Abbiamo già parlato, in questo stesso giornale, dei Centri per il Rimpatrio o Cpr, dove vengono trattenuti i migranti irregolari in attesa di espulsione. E ci siamo soffermati a lungo sulla natura «problematica» (per usare un tenue eufemismo) di questi «centri»: che sono a tutti gli effetti luoghi di detenzione, in cui però vengono rinchiuse persone che non hanno commesso alcun reato. Strutture opache, estranee al normale circuito penitenziario e – soprattutto – contrarie ai principi più elementari di uno stato di diritto, i Cpr non possono che produrre abusi e violazioni sistematiche della dignità umana.
Ne è arrivata una conferma – l’ennesima – proprio in questi giorni, quando si è appreso che la Procura di Milano ha ordinato il sequestro del ramo d’azienda della Martinina Srl, la società che gestisce il Cpr di via Corelli, nel capoluogo lombardo. L’inchiesta, condotta dai procuratori Paolo Storari e Giovanna Cavalleri, ha fatto emergere gravi irregolarità nella gestione del centro, nell’erogazione del cibo e nel trattamento dei cittadini stranieri detenuti. L’intervento della magistratura, però, non sarebbe stato possibile senza il lavoro certosino di ricerca, documentazione e denuncia svolto nei mesi precedenti da alcune associazioni e realtà antirazziste, in particolare dal Naga, dall’Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) e dalla Rete No Cpr. Sarà bene dunque riavvolgere il nastro e raccontare tutta questa storia dall’inizio.
Le inchieste delle associazioni e del Garante
Le condizioni indegne in cui versa la struttura di Via Corelli sono note ormai da diversi anni. Nel 2021, per esempio, la magistratura milanese era intervenuta – su ricorso presentato dai legali dell’Asgi – per vietare all’ente gestore il sequestro dei telefoni cellulari dei detenuti (una prassi contraria alla legge, ma abituale in quasi tutti i Cpr): con una ordinanza del 15 Marzo, i giudici avevano ribadito che gli stranieri «ospiti» non dovevano essere privati della libertà di comunicare con l’esterno. L’anno dopo, l’Asgi aveva pubblicato un lungo rapporto sulle condizioni del Centro, evidenziando gravi criticità: assistenza sanitaria insufficiente, visite mediche superficiali, mancato ricambio della biancheria e degli abiti, assenza di un servizio di mediazione linguistica.
Sollecitato da queste denunce, il «Garante dei diritti delle persone private della libertà personale» – l’autorità di vigilanza sulle carceri, istituita dalla legge 146 del 2013 – ha effettuato nel Febbraio 2023 una visita ispettiva nella struttura di Via Corelli. Nel rapporto pubblicato al termine della visita, il Garante ha segnalato problemi analoghi a quelli già evidenziati dall’Asgi: i detenuti erano costretti a dormire su materassi di gommapiuma usati e sporchi, i bagni erano privi di porte, l’assistenza sanitaria gravemente insufficiente. Nell’Ottobre di quest’anno è uscito poi il secondo rapporto dell’Asgi che, sulla base delle carenze già riscontrate dal Garante, chiedeva alla Prefettura di sanzionare l’ente gestore, revocando l’aggiudicazione dell’appalto per gravi violazioni degli obblighi contrattuali.
Dal «buco della serratura». Il rapporto del Naga
Ma l’attività di monitoraggio più ampia e dettagliata è stata promossa dal Naga, storica associazione milanese impegnata nella tutela dei diritti dei migranti. Dopo aver raccolto dati, testimonianze, cartelle cliniche e documenti di ogni tipo, e dopo aver effettuato diversi sopralluoghi nel Centro di Via Corelli – al termine, dunque, di una intensa «osservazione dal buco della serratura», come dicono gli attivisti dell’associazione – il Naga ha prodotto un dossier di più di duecento pagine, da cui emergono situazioni ancor più gravi rispetto a quelle constatate dal Garante.
Il punto forse più critico riguarda l’assistenza sanitaria e la tutela della salute delle persone trattenute. Il rapporto dimostra che le visite mediche preliminari – quelle che in teoria dovrebbero accertare l’idoneità al trattenimento – sono svolte in modo sommario, quasi sempre in presenza di poliziotti in divisa, e con semplici colloqui (cioè senza strumenti diagnostici né analisi di approfondimento). Le cose vanno ancor peggio nella seconda visita, quella immediatamente successiva all’ingresso nella struttura: «i neo arrivati», si legge nel Report del Naga, «vengono obbligati a fare flessioni per espellere eventuali oggetti nascosti nell’ano. Un trattamento umiliante dalla dubbia utilità pratica, stigmatizzato in infinite occasioni dai tribunali (…). Una volta spogliati della loro umanità, ai trattenuti viene assegnato un numero identificativo: il numero con il quale saranno chiamati, da allora, fino al giorno in cui usciranno di là, segnati per sempre. Senza voler scadere nella retorica o in scomodi collegamenti con il passato, evidentemente non così passato, lasciamo a chi legge ogni considerazione al riguardo».
Nel centro si fa un uso improprio degli psicofarmaci, che vengono somministrati in modo indiscriminato per evitare proteste e rivolte: gli «ospiti» vivono in uno stato di continua sedazione, che li spinge a dormire tutta la giornata.
I «moduli abitativi» – cioè le stanze dove dormono i detenuti – sono allestiti in modo da non garantire in alcun modo la privacy delle persone accolte. Gli ambienti sono gelidi in inverno e roventi in estate, le lenzuola sono di carta, spesso manca l’acqua calda nei bagni, e gli stranieri non dispongono di ricambi del vestiario. Il cibo arriva maleodorante e già scaduto, spesso i piatti sono pieni di vermi, e i migranti sono costretti a mangiare seduti su sedie di metallo inchiodate a terra.
Le cose non vanno meglio nelle aree comuni, quelle destinate alla socialità: «All’interno del CPR, il nulla totale», si legge ancora nel report. «Nessuna attività ricreativa, per quanto queste possano alleviare l’obbrobrio umano e giuridico di questo luogo: nessun libro da leggere, solo una Tv dietro una gabbia, posta in alto in un angolo della sala mensa (…). È vietato tenere penne e carta: le prime possono essere ingerite e la seconda adoperata per appiccare incendi. Questa è la giustificazione del gestore (…). Le attività ricreative, da capitolato, dovrebbero essere organizzate all’interno del CPR. Dovrebbe esserci una lista delle attività settimanali, esposta e accessibile. Così non è, malgrado l’Ente Gestore abbia vinto il bando anche grazie all’offerta di fantomatiche attività sportive e ricreative».
I rimpatri sono effettuati senza preavviso, spesso con abusi e violenze fisiche. «Arrivano di notte, i poliziotti, a immobilizzare il trattenuto con la forza, spesso mentre dorme. Oppure usano l’inganno. Mentono dicendo al trattenuto che deve andare in infermeria per una qualche terapia, e quando esce dalla cella di sua volontà gli si avventano addosso e lo infilano con la forza in qualche camionetta blindata, diretto in aeroporto, puntualmente legato (in violazione delle raccomandazioni del Garante Nazionale e delle convenzioni internazionali) (…). Le notizie che trapelano dal Cpr di Milano parlano anche di super iniezioni di valium applicate a trattenuti agitati, in fase di rimpatrio o durante il trasferimento in altri Cpr».
Dai mancati controlli della Prefettura all’inchiesta giudiziaria
Di fronte ad accuse così dettagliate e circostanziate la Prefettura, in quanto stazione appaltante responsabile del Centro, avrebbe dovuto intervenire. Dalle carte risulta in effetti che i funzionari prefettizi erano ben consapevoli di quanto stava accadendo, tanto che avevano inflitto una maxi-multa alla Martinina Srl, l’ente gestore del Cpr di Via Corelli. Tuttavia, il 13 Novembre scorso – proprio mentre irrogava la sanzione per gravi inadempimenti contrattuali – la Prefettura disponeva il rinnovo del contratto alla stessa Martinina per tutto l’anno 2024: una scelta irresponsabile e incomprensibile.
Agli inizi di Dicembre, come si accennava, è partita l’inchiesta giudiziaria coordinata dai Pm milanesi Paolo Storari e Giovanna Cavalleri. E dalle carte della Procura sono spuntate nuove rivelazioni. Una ex operatrice della Martinina srl, per esempio, ha raccontato numerosi abusi nella gestione quotidiana del centro: «Ricordo una volta che, poiché erano avanzate delle vaschette di pasta, erano state offerte a noi dipendenti. A me sembrava pasta con il gorgonzola, in quanto aveva un odore rancido, poi mi sono accorta invece che era pasta con le zucchine andata a male. Ho cercato di evitare che venisse mangiata dai trattenuti, ma non sono arrivata in tempo, 40 persone hanno avuto un’intossicazione alimentare. Quasi tutti i giorni il cibo era scaduto o avariato» (citato in Il Manifesto, 15 Dicembre 2023).
Via Corelli, dove tutto è cominciato
Di fronte a fatti così gravi, è difficile non ricordare che quello di Via Corelli è stato uno dei primi «Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza» (così si chiamavano in origine i Cpr) allestiti sul suolo italiano: venne aperto nel lontano 1999, subito dopo l’approvazione della legge Turco-Napolitano, e fu sin dall’inizio oggetto di inchieste giornalistiche e di denunce della società civile.
Il 19 Gennaio 2000 Fabrizio Gatti, un giornalista che all’epoca lavorava per il Corriere della Sera, pubblicò un ampio reportage sulle condizioni inumane in cui erano trattenuti i migranti in Via Corelli. Gatti si era fatto passare per cittadino rumeno (all’epoca la Romania non faceva ancora parte della Ue, e i rumeni erano ancora «extracomunitari» passibili di espulsione), e si era fatto internare proprio nel centro di detenzione del capoluogo lombardo.
L’inchiesta di Gatti risale a venti anni fa, ma molte cose sono simili a quelle di oggi: «I pasti, precotti, sono serviti in contenitori di plastica scaldati in un forno elettrico. La puzza di urina è come uno schiaffo. Colpa di chi ha progettato i container: la latrina è talmente piccola che per chiudere la porta bisogna mettere i piedi dentro la turca. Quando si esce, le suole distribuiscono sul pavimento il liquame raccolto. Anche perché questi container li hanno sì presi dalle zone terremotate: ma da quelle dell’Irpinia, 20 anni fa, come indicano le etichette sopra gli ingressi (…). Si passeggia su e giù come i leoni nello zoo. La grande gabbia è lunga 135 passi e larga 70 (…). Due dei tre telefoni a scheda non funzionano. Il distributore di schede telefoniche è fuori servizio e anche quello delle monete»
In venti anni, la realtà di Via Corelli è diventata sempre più inumana, sempre più degradante, sempre più costosa per l’erario e per i contribuenti. In venti anni le cose sono solo peggiorate, sia con i governi di centro-sinistra che con quelli di centro-destra. Dal nostro punto di vista, è l’ennesima dimostrazione di come i Cpr non si possano riformare, migliorare o «umanizzare». La soluzione migliore – per i migranti, e per la tenuta della nostra democrazia – è una sola: chiuderli. Tutti.
Sergio Bontempelli
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….. e si noti bene, come l’articolo ben dignitoso cita, che i Cpr sono opera iniziale della sinistra, quella di Napolitano emerito presidente della Repubblica…..