Il trattenimento/detenzione dei migranti in Albania ha rappresentato, per il governo Meloni, un gigantesco flop. Non è detto, beninteso, che questo «fiasco» abbia delle conseguenze sul consenso popolare all’esecutivo: in un’epoca dominata dai social network, gli orientamenti dell’opinione pubblica sono condizionati più dalla propaganda che dal confronto con la realtà. Resta il fatto che, almeno sul piano del governo effettivo dei fenomeni migratori, tutta l’operazione Albania si è rivelata disastrosamente fallimentare.
La vicenda ha occupato per diversi giorni le prime pagine dei giornali, ed è stata raccontata ampiamente da tutti gli organi di informazione. Se la ripercorriamo qui, è soprattutto per illustrarne gli aspetti più tecnici (quelli che magari sono sfuggiti ai «non addetti ai lavori») e per spiegare il significato di alcuni termini – «Paesi sicuri», «procedure accelerate», ecc. – che possono risultare poco chiari.
Il contesto: la «guerra all’asilo»
La prima cosa da sapere è che l’accordo con l’Albania non riguarda «i migranti» genericamente intesi, ma solo coloro che si presentano alla frontiera e chiedono asilo politico. Non è un dettaglio di poco conto, perché nella stragrande maggioranza dei casi i cittadini stranieri arrivano in Italia con un regolare visto di ingresso, e chiedono un permesso di soggiorno per lavoro, per studio o per motivi familiari (se hanno un parente che già risiede sul territorio): questi cittadini stranieri, impropriamente definiti «migranti economici», non sono in alcun modo toccati dalle norme sulla deportazione in Albania.
L’accordo con il Paese delle Aquile riguarda solo coloro che fuggono dalle loro terre di origine per sottrarsi alle violenze, alle persecuzioni, alle guerre o alle violazioni dei diritti umani, e che per questo chiedono «protezione» all’Italia: la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, le norme europee e la stessa Carta Costituzionale consentono allo straniero di arrivare alla frontiera anche senza un visto di ingresso – dunque in modo formalmente irregolare – allo scopo di presentare domanda di asilo.
Negli ultimi anni i governi europei, decisi a bloccare a qualsiasi costo i fenomeni migratori, hanno introdotto pesanti restrizioni alla possibilità di chiedere e ottenere asilo: hanno così vanificato (o cercato di vanificare) un diritto fondamentale, riconosciuto da tutte le Costituzioni dei Paesi democratici. E ciò – sia detto per inciso – dovrebbe farci riflettere sul carattere potenzialmente eversivo delle politiche migratorie restrizioniste: che stanno rimettendo in discussione i fondamenti stessi dello stato di diritto.
Per legittimare la loro «guerra all’asilo», tanto i governi di centro-destra quanto quelli di centro-sinistra hanno agitato spesso lo spettro del «falso rifugiato»: hanno sostenuto cioè che gli stranieri che si presentano alle frontiere non sono davvero perseguitati, ma vogliono semplicemente venire a lavorare in Europa; sono dunque «migranti economici» che chiedono asilo al solo scopo di ottenere un permesso di soggiorno.
Si tratta di una grossolana mistificazione, per almeno due motivi. In primo luogo, perché i profughi che viaggiano lungo le rotte mediterranee provengono quasi sempre da zone in cui vi sono conflitti, guerre civili e governi autocratici: si pensi ai Paesi dell’Africa Occidentale, all’Egitto, alla Siria o al Pakistan, solo per citare gli esempi più noti. In secondo luogo, perché le stesse categorie di «rifugiato» e «migrante economico» non sono affatto incompatibili tra loro: chi fugge dalle persecuzioni cerca anche una vita migliore e – d’altra parte – la povertà e le misere condizioni in cui vivono ampie fasce di popolazione in alcune parti del mondo sono anche il frutto di politiche autoritarie e discriminatorie. Per coloro che emigrano in Europa, insomma, il confine tra le motivazioni «economiche» e quelle «politiche» è sempre molto labile.
Procedure accelerate e «Paesi sicuri»
Per i governi europei, però, l’obiettivo prioritario è «smascherare» le domande di asilo ritenute «false»: quelle, cioè, presentate da persone che non sarebbero realmente perseguitate nei loro Paesi di origine. Il sospetto ricade in particolare sugli stranieri che varcano in modo irregolare le frontiere esterne dell’Ue: nel loro caso, si dice, le domande di asilo sono un pretesto per sottrarsi al respingimento o all’espulsione.
Per contrastare questo uso asseritamente fraudolento della protezione internazionale l’Unione Europea ha introdotto delle procedure «accelerate», nelle quali la domanda di asilo viene valutata in tempi eccezionalmente brevi, e i richiedenti hanno scarse possibilità di presentare ricorsi ai tribunali. Per di più, in attesa della decisione sulla loro domanda gli stranieri rimangono detenuti in un centro di trattenimento, sorvegliati a vista dagli agenti di polizia: una condizione non proprio ideale per raccontare la propria storia, e per spiegare le ragioni della fuga dal Paese di origine.
In Italia, queste forme di esame «sbrigativo» delle richieste di protezione sono state introdotte dal decreto 142 del 2015, e sono state poi perfezionate dal cosiddetto «decreto Salvini» (d.l. n. 113/2018): secondo le norme attualmente in vigore, nel caso di procedura accelerata la Commissione (cioè l’organo preposto a valutare le domande di asilo) deve ascoltare il richiedente nel giro di sette giorni, e deve decidere nei successivi due giorni.
Tra coloro che possono essere sottoposti alla procedura accelerata vi sono gli stranieri che varcano irregolarmente le frontiere e che provengono da Paesi di origine ritenuti «sicuri». Nel linguaggio delle burocrazie Ue è definito «sicuro» un Paese in cui vige lo stato di diritto, in cui vi sono libere elezioni e in cui non si registrano forme gravi di discriminazione e di persecuzione. La logica è sempre quella del sospetto: chi viene da un Paese «sicuro» (cioè «sicuramente democratico») non può essere davvero un perseguitato politico; di conseguenza, la sua domanda di asilo deve essere considerata falsa e pretestuosa, salvo prova contraria. L’accordo con l’Albania riguarda proprio i richiedenti asilo provenienti da luoghi «sicuri»: sono loro i principali destinatari della detenzione amministrativa nel Paese delle Aquile.
I «Paesi sicuri»: in contrasto con la Convenzione di Ginevra
Le norme sui «Paesi sicuri» sono però in potenziale contrasto con la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Per rendersene conto basta dare un’occhiata al primo articolo di quella Convenzione: qui si dice che il termine «rifugiato» si applica «a chiunque [abbia] un giustificato timore di essere perseguitato». La parola «chiunque» non è stata messa a caso: chi ha scritto la Convenzione intendeva dire che la persecuzione può avvenire in tempo di guerra e in tempo di pace, in Stati dittatoriali così come in Paesi democratici, in aree culturalmente «arretrate» (o presunte tali) così come in territori «evoluti» e «civili». Dunque, per decidere sulla legittimità di una domanda di asilo, è necessario valutare sempre il singolo caso, la storia del richiedente, la vicenda specifica che ha vissuto. Nessun Paese è «sicuro» in senso assoluto, e selezionare i richiedenti sulla base della nazionalità è contrario allo spirito, se non proprio alla lettera, della Convenzione di Ginevra.
I legislatori europei lo sapevano e lo sanno molto bene, e infatti si sono in qualche «cautelati»: quando hanno approvato la Direttiva 2013/32/UE, hanno pensato bene di precisare che un Paese può essere considerato sicuro solo se «si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (…) né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante». L’espressione «generalmente e costantemente» è chiarissima: un Paese è «sicuro» solo se si accerta che mai, in nessun caso, si verificano violazioni dei diritti umani. Ci torneremo tra un attimo.
Cosa hanno detto i giudici…
Il Tribunale di Roma, come noto, non ha autorizzato l’invio dei migranti in Albania, vanificando così tutta l’operazione predisposta dal Governo Meloni. E, come era prevedibile, il centro-destra ha gridato allo scandalo, accusando i giudici di aver scritto una sentenza tutta «politica». In realtà, se si leggono i provvedimenti dei magistrati ci si accorge che non c’è nulla di politico: la decisione di non autorizzare i trattenimenti è stata presa sulla base delle normative europee che abbiamo descritto sommariamente qui sopra.
I migranti che dovevano essere condotti nei centri di detenzione albanesi provenivano dall’Egitto e dalla Tunisia: analizzando i report predisposti dal Ministero degli Esteri, il Tribunale di Roma ha concluso che questi due Paesi non possono considerarsi «sicuri» ai sensi del diritto Ue. Nel caso dell’Egitto, è stata la stessa Farnesina a sostenere che i diritti umani sarebbero garantiti (!) «ma con eccezioni per alcune categorie di persone: oppositori politici, dissidenti, difensori dei diritti umani» (il caso Regeni dovrebbe dirci qualcosa…). Quanto al Bangladesh, sempre il Ministero degli Esteri ha parlato di Paese sicuro ma, di nuovo, «con eccezioni per alcune categorie di persone: appartenenti alle comunità LGBTQ+, vittime di violenza di genere, minoranze etniche e religiose, accusati di crimini politici, condannati a morte, sfollati climatici». E se ci sono queste «eccezioni», non si può dire che i diritti umani sono «generalmente e costantemente» rispettati. Dunque, il Paese di origine non può essere «sicuro». Elementare.
…e come ha risposto il Governo
Il Governo Meloni ha emanato proprio in questi giorni il decreto legge n. 158 del 2024, con l’intenzione di «superare» le obiezioni dei magistrati. Tutta la faccenda sta a metà strada tra il comico e il grottesco perché, diversamente da quanto ha affermato il Ministro della Giustizia Nordio, il decreto risponde a obiezioni che i giudici non hanno sollevato affatto…
La norma, che ora andrà alla Camera per la conversione, si limita infatti a introdurre in una vera e propria legge quella lista dei Paesi «sicuri», che fino ad ora era contenuta in un semplice decreto ministeriale (dunque in una fonte secondaria). Così, dicono Nordio and company, i giudici dovranno applicare la legge, e non potranno più rifiutarsi di convalidare i trattenimenti in Albania.
Per i magistrati, però, il problema era tutt’altro. L’inserimento del Bangladesh e dell’Egitto nella lista dei Paesi sicuri era illegittima non perché era affidata a una fonte del diritto secondaria, ma perché era in contrasto con le norme dell’Unione Europea. E quando una legge italiana è in contrasto con le norme Ue, si applicano le norme Ue e non la legge nazionale: quest’ultima, per usare un termine tecnico, va semplicemente «disapplicata». Questo lo sanno (o lo dovrebbero sapere) tutti gli operatori del diritto: gli studenti di Giurisprudenza, per dirne una, lo imparano già nel primo anno di studi. Che i Ministri della Repubblica e i loro uffici legali non lo abbiano ancora capito, o fingano di non capirlo, è un grave sintomo della piega eversiva che sta prendendo la politica italiana.

Sergio Bontempelli

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