Sciopero Mondo Convenienza: intervista a Luca Toscano e Francesca Ciuffi dei SICobas

  • Tempo di lettura:10minuti

L’intervista si è svolta a metà mattinata di mercoledì 28 giugno, al 29° giorno di sciopero, poco dopo aver impedito (nuovamente) ai camion di Mondo Convenienza di varcare i cancelli dell’azienda, e quindi di effettuare le consegne previste. Cotti dal sole e dal calore dell’asfalto, Francesca e Luca si riparano all’ombra di un albero e si prestano a rispondere a due domande: la prima specifica sulla vertenza e la seconda più generale sul significato politico delle lotte portate avanti in questi anni. Dal momento che gli intervistati hanno parlato a nome del sindacato e che si sono divisi gli interventi in maniera spontanea, sul momento, si è deciso di restituirli nella trascrizione come un unico discorso, evitando così di personalizzare i contenuti.

A che punto siamo per quanto riguarda la vertenza? Situazione e aspettative.

Siamo al 29° giorno di sciopero e di presidio permanente, lo sciopero sta andando avanti a oltranza e si sta allargando. Si è allargato in questi giorni sia su altri appalti di Mondo Convenienza, prima a Bologna e poi a Roma, e continua ad allargarsi tutti i giorni qua a Campi Bisenzio a livello di partecipazione dei lavoratori al picchetto. Ieri, 27 giugno, si è tenuto il primo tavolo con la Regione Toscana che è fallito dopo otto ore di trattativa. Il motivo è semplice: non può esserci una trattativa con un’azienda che rifiuta addirittura di registrare il tempo di lavoro e quindi di retribuirlo. Quindi qualsiasi tentativo anche solo di graduare un percorso di regolarizzazione e di applicazione di un contratto degno a questi lavoratori non è potuto neanche iniziare. Dopo otto ore abbiamo potuto constatare questa cosa.

Poi un’altra cosa che dobbiamo aggiungere, perché non tutti ce l’hanno chiara ma invece è molto importante, è che da ventinove giorni, da quando lo sciopero è iniziato, noi siamo sempre davanti ai cancelli, 24 ore su 24, dormiamo qua, e questa cosa è possibile anche grazie a una solidarietà molto larga, che c’è stata fin dal primo giorno e che continua ad allargarsi. Anche il fatto che siamo ancora qua dopo che per una settimana è arrivata la polizia, una volta al giorno o anche più di una volta a giorno, a provare a sgomberarci per far passare i camion, è stato possibile grazie da una parte agli altri lavoratori del sindacato che da Prato e da qua intorno a Campi Bisenzio hanno fatto giornate di sciopero per essere qua, o magari sono arrivati dopo i turni di notte, dopo essere usciti alle 6 stavano qua tutta la mattina a resistere allo sgombero, sia dall’altra grazie a persone solidali che da Firenze, da Campi ecc. vengono, mettendo a disposizione il proprio corpo e la propria forza per portare avanti questa lotta. Secondo me questa è la vera forza di questo sciopero. Perché poi in queste condizioni di lavoro che vediamo a Mondo Convenienza fatte di appalti, contratti di cosiddetto lavoro povero, paghe da fame ecc. ci sono veramente milioni di persone in Italia. A noi in questi giorni è capitato di parlare con lavoratori solidali e di scoprire che anche loro erano assunti con contratto multiservizi, che lavorando in appalti pubblici, nelle portinerie della Regione, dell’ASL ecc., prendevano 5,50€ all’ora e quindi penso che questa lotta sia importante veramente per tante persone. Che stia diventando un simbolo, di lotta contro questo sistema di lavoro, di contratti che dal pubblico al privato riguarda veramente milioni di persone in tutta Italia.

Il nodo è questo: appalti come sistema per abbassare il costo del lavoro ma anche per abbassare le condizioni di vita; la questione del salario, che coinvolge tutti, perché nessun lavoratore o lavoratrice che svolge alcuna mansione dovrebbe avere un salario come quelli che ci sono qui: dai 1.180€ lordi ai 1.300€ lordi, cioè vuol dire lavorare 40 ore la settimana per poco meno o poco più di 1.000€ al mese, che già prima ma soprattutto oggi con l’inflazione è un salario che non permette neanche livelli minimi di sopravvivenza che dovrebbero essere garantiti anche a livello costituzionale per una giornata lavorativa di questo tipo. E questo vuol dire che per alcune situazioni come quelle delle pulizie, delle mense, degli appalti pubblici, ci sono persone che vivono sotto la soglia di povertà. In altri contesti produttivi, come quelli della logistica o dell’industria vuol dire l’allungamento della giornata di lavoro oltre ogni limite: 12, 13, 14 ore al giorno per arrivare ad un salario minimo che dovrebbe garantire la sopravvivenza, che chiunque dovrebbe raggiungere con un massimo di 40 ore settimanali. Quando noi parliamo di rivendicazione del contratto della logistica non si tratta di una questione specialistica, “sindacalese” o tecnica, ma che il lavoratore dovrebbe avere un contratto di cui può rivendicare l’applicazione al datore di lavoro. Il contratto di lavoro deve essere una garanzia per il lavoratore, non un arma per il ricatto da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore. Oggi in tantissimi posti di lavoro purtroppo vale la seconda ipotesi: è il datore di lavoro che dopo che impone un contratto vergognoso, impone delle condizioni peggiori addirittura di quel contratto, ad esempio con straordinari non pagati (o non pagati secondo quel contratto), impone di lavorare senza le condizioni di sicurezza, perché detta le condizioni per raggiungere quel minimo di salario vitale per la riproduzione del lavoratore.

Dicevate giustamente, e lo vediamo, che questa battaglia è di tutti, perché sono tantissime le persone che si trovano costrette ad accettare queste condizioni di lavoro, e in particolare perché tenere basso il costo della forza lavoro migrante, facendo leva sul ricatto del permesso di soggiorno e su altre condizioni di svantaggio strutturale ,permette di mantenere più bassi i salari in generale. Il tema del lavoro si lega così alla questione dei diritti civili e alle condizioni di vita in generale. Oggi però l’immaginario migrante, conteso tra le narrazioni di destra e di sinistra, si inscrive in ogni caso nella prassi neoliberale che storicamente, in Italia come altrove, ha schiacciato queste categorie politiche verso un’accoglienza e un’inclusione limitate sia quantitativamente (si vedano le tragedie che da decenni si consumano nel Mediterraneo) che qualitativamente: il duplice obiettivo rimane mantenere sotto ricatto e in condizione di povertà i migranti per farne forza lavoro a basso costo. Esemplari in questo senso, solo per prendere i casi più recenti, sono le misure adottate durante il Covid [Decreto Rilancio, DL 34/ 2020, ndr] e l’ultimo decreto Cutro [DL 20/2023, ndr].

In questo senso credo che le vostre lotte come S.I. Cobas, o meglio le lotte dei lavoratori che si avvalgono di voi per farsi valere sul posto di lavoro, vadano ad intervenire su un nodo cruciale nella riproduzione di capitale e quindi delle condizioni di sfruttamento lavorativo e di vita non solo di queste persone. Avete qualcosa da dire in proposito?

Noi la vediamo così, che da una parte c’è un insieme di politiche, che sono le leggi sull’immigrazione ma anche le politiche abitative (non solo quindi politiche governative ma anche politiche di mercato), che costruiscono delle condizioni di riproduzione differenziata per la vita degli immigrati, e queste condizioni, come anche quelle legate al permesso di soggiorno, all’accessibilità differenziata sul mercato degli alloggi, una discriminazione sull’accesso al welfare attraverso la residenza ecc., sono costruite in funzione del massimo sfruttamento nella sfera della produzione. Noi queste due sfere le vediamo collegate. Non è un caso che le lotte in questa composizione iniziate a Prato nel distretto tessile sono diventate in poco tempo anche lotte per il permesso di soggiorno, per l’accesso alla residenza anagrafica nel Comune. Toccano la questione abitativa, toccano la sfera della riproduzione, perché non è possibile superare il sistema se non si mette mano anche a queste condizioni. Allo stesso tempo vale il contrario: non è possibile accedere a delle condizioni differenti se non si trasforma il modo e le condizioni in cui si lavora. Le due sfere sono interconnesse. E non c’è solo il distretto tessile: c’è Mondo Convenienza, ci sono tanti magazzini della logistica che sono coinvolti, ci sono intere filiere produttive che, seppur nell’invisibilità, si reggono sullo sfruttamento di questa forza lavoro.

Questa cosa non sta succedendo ora, succede da vent’anni. Quello che sta succedendo ora è che questa forza lavoro che per vent’anni, anche a sinistra, è stata rappresentata e guardata come una forza lavoro troppo debole a livello di condizioni di riproduzione per essere sindacalizzata, per lottare, per ribellarsi, in realtà sta dimostrando che così non è e probabilmente non era neanche prima. Perché oggi i maggiori conflitti sindacali e sociali vedono davanti proprio lavoratori che qui sono immigrati, che non hanno il passaporto italiano, che vivono nelle condizioni di massima ricattabilità. Quindi quello che sta succedendo oggi, anche dentro la storia di Mondo Convenienza se andiamo a prima che scoppiasse lo sciopero, è che molti ci stanno chiedendo: questa situazione va avanti da dieci anni, ma allora qual è stata la scintilla? Qual è stata la “cosa grave” per cui le persone sono uscite fuori? La risposta è: nessuna. Non c’è stato qualcosa di negativo che è successo. È arrivato invece qualcosa di positivo. È arrivato che nella fabbrica di fronte a luglio dell’anno scorso, un anno fa, i lavoratori, sempre pakistani, si sono sindacalizzati e da lavorare 84 ore a settimana per 1.000€ sono arrivati a lavorare 40 ore per 1.400€. E la stessa cosa è successa nella pelletteria a fianco a Mondo Convenienza. Quand’è che i lavoratori si rivolgono al sindacato? Quando il pomeriggio escono e c’è lo sciopero nella fabbrica accanto. Quindi è in corso un processo di sindacalizzazione che sta anche ribaltando quelle condizioni di riproduzione che vengono utilizzate dal capitale per sfruttare questa forza lavoro. Prendiamo ad esempio le linee etniche, le reti che si formano a seconda della nazionalità: qua lo sciopero è iniziato da pakistani, come pakistani sono i lavoratori che avevano scioperato nella fabbrica di fronte e poi in quella accanto; ed è partito da pakistani ma oggi in sciopero ci sono pakistani, rumeni, moldavi, albanesi ed africani. Altra condizione di riproduzione: la casa. Il fatto di stare in sette o in otto nella stessa casa non deriva solo dall’esigenza di risparmiare sul prezzo dell’affitto, ma anche dal fatto che non hanno accesso al mercato immobiliare. Perché non puoi prendere in affitto una casa: devi prendere in affitto solo alle condizioni più vantaggiose per chi deve fare rendita, cioè devi affittare un posto letto, a dei prezzi relativamente esorbitanti, senza la possibilità di prendere la residenza perché non hai contratto, allora niente assistenza sanitaria, allora niente welfare ecc. E questa è una condizione legata anche alla soggettività che devi riprodurre, perché la casa ti serve per dormire e basta, perché non hai una vita sociale, lavori 12-13-14 ore al giorno quindi tu hai il tuo posto letto e basta. Però quel tipo di soggettività è oggi alla base della diffusione della sindacalizzazione: il tipo di meccanismo principale nella partenza degli scioperi dal 2018 ad oggi parte dai rapporti tra coinquilini. Parte dal fatto che a un certo punto uno della casa inizia ad avere quattro ore in più al giorno e due giorni in più alla settimana di vita e magari ha anche alzato il suo salario rispetto a quando lavorava dodici ore per sette giorni. Questo è il motore. Quindi il discorso per noi è vedere non la fragilità, la debolezza, né ovviamente il mito del contrario, ma vedere le due facce. Cioè l’ambivalenza: la sofferenza ma anche la forza che c’è sotto, come possibilità che nello sciopero si realizza. Le cose quindi si rovesciano. Le stesse condizioni di segregazione di una comunità che non ha il tempo di vita, non ha spazi di vita neanche per uscire dalla propria comunità definita secondo linee etniche alla fine quella diventa una forza, perché instauri delle reti sociali, relazionali, attraverso cui si diffonde la voglia di uno sciopero, si diffonde la conoscenza di una possibilità diversa. E quindi anche la possibilità poi di andare oltre questa segregazione. Questo presidio è forse la realizzazione più evidente in questo ciclo di lotte di questi ultimi anni. In questo presidio infatti, più di altre volte si incontrano soggetti che non si sarebbero mai incontrati dentro la normalità dell’organizzazione sociale del capitale. Lavoratori con lavoratori. I lavoratori della GKN, lavoratori italiani di una fabbrica storica metalmeccanica che lavorano a pochi passi da loro, normalmente non si incontrano mai. E non si devono mai incontrare, per una trama sociale che è organizzata per segregare i soggetti. Qua invece ci sono studenti medi, studenti universitari, pensionati, ci sono storie anche di lotta differenti che si intrecciano, si conoscono, si rafforzano, si contaminano. E quindi il discorso è vedere la forza sotto la segregazione utilizzata per lo sfruttamento per superarla, e quindi creare nuove comunità di lotta che stanno fuori dagli schemi, che creino una nuova comunità che non sia la comunità del capitale, quella costruita per estrarre valore da queste reti sociali, come sono tutte poi, non solo quelle dei migranti, anche le nostre.

The following two tabs change content below.
Laureato in Antropologia culturale ed etnologia all’Università di Bologna, attualmente dottorando in Ingegneria dell'Architettura e dell'Urbanistica alla Sapienza Università di Roma.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Captcha *