno che rappresenta la e aperta, ma (ad Atene) non viene sostituito con alcun altro segno, lasciando aperto e sottolineando il valore dialogico della lingua. Quando a Taranto si adottò l’alfabeto ionico si usò infatti come notaziome per la e aperta la eta (H), ma, nello stesso tempo, si introdusse un nuovo segno: si privò il segno “H” della sua parte posteriore ottenendo così un segno costituito da una barra verticale dalla quale si articolava un trattino verso destra, questo segno stava per l’aspirata o pleuma. La lingua è fatta per dialogare ed il soliloquio, in questa cultura, non è strumentalmente nemmeno pensabile.

La non sostituzione del segno per l’aspirata, fu un atto di democrazia, nel senso di apertura al dialogo con l’altro, che gli ateniesi compirono nel 403 a.C. Si tratta di una data particolare, la fine dell’oligarchia tirannica dei Trenta appoggiati da Sparta. Nell’autunno del 404 si scatenò la rivolta dei democratici capeggiati da Trasibulo che vinsero varie battaglie l’ultima delle quali si svolse nell’estate del 403 a Munichia. La fine delle ostilità, celebrata con un sacrificio solenne sull’Acropoli, si apre poi con un’esortazione ad una concordia da ritrovare tramite anche un atto che consistette nella prima amnistia della storia.

È un momento nel quale si prende atto di una tensione che testimonia la difficile unità della popolazione. La guerra civile, la guerra interna, è per un Ateniese il male peggiore che possa manifestarsi nella storia della città. Occorre che il dibattito, per quanto aspro, porti poi ad una condivisione; occorre, se non l’unanimità, una ripartizione che non sia una spaccatura. Adesso, nel 403, la fine di una guerra civile con l’auspicio espresso da Atena nelle Eumenidi di una vittoria che non sia cattiva, che non sia cioè «vittoria di una parte della città sull’altra». In questo ambiente, in questa atmosfera, si compiono una serie di riforme, tra queste anche quella dell’alfabeto. Una legge del 402 stabilì che i magistrati potessero applicare soltanto leggi scritte dando un colpo importante alla tecnica di conservazione della memoria collettiva per via orale, ma non si osò mettere del tutto a tacere la voce, perché, tramite essa, era ancora possibile il dialogo, la disputa che unisce e non divide. La voce, il soffio, il pleuma, lo spirito stesso (quello che si soleva rappresentare con il segno dell’eta (H)), che rimaneva e che non avrebbe avuto un segno, una possibilità cioè di trascrizione alfabetica. Il segno dell’eta (H) trasmigrò dal pleuma alla e aperta ma non fu sostituito sancendo il divorzio tra voce e scrittura. Aprendo la strada a un percorso nel quale il visivo dovrà soppiantare i sensi prossemici. Come se il soffio dovesse sempre essere in voce e non in scrittura, perché il pleuma potesse ancora spirare e, nel dialogo, con-vincere. La comunicazione umana è soffio. Un soffio che fa resistenza nella bocca degli umili.

Anche in epoca rinascimentale, testimonia Febvre, l’impianto visivo non ha ancora sop­piantato gli altri sensi: “E tutta questa poesia è così piena di rumori e carica di profumi […]”, o ancora più avanti, dove la descrizione di una splendida dimora: “Linee, dunque, colori, disposizioni, prospettive, tutto il piacere degli occhi? No. Suoni rumori, voci, il piacere delle orecchie» Il poeta «guarderà le ninfe che si divertono? No. Le ascolterà”. Ed un giardino non sarà il tripudio degli occhi, ma il piacere del naso travolto dai loro profumi. Ma la visione stessa aveva comunque una valenza anch’essa diversa da quella odierna.

Una caratteristica fondamentale della mentalità protocristiana e di quella medievale era di considerare tutt’altro che arbitraria o soggettiva la funzione significante, simbolizzante e allegorizzante; nei simboli si vedeva la rappresentazione obbiettiva e l’espressione fedele di vari aspetti di un universo percepito come largamente e profondamente dotato di senso.[1]

Il rapporto tra scrittura e voce con il silenziamento di quest’ultima; con il trionfo del carattere visivo sugli altri sensi, è un processo che non smette di lavorare nello sviluppo storico dell’Occidente. In epoca moderna, in questa operazione, alla scrittura si aggiungono i media che permettono la conservazione e la loro riproduzione infinita. La festa e i rituali in presenza avevano conservato il carattere creativo e mitopoietico delle reciprocità dei rapporti. Anche quando il dialogo in presenza si fa più raro, sopravvive e si espande il racconto. Il con-essere degli umani, al di là dei momenti utilitaristici, si manifesta nel raccontare storie che permeano il mondo di significazione; che non lo spiegano, ma lo fanno. Non c’è soltanto la storia in quanto narrazione inserita in quella rappresentazione iconologica del racconto intorno al fuoco, ma la capacità umana di trasformare le corrispondenze e le correlazioni in storie. Abbiamo una tendenza a percepire connessioni e significati tra cose anche se non sono collegate (apofenia) e gli algoritmi di deeplearning non ci sono da meno (Vedi qui le correlazioni più bizzarre). Ma quello che ci distingue è la nostra capacità di trasformare la nostra percezione in storie. In un breve video clip, si vedono fluttuare su uno schermo alcune forme geometriche: “Mentre si svolge la scena nella mente dell’osservatore emerge una narrazione sconcertante: sembra che il triangolo grande stia attaccando il triangolo più piccolo e un cerchietto che corre al riparo. Dopo un lungo andirivieni, le due forme più piccole riescono a fuggire, mentre il triangolo più grande fa a pezzi il grande rettangolo che lo contiene” (Mubeen 2023, p. 114). Molti degli spettatori antropomorfizzarono la scena trasformandola in una rappresentazione di violenza domestica. (Esperimento di Fritz Heider e Marianne Simmel 1944), qui il video. Il processo di significazione degli elementi percettivi e la creazione di una storia è una caratteristica dei cervelli biologici. Ogni segno percettivo non è un dato, ma una relazione. La memoria non corrisponde a un luogo con tante caselle dove il dato si possa depositare. Il segno percettivo, la sua traccia mnestica, è una configurazione neuronica complessa e multistrato che intrattiene numerose interrelazioni con altri segni in modo tale che la figurazione si con-figuri come contesto o ambito. Si configuri in qualcosa che è il senso. Il senso non è perciò contenuto in un singolo evento o dato, ma in quella relazione. Anche le relazioni sono complesse, sono evocative, di causazione, logiche, fantastiche e ne riflettono una che è la ragione fondativa originaria che è l’incontro con l’altrə. Si narrano infatti, nel bene e nel male, soltanto storie coinvolgenti. Ogni storia ha così un carattere empatico di attrazione o di respingimento, di apprezzamento e/o di disgusto. Ogni storia è pregna di desiderio.

Le tecniche mnemoniche si appoggiano spesso a una specie di storyboard. Giordano Bruno, Pico della Mirandola, Leibnitz si affidavano a una tecnica attraverso la quale poter costruire quell’edificio della memoria che il cervello non ha. È un teatro o una sequenza ordinata con un qualche criterio di stanze. Ogni casella non è neutra ma contiene un carattere della storia. È come una stazione della via crucis.

L’operazione mnemonica è allora inserire gli elementi da ricordare in una storia che si dipana di stanza in stanza, di stazione in stazione. Inserire ogni clip sullo storyboard. Ci ricorderemo così le storie e non i singoli eventi; questi emergeranno da soli nelle storie. La capacità di raccontare storie economizza il processo mnemonico. Un criterio economico usato peraltro nel fatto che i cervelli biologici usano i dati già in memoria per accogliere il nuovo “dato” che verrà memorizzato attraverso la sua relazione con il resto della configurazione. La memoria è così una lunga concatenazione dei dati. In un certo senso è quello che farebbero gli algoritmi linguistici generativi che collocano ogni occorrenza nel punto statisticamente più appropriato della catena linguistica. Ma c’è una differenza: la collocazione statistica non è supportata da una storia; da un senso; non trasporta ne contiene intenzionalità; non contiene seduzione, inganno, né logica. La parola algoritmica ha come unico senso l’algoritmo di scopo: ora la massimizzazione del profitto che si articola nelle subroutine di profilazione e di propaganda. La concatenazione linguistica digitale è tendenzialmente lineare, quella biologica è tridimensionale e reticolare. La conoscenza umana, compresa l’intelligenza matematica, è incarnata, emotiva e soggettiva” dice il matematico Junaid Mubeen (2023, p. 25)

Il pattern matching del computer è l’estrazione di ricorrenze e modelli all’interno di un coacervo di dati. Anche noi facciamo qualche cosa di simile. Ma il lavoro automatizzato della macchina pescherebbe un’infinità di ricorrenze “insignificanti”. Per questo è quasi sempre subordinato a delle clausole che dipendono molto dalla nostra etichettatura. Anche noi abbiamo un alfabeto di riconoscimento e di costruzione dei pattern sia verbali che di immagini. Per quelli verbali usiamo pattern contenuti in quella che Saussure chiama “langue”, lingua, che non è come vorrebbe apparire, un insieme di termini stabili e di regole date una volta per sempre. L’alone semantico stesso e la sua pertinenza sono infatti filtrati dall’uso e dall’ambito storico e socioculturale. La presa di parola è un atto che ha effetti immediati nell’interlocutore, il cui feedback rimodella la significanza e con essa la relazione. Come in un rituale di accoppiamento tra uccelli. La mossa, la danza, il canto. L’allontanamento e l’avvicinamento. Il tono. Ogni pattern viene ricostruito continuamente con materiale acquisito ma anche con le nuove informazioni prodotte al momento. Ogni pattern umano (o animale) è un accidente, ma anche una mano tesa o offesa. Ci sono ricorrenze (configurazioni sinaptiche acquisite) ma anche invenzioni, gesti creativi ma non fini a se stessi. Gesti che devono esprimere una qualche performance nei confronti dell’altrə. Tutto quello che riusciamo ad automatizzare lo usiamo come ripetizione che libera spazio per l’istaurazione della differenza. Una differenza che si costituisce a partire da una somiglianza. Con il totalmente altrə, parlare di differenza non ha senso. L’ambiente delle intelligenze biologiche è elastico secondo vari criteri. Il primo è la sua plasticità. La capacità di riconfigurarsi a partire però da architetture automatiche che liberano la cognizione da compiti ripetitivi o dal sopraggiungere del medesimo. Ma anche perché è un ambiente mondo nel quale la tolleranza e il gioco sono fondamentali. Ritorno sull’esempio del dado e bullone tra i quali ci deve essere “gioco”. Dei freni dei veicoli che devono avere uno spazio iniziale di inefficienza (anche questo però ora automatizzato tramite la tecnica dell’ABS) per non avere esiti repentini e traumatici. Ogni nostra attività deve avere uno spazio inutilitario e di inefficienza. Ma non si tratta del “riposo del Guerriero” ma di un’esigenza di confronto continuo con l’altrə con cui costruire nuovi spazi accoglienti. Non spazi costruiti sulla falsariga della legge e/o in opposizione alla stessa. Non quegli spazi per riposarsi dopo la fatica del ripetersi del dover fare. Spazi invece che agiscono dall’interno e che contaminano l’automazione stessa. Che si instaurano, nell’ombra, nella piega, negli interstizi. Uno spielraum che è consustanziale alla norma acquisita e totalmente anomico. Soglie tra lo spazio della rappresentazione e l’indeterminazione dei suoi confini. Dove il campo di forze che si costruisce nei rituali di accoppiamento (non soltanto sessuale) diminuisce la sua portata ma è ancora attivo.

Uno spazio relazionale e condiviso tramite il gesto estetico e non funzionale.

La macchina, la sua sudditanza allo scopo, non può essere elastica. La macchina del capitale non si può permettere questi spazi. La logistica è questo sforzo algoritmico di comprimere questi spazi residui. La logistica tira l’elastico creando di fatto un mondo più fragile e meno abitabile. Ora l’elastico è molto teso e i margini di gioco rimasti sono sempre meno. Adesso il mondo capitalistico, anche quello di cui sarebbe difficile immaginarsi la fine, si confonde con la fine del mondo da più parti e da più tempo già immaginata.

Un soffio che manca alle AI, ma anche un soffio che le AI, queste Ai contrastano. Tutto il piano dell’indecisione, quello che è al di fuori dell’automatismo, il piano morfogeneticamente attivo è invece, nelle mani del capitale digitale, un piano di indifferenza. Un piano dove non si mostrano le novità ma quello in cui ha spazio di azione la menzogna. Le false correlazioni, il lavoro dei bias cognitivi che inquinano i dataset. Lo spazio dove si dispiegano le esclusioni di genere, di colore, di ceto. Dove si crea marginalizzazione. Dove si sprecano risorse preziose.

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Lucien Febvre, Il problema dell’incredulità nel secolo XVI, Einaudi Torino 1978

Altri libri citati: Junaid Mubeen, L’intelligenza matematica.Cosa abbiamo che le macchine non anno, Einaudi, Torino 2023

Le immagini sono state generate da una AI su indicazioni testuale dell’autore.

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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